Gesù
cerca un luogo appartato. Pressato dalla gente e dal bisogno di stare un po’ da
solo per ritemprarsi, per ascoltarsi, per riposare, sale su una barca e si
allontana. Quando
ritorna, la folla si è moltiplicata: una moltitudine enorme di gente lo sta
aspettando: gente accorsa dalle città, che per vederlo ha fatto tanta strada; e
lo ha aspettato.
Dove c'è
la verità la gente aspetta, si mette in coda, affronta sacrifici, fatiche,
distanze chilometriche, pur di ascoltarla. Perché la verità soddisfa tutti,
finisce per appianare ogni difficoltà.
Ma sta
sopraggiungendo la notte, il luogo è deserto, e un problema assilla i
discepoli: “Qui si fa sera, la gente ha fame. Che facciamo?”. Alla loro
preoccupazione, Gesù risponde tranquillamente: “Date voi stessi da mangiare”
(dòte autois umeis faghèin). “Ma Signore, non abbiamo altro che cinque pani e
due pesci!”. “Portatemeli qui”.
Ed ecco il miracolo: la moltiplicazione di quei pani e di quei pochi pesci! E tutti ne mangiarono a sazietà, circa cinquemila uomini oltre donne e bambini e alla fine rimasero addirittura dodici ceste piene di avanzi.
Ed ecco il miracolo: la moltiplicazione di quei pani e di quei pochi pesci! E tutti ne mangiarono a sazietà, circa cinquemila uomini oltre donne e bambini e alla fine rimasero addirittura dodici ceste piene di avanzi.
Una
straordinaria moltiplicazione che ci dice: “condividi”: più si condivide, più
le cose si moltiplicano e bastano per tutti”. L'unione fa la forza.
Condividiamo quello che abbiamo, quello che siamo, quello che conosciamo e
tutto si moltiplicherà. Se ci mettiamo insieme, i miracoli avvengono. Se ognuno
fa la sua parte, l'impossibile diventa possibile. In qualunque realtà sociale,
lavorativa, religiosa, più ognuno mette a disposizione degli altri le proprie
informazioni, le proprie capacità, le proprie risorse professionali, umane e
spirituali, più quella realtà funzionerà, raggiungerà i suoi obiettivi. In una
comunità, in una famiglia, più uno condivide ciò che vive, ciò che prova, gli
alti e i bassi delle proprie giornate, più l'unione si moltiplica, più diventa
forte, intima, inattaccabile, profonda.
Una
gioia condivisa si moltiplica; un dolore condiviso si dimezza.
Mentre
la società moderna tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a
singolarizzarci, noi abbiamo bisogno di metterci insieme, di aiutarci, di
condividere, di offrire ciascuno ciò che può offrire.
Il
miracolo di Gesù ci offre un ulteriore significato: “quel che sembra
impossibile spesso non lo è”. Essere credenti significa considerare l'impossibile
come possibile. Sfamare cinquemila uomini, un’impresa impossibile! Ma non per
Gesù. Non per chi crede veramente.
Le cose
molte volte non sono impossibili; le immaginiamo tali, ma sono solo faticose:
sono “impossibili” perché ci costringono a faticare, ci costringono a cambiare
e a rivoluzionare la nostra vita. E questo ci spaventa, ci porta ad evitarlo.
Questo
vangelo inoltre è anche un meraviglioso inno all'umiltà: “fidati di quel poco
che sei, di quel poco che hai”. Cinque pani e due pesci è quello che noi siamo.
Ben poca cosa!
Se consideriamo
le nostre aspirazioni, le nostre capacità, le nostre doti, ciò che possiamo
fare o che siamo capaci di fare, siamo effettivamente ben poca cosa.
Ma qui
sta il miracolo della vita e del vangelo: ciò che per l'uomo è scarso, piccolo,
limitato, per Dio è grande, prezioso, senza limiti. E se ci fidiamo di quel
poco che Dio ci ha dato, faremo sicuramente cose grandi.
A tutti
noi piacerebbe avere doti straordinarie, essere bravi musicisti, atleti,
simpatici ed empatici, avere doti fuori dal comune, essere abili
nell'informatica, nelle lingue, profondi e sensibili con le persone. Ma se
avessimo tutto questo ci crederemmo sicuramente persone “superiori”, dotate di
poteri divini, quasi altrettanti dei; per questo Dio, conoscendo bene questo pericolo,
non ci ha concesso troppe capacità, si è fermato a “cinque pani e due pesci”.
Ma è proprio
da qui che deve emergere la nostra fede: perché se ci fidiamo di quel poco che Dio
ha messo nel nostro cuore, compiremo sicuramente cose grandi e meravigliose.
Dalla
lettura del testo possiamo cogliere due atteggiamenti molto indicativi: quello
dei discepoli, che non valorizzano quel poco che hanno, e quello di Gesù che, al
contrario, prende la loro “miseria”, guarda il cielo (cioè ringrazia Dio per
quel che c'è) e la benedice.
Sono gli
stessi nostri atteggiamenti nei confronti della vita: possiamo cioè disprezzarla
o benedirla. Possiamo cioè rinfacciare a Dio di non averci concesso quello che secondo
noi meritavamo, e in tal caso viviamo praticamente in uno stato cronico di auto
commiserazione; oppure possiamo ringraziarlo e benedirlo per ciò che siamo, e
vivere in una laboriosa serenità.
Conosciamo
molto bene l’antica esortazione: “Accettati per quello che sei”.
Ma in realtà
difficilmente ci accettiamo, ci vorremmo diversi, più belli, più intelligenti,
più simpatici, più atletici, più benestanti, e via dicendo: quando invece dovremmo
imparare ad accontentarci, ad accettarci per come siamo; dovremmo in una parola
imparare ad amarci, ad essere felici e soddisfatti anche se disponiamo di soli
“cinque pani e due pesci”.
Aver
fede significa appunto accettare con riconoscenza la nostra realtà, perché
tutto, la vita stessa, è un grande dono che viene dall'Alto, viene da Dio; è
Lui che ci ha creati, che ci ha voluti con la nostra specifica fisionomia. Recriminare,
voler essere diversi, significa rimproverare a Dio di essersi sbagliato, di
aver creato con noi qualcosa di scadente, di fatto male.
Mentre,
al contrario, dovremmo avere l'umiltà di riconoscere che in quella minuscola e
insignificante creatura che siamo, Egli ha lasciato il segno indelebile della sua
grandezza, della sua forza, del suo amore: di conseguenza cambiare, diventare
migliori, aspirare al Bene Assoluto, non è compito Suo, ma è un progetto a
totale nostro carico, è la missione che Lui ci ha assegnato in questa nostra
vita.
Capita
invece che noi difficilmente ci lasciamo
coinvolgere in questo: siamo decisamente
contrari a crescere, a condividere, ad investire a favore dei “cinquemila e
oltre” fratelli, i nostri “cinque pani e due pesci”. Soprattutto non
accettiamo di venire sollecitati dall’esempio altrui, da quanto fanno i nostri
vicini, i nostri amici, tutte quelle persone che vivono con fede la loro
chiamata.
La nostra è comunque una meschina
scappatoia, è un nasconderci dietro un dito; perché alla fine, il vero vincente
non è colui che si ferma a guardare e criticare gli altri, ma colui che impegna
seriamente i propri carismi, le proprie forze, le proprie potenzialità in una
fraterna condivisione: senza grandi proclami, senza tante parole, ma con i
fatti concreti.
Se poi nella
risposta che Gesù ha dato ai discepoli (“date voi stessi da mangiare”)
trasformiamo il soggetto in complemento oggetto, le parole acquistano un senso ancor
più impegnativo: “date da mangiare voi stessi”, ossia “offrite la vostra
persona in cibo per gli altri, condividete con i fratelli tutto ciò che siete,
tutto ciò che avete”: il massimo della condivisione.
Non
è un’assurdità: Gesù stesso ci ha lasciato a questo proposito un esempio
sublime, reale e concreto.
Pensiamo
infatti a quanto succede ogni volta nella santa Messa, nell’Eucaristia: Egli
ripete a nostro beneficio lo stesso miracolo della moltiplicazione e
condivisione; trasforma cioè la sostanza di un pane, che è ben poca cosa, nel
suo Corpo, e lo divide fra tutti.
Un “niente” che diventa “Tutto per tutti”. E non basta: perché oltre al pane, Gesù trasforma anche noi, uno per uno, individualmente: assumendolo, cioè, Egli ci tocca dentro, ci scuote, ci commuove. Dobbiamo aver fede e saperlo ascoltare nel silenzio del nostro intimo: perché il suo è un tocco d’Amore che ci riscalda il cuore, ci travolge l’anima; ci impedisce di essere quelli di prima, ci rinforza, ci risana; insomma ci fa diventare “nuovi”, radicalmente diversi.
Un “niente” che diventa “Tutto per tutti”. E non basta: perché oltre al pane, Gesù trasforma anche noi, uno per uno, individualmente: assumendolo, cioè, Egli ci tocca dentro, ci scuote, ci commuove. Dobbiamo aver fede e saperlo ascoltare nel silenzio del nostro intimo: perché il suo è un tocco d’Amore che ci riscalda il cuore, ci travolge l’anima; ci impedisce di essere quelli di prima, ci rinforza, ci risana; insomma ci fa diventare “nuovi”, radicalmente diversi.
Se crediamo veramente in Lui e
gli siamo fedeli, avremo la conferma che quel niente, quel nulla che siamo,
diventerà con Lui ogni volta davvero tantissimo, una immensità! E il compimento
della nostra missione diventerà sempre più lieve, più vicino, più attuabile. Amen.