“Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” (Mt 18, 21-359).
A
Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere
certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. “Quante volte devo perdonare?
Fino a sette volte?”. Era il limite imposto dalla legge antica. E Gesù: “Non
ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”.
Il che
significa, caro Pietro, che non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché?
Semplicemente perché il “tuo” perdono non deve provenire dalla tua buona predisposizione
caratteriale, ma deve essere la logica e consapevole conseguenza del fatto che
Dio perdona te in ogni occasione, sempre, di continuo. Chi si guarda un po’
dentro, infatti, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal
perdonare a sua volta.
L’unica
misura del perdono è quindi perdonare sempre: senza misura, senza calcoli;
perché è quanto Dio fa con noi.
La nuova
giustizia che Gesù introduce nel Regno, dunque, non è quella che si basa sulla regola
del “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia
propria di chi ama senza limiti; Egli sostituisce cioè la giustizia della legge
“che uccide”, con la sua, la legge dello Spirito che “dona vita”.
Perdono
incondizionato: questo deve essere il nostro riferimento. Ma in cosa consiste il
perdono? Come viverlo? Come si giustifica? Sono le domande che ci nascono
spontanee.
Ecco
allora che Gesù, con la parabola del servo “graziato”, ci porta a fare le
dovute considerazioni pratiche: questo servo doveva al suo re una somma esorbitante,
“diecimila talenti”, una cifra enorme, incalcolabile, poiché per raggiungerla avrebbe
richiesto l’intero salario giornaliero di duecentomila anni di lavoro.
Un’assurdità. Consapevole di questo, il servo tenta il tutto per tutto: va dal
suo creditore, si getta ai suoi piedi e lo supplica tra le lacrime. E il re
prova compassione per lui; si immedesima talmente nella sua angoscia, nella sua
disperazione, da condonargli, in uno slancio di misericordia, l’intero debito.
Un condono tombale, senza alcuna penalità.
Bene:
quel servo, ottenuta la grazia per il suo mostruoso debito, uscito dalla
residenza reale, incontra un suo pari che gli doveva poche monete; da notare la
precisazione di Matteo: “appena uscito”, non una settimana dopo, non il
giorno dopo, non un'ora dopo, ma “appena uscito!”: e, nonostante fosse ancora
nel pieno dell’emozione e della gioia per la cancellazione del suo debito, in
preda ad una collera improvvisa, assale quel poveretto e lo strangola gridando “rendimi
ciò che mi devi!”: una inezia rispetto ai miliardi che gli erano stati
appena graziati! E senza pietà alcuna, sordo alla richiesta di pazientare del
meschino, lo fa gettare in prigione.
Certo, di fronte alla legge egli avrà agito anche correttamente,
ma ha comunque dimostrato di essere un uomo spregevole, senza pietà, senza il
minimo senso di giustizia. Non ha saputo riconoscere
al compagno, che gli doveva una somma irrisoria, quella stessa misericordia che
poco prima il re gli aveva accordato condonandogli un debito smisurato,
incalcolabile.
Capita molto spesso anche a noi,
malauguratamente, di reagire d’impulso contro insignificanti inadempienze
ricevute e, come quel servo, rivendichiamo con cattiveria i nostri diritti,
esigendo l’immediato risarcimento dei danni, ancorché irrilevanti.
Ma questa è una scelta che non paga
mai, che non risolve in alcun modo i nostri problemi, poiché introduce un
meccanismo perverso con cui il male richiama altro male, la violenza genera
altra violenza, chiamando in causa famiglie intere, moltiplicando all’infinito
odio e avversione: la sete di vendetta infatti corrode l’anima, fa vivere nel
tormento, porta l'inferno nel cuore.
Nondimeno, non è raro imbattersi
quotidianamente in situazioni del genere: vicini di casa che litigano per un
nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza riprendere un dialogo, una
parola, un saluto; genitori e figli che interrompono drasticamente qualunque
rapporto per motivi puerili, banali, distruggendo in tal modo l’armonia
familiare; persone di chiesa, cristiani convinti, che dilaniandosi l’anima per
immaginarie ingiustizie o critiche subite da altri fedeli o dai preti di turno,
abbandonano sdegnosamente la loro comunità ecclesiale; religiosi laici e
consacrati che, in intimo contrasto tra loro, pur assistendo quotidianamente
all’Eucaristia, incuranti dell’invito di Gesù di praticare amore e
misericordia, insistono nel vivere schiavi del loro rancore. Sono tutte persone
che preferiscono rimanere orgogliosamente arroccate sulle loro posizioni, pur
sapendo che il perdono è l'unica strada che consente di vivere un’esistenza
feconda, autentica, serena e felice.
Certo, si tratta di una strada
difficile da percorrere, questo sì. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto
quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con
il Suo aiuto.
L’impegno
inderogabile per noi cristiani, ci dice dunque Gesù, è quello di perdonare,
sempre e comunque, proprio perché sappiamo che Dio lo fa continuamente con noi.
Dobbiamo cioè perdonare perché siamo dei “perdonati privilegiati”: siamo noi
per primi che, continuamente e gratuitamente, senza merito alcuno, sperimentiamo
il perdono divino.
Può succedere anche che talvolta il nostro perdonare come Gesù ci ha insegnato, rischi di essere ridicolizzato dalla gente, ci venga rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità. Poco importa: chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può più astenersi dal trattare comunque tutti come fratelli, con sincerità, con amore, con la massima indulgenza.
Allora possiamo dire che una comunità è “osservante”, “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti, immacolati, non sbagliano mai e non si permettono di offendere gli altri; ma perché si sentono dei “perdonati” e in quanto tali amano e perdonano i fratelli. Il male reciproco che, nella loro debolezza, inevitabilmente fanno, non costituisce quindi un elemento dirompente, ma nel reciproco perdono diventa il collante che li unisce saldamente tutti in Cristo, santificandoli.
Davanti a Dio siamo tutti peccatori, debitori insolvibili, perché mai, in tutta la nostra vita, potremmo restituirgli l’amore che Egli, con la sua infinita misericordia, ci dona continuamente: quell’amore che, dal canto nostro, disinvoltamente, calpestiamo continuamente con le nostre intemperanze. Sì, perché anche noi, come il servo del vangelo, spesso e con facilità siamo “giusti” ma spietati, “corretti” ma cattivi; siamo persone magari rispettose del diritto e della giustizia umana, ma molto meno inclini alla carità, alla pietà e alla misericordia.
Dobbiamo quindi capire, una volta per
tutte, che il
perdono guarisce, ripaga, matura e fortifica chi lo esercita, non chi lo riceve;
e che quindi, perdonando, facciamo prima di tutto i nostri interessi! Amen.
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