“Convertitevi,
perché il regno dei cieli è vicino”.
(Mt 4,12-23).
Venuto a
conoscenza dell’arresto di Giovanni, Gesù abbandona Nazareth per rifugiarsi
nelle zone più a nord della Galilea, precisamente a Cafarnao, sulla riva del
Lago di Genesaret, nei territori di Zabulon e Neftali, abitato dalle omonime
tribù di Israele. Un territorio di frontiera che i puri di Gerusalemme a quei
tempi guardavano con molto sospetto, luogo in cui si mischiavano credenze e
riti, culture e lingue, luogo imbastardito, meticcio, perduto. Basti pensare
che proprio da quei territori proveniva il movimento estremista degli zeloti, e
che dare del “Galileo” a qualcuno equivaleva definirlo “terrorista”.
È
proprio da questo luogo che Gesù inizia la sua predicazione, dai confini della
storia.
Dio è
sempre così, preferisce i lontani, quelli con una vita difficile, a quelli che
vivono tranquillamente, senza grossi problemi: Gesù preferisce abitare e
condividere tutto con queste persone, ad esse egli porta la luce, dona
testimonianza.
È un
primo segno molto importante per noi, per noi Chiesa: perché, come Gesù, anche
noi dobbiamo uscire dalle nostre case, dalle nostre chiese, portando e
testimoniando al mondo il Dio con noi; perché Lui è stanco di rimanere solo,
abbandonato nei tabernacoli, di non riuscire ad inserirsi nella nostra società,
nella vita quotidiana di tutti; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti e
nei luoghi “sacri” e di essere estromesso dai luoghi dell’economia, della
politica, del divertimento, della cultura.
Ecco
allora che il motivo per cui noi cristiani ci raduniamo ogni domenica per celebrare
la vittoria pasquale di Gesù, deve essere quello – una volta usciti di chiesa –
di annunciare e testimoniare Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nella “realtà”
di ciascuno!
Per
poter fare ciò, dobbiamo però, prima di tutto, realizzare in noi la
conversione.
“Convertitevi!”
è infatti l’invito bruciante che ci raggiunge oggi: “Convertitevi perché il
Regno si è fatto vicino”. Cosa significa? Che è il Regno di Dio che si è
avvicinato, indipendentemente da noi: in pratica è stato lui, Dio, che ha preso
l’iniziativa; ora spetta a noi seguirlo, “convertendoci”, facendo cioè inversione
di marcia nella nostra vita.
Dio ci
aspetta: non intende rimproverarci, farci qualche bonaria paternale, per farci
pentire e cambiare vita. Nossignori: È Lui che per primo, si mette in gioco, si
offre, si dona incondizionatamente, rischia tutto. In pratica ci dice: “Io ti sto
vicino, come fai a non accorgertene? Datti da fare, seguimi!”. Ovviamente, per
seguirlo, dobbiamo recuperare l’essenziale, dobbiamo mollare il “superfluo”, le
innumerevoli cose inutili che ci affannano la vita: come hanno fatto Pietro, Andrea,
Giacomo e Giovanni che, alla chiamata di Gesù, abbandonano all’istante quanto
stavano facendo, e accettano di diventare “pescatori” di uomini.
“Convertitevi!”:
è dunque l’ordine secco, perentorio, di Gesù, sullo stile del Battista.
Non sono
ammessi rinvii: dobbiamo farlo ora e subito; dobbiamo cioè, all’istante,
metterci in discussione, cambiare mentalità, buttare via le certezze
ingannevoli, per cercare Lui, la Verità che non inganna.
Non
dobbiamo temere le prove, di subire sconfitte e delusioni: perché è proprio nel
momento in cui il nostro piccolo mondo crolla, in cui le nostre aspirazioni, i
nostri progetti umani cadono in frantumi, che Dio trova in noi il terreno
ideale per realizzare il suo progetto.
Quando
cadono le sicurezze umane, è l’ora della sicurezza di Dio, perché Dio ci
aspetta là, sulla strada della sconfitta del nostro “ego”, della nostra
presunzione: è infatti quando viviamo nell’umiltà, nella consapevolezza del
nostro essere niente, che avviene l’incontro con Lui, l’unico Signore della
nostra vita.
Purtroppo,
oggi più che mai, è difficile capire il significato, la portata, le conseguenze
di questo “convertitevi”: siamo troppo legati alle inutili prospettive del
mondo: ma solo accettando l’invito di Gesù, fidandoci di Lui e “cambiando
strada”, potremo scoprire un nuovo panorama, una vita completamente diversa,
quella del Regno di Dio, ricca, intensa, profonda.
E ci
diremo: “Come ho fatto a non accorgermi fino ad oggi di questa meraviglia?
Eppure Dio mi era sempre vicino!”.
Allora capiremo
anche che quel “convertitevi” è una cosa seria, che non ha nulla a che fare con
l’assumere un comportamento di facciata, nulla a che vedere con i soliti esercizi
pietistici, con invocazioni di comodo, espresse a voce alta, più per farci
sentire dai vicini che da Dio. “Convertirsi”, al contrario, vuol dire: “Accorgersi
che è arrivato il momento di cambiare radicalmente vita!”; “di rendersi conto
sul serio che Dio, nella sua bontà, ci vuole vicini a Sé”: e da quel momento, chi
si convince di ciò, non potrà mai più essere lo stesso.
Purtroppo
oggi la gente è assorbita completamente da altri problemi: a nessuno viene in
mente di cambiare uno stile di vita comodo, rilassante, che offre gioie,
divertimenti, benessere, con un altro che, al contrario, gli impone autocontrollo,
altruismo, carità, dedizione per gli altri, fedeltà alla legge di Dio. Cambiare
il “pensare solo a sé stessi” con “preoccuparsi per gli altri,
per i poveri, per i meno fortunati”, è una scelta che fa paura, che
terrorizza. Significa lasciare ciò che siamo, per diventare ciò che dovremmo
essere: un andare verso l’ignoto, verso ciò che non conosciamo e che temiamo.
Per farlo bisogna fidarsi ciecamente di Dio. Invece siamo purtroppo dei “malfidati”,
dei diffidenti in tutto. E preferiamo continuare per la nostra strada.
D’altro
canto, se ci guardiamo intorno, quello che vediamo non è che ci rassicuri
molto: c’è gente che va puntualmente in chiesa da una vita, rimanendo poi sempre
uguale: anzi, “siamo” sempre uguali! Perché anche noi ci comportiamo così! Magari
ci ammantiamo di bontà e opere buone, cerchiamo di apparire persone pie e
caritatevoli ma, in fondo, siamo sempre i soliti calcolatori! Una domanda
allora dovremmo porci: “A che mi serve frequentare tanti gruppi di preghiera e
di spiritualità, se poi in pratica non cambio mai?
Succede
purtroppo che siamo convinti di cambiare, ma al contrario noi, il messaggio di
Gesù, invece di attuarlo, di metterlo in pratica, noi lo razionalizziamo, lo
teorizziamo.
Leggiamo
trattati di teologia, partecipiamo a corsi di approfondimento, a settimane di
spiritualità, siamo assidui frequentatori della Chiesa e della Parrocchia,
siamo ottimi parlatori, sempre interessanti e ammirati nelle nostre
esternazioni, ma… è solo una grande illusione, siamo solo una maschera
imbellettata e basta. Preferiamo adattarci e dissimulare, perché cambiare
veramente è difficile, è doloroso, fa paura. Preferiamo darci a Dio sempre “con
riserva” (il che equivale a non darsi). Facciamo “qualcosina” per Lui, ma mai
“troppo” per non lasciarci coinvolgere completamente. Ci rifugiamo nelle scuse
del lavoro, degli impegni di casa, dell’ufficio, dei figli ecc. per crearci un
alibi; tutto serve per sottrarci al compito fondamentale di aver cura della
nostra vita interiore, della nostra anima, di noi, del nostro spirito.
Non accontentiamoci
di essere semplici consumatori di culto: l’apostolato cristiano non è una gara
vanitosa a chi fa di più: ad avere la Chiesa più piena, le cerimonie più belle,
il coro più intonato, ma è soprattutto una “vita” nuova: la vita della
carità, nell’apertura e nell’ascolto di tutti; è la vita di Dio in noi, nelle
nostre famiglie, nelle nostre comunità. Se la nostra vita pastorale, le nostre
opere, non nascono dalla carità vissuta, sono fatiche a vuoto, non servono a
nulla: sono gesti sterili che non porteranno mai dei frutti perché sono
separati da Dio.
Soltanto
su queste premesse potremo far parte dei “chiamati”.
Viviamo,
dunque, soprattutto nella carità sincera, nell’amore vero: perché questo è
quanto Gesù vuole da noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amato. Tutti sapranno che siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri”. Amen.
“Ecco
l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” Gv 1, 29-34
Siamo
all’inizio del “tempo ordinario”, tempo liturgico che è un invito forte a
costruire la nostra “ferialità”, non nelle banalità, ma nella novità introdotta
col Natale. È infatti nello scorrere quotidiano e feriale dei nostri giorni che
dobbiamo vivere lo stupore dell’Emanuele, del Dio-con-noi, che dobbiamo vivere
la novità e la bellezza del Volto di Dio: un tempo in cui costruire e adeguare
la nostra “somiglianza” a quella “immagine” di Dio, che Egli stesso ha impresso
nell’uomo creandolo, e che Gesù, umanizzandosi, ci ha rivelato.
Il
Vangelo di oggi ci ripropone ancora una volta la figura di Giovanni, il
battezzatore: non il solito burbero e scontroso profeta penitenziale, ma un
Battista vinto dall’evidenza, più dolce, più umile che, in veste di testimone
oculare, addita ai presenti il personaggio chiave della umana redenzione,
rivelandone pubblicamente la vera identità: l’«agnello di Dio che toglie il
peccato del mondo».
Una
definizione solenne e plastica, che contiene l’assoluta e sbalorditiva novità
di Gesù, vittima sacrificale: una novità che il Battista, senza tanti
preamboli, mette subito in chiaro davanti ai nostri occhi.
A
differenza della tradizione ebraica, secondo cui è l’uomo che si deve offrire a
Dio attraverso varie forme di sacrifici cruenti, il Battista ci presenta qui un
Dio che capovolge completamente le parti! È Lui – Dio – l’Agnello, la vittima
che si immola per noi, che si dona e si consegna. Un’autentica rivoluzione, uno
stravolgimento di valori che introduce nuove verità: l’uomo non deve
conquistare nulla, non ha nulla da “meritare”; deve semplicemente accogliere la
mano tesa di Dio come dono, un dono destinato a cambiargli la vita; un potente
antibiotico contro l’innata piccineria umana che pretende l’aiuto e l’amicizia
di Dio come contropartita di iniziative puramente esteriori, senza alcun
coinvolgimento del cuore, e per questo sterili e inutili; sì, sterili e inutili
perché preoccupate più dell’apparire che dell’essere.
Dio non
è un contabile che sta seduto dietro ad una scrivania per registrare e tenere
il conto delle nostre buone azioni e dei nostri sacrifici quotidiani, soprattutto
se fatti senza vero amore.
Ora c’è
un novum fondamentale, un novum che sta proprio qui: Gesù è la
vittima sacrificale; è Lui che affronta la morte “per noi”; è attraverso la sua
vita e il suo morire, che noi scopriamo la commovente verità che Egli è Amore
assoluto; un Amore che supera tutti i nostri peccati, anche quelli più
tremendi.
È
proprio così: Dio è l’Amore fedele nei secoli; e di Lui ci possiamo fidare
completamente.
Quando
guardiamo la croce, noi vediamo la vittima immolata, appesa ad essa: l’Agnello
di Dio crocifisso, Colui che ci libera da ogni schiavitù, da ogni peccato, da
ogni colpa.
Per
quanto possiamo sbagliare nella nostra vita, Dio è più forte del nostro male:
perché Egli è l’Amico, il Guaritore, l’Amore che riempie e consola il nostro
cuore.
Scriveva
Giacomo Leopardi in una lettera al fratello: “Io non ho bisogno di gloria, né
di stima, né di altre cose simili, ma ho bisogno soltanto di amore”. Ebbene, è Dio
che soddisfa in pieno questo bisogno dell’uomo.
Nella
nostra vita di creature siamo soggetti a sofferenze, angosce, malesseri di
qualunque tipo; ma se permettiamo a Lui, creatore, di entrare nel nostro cuore,
di stare con noi in noi, allora capiremo che Lui è un amico, un sostegno, una
nuova forza prorompente; sentiremo il conforto di avere uno che ci ascolta, che
ci sorregge prontamente se vacilliamo, un rifugio sempre aperto in cui sentirci
sicuri e amati. Completamente. E quanto bisogno abbiamo veramente tutti noi di
sentirci amati!
Gesù
è l’agnello che toglie il “peccato”: il “peccato”? Di quale peccato parliamo?
Cosa è oggi ancora peccato? Che importanza diamo al peccato? Che percezione ne
abbiamo? Poca, purtroppo. Anzi pochissima, per non dire nessuna!
D’altro canto, oggi sentiamo
ripetere continuamente che Dio è misericordioso, che ci ama
incondizionatamente, che nulla può interferire con il suo Amore, che è Lui che
ci rincorre, che ci vuole salvare: allora, pensiamo, perché preoccuparci del
peccato? Sissignori: invece dobbiamo pensarci, eccome! Perché anche se l’immagine
del Dio assolutamente misericordioso è vera, non dobbiamo mai dimenticare che
Dio non salva nessuno contro la sua volontà! Per questo non dobbiamo mai abbassare
la guardia, non dobbiamo mai sottovalutare l’importanza delle nostre infedeltà.
Infatti sbagliamo completamente quando giustifichiamo qualunque nostra colpa,
qualunque nostro tradimento, pensando: “Tanto Lui è buono, ci perdona comunque
anche se pecchiamo!” Sbagliamo soprattutto perché non teniamo in alcun conto il
dolore che la nostra ingratitudine provoca nel cuore innamorato di Dio.
Continuiamo
a sbagliare anche quando pensiamo: “e poi, che peccati posso mai fare?”.
Se
esaminiamo la nostra vita alla luce del solo decalogo, forse possiamo anche
sentirci tranquilli: andiamo a messa, non ammazziamo nessuno, facciamo le
nostre elemosine, non bestemmiamo, ecc. Ma abbiamo mai pensato in quanti altri
modi possiamo peccare contro l’infinita bontà di Dio? Per esempio pecchiamo quando
non vogliamo maturare nel cuore, quando non vogliamo crescere spiritualmente,
quando preferiamo restare così come siamo, tiepidi e indifferenti. Pecchiamo
quando, sapendo che c’è un problema col nostro prossimo, facciamo finta di
nulla. Siamo nel peccato quando la vita spirituale non circola più in noi: viviamo
cioè come se fossimo già morti, siamo insensibili, niente ci commuove, niente
ci emoziona, niente ci appassiona. Peccato è ignorare le nostre responsabilità,
non voler conoscere le cose “per non avere problemi”, preferire il buio della
menzogna alla luce della verità. Peccato è non preoccuparci delle tante
infermità, delle tante debolezze, delle tante ferite che non mettiamo nelle
mani di Dio: le lasciamo invece marcire in fondo al nostro cuore, fino ad
infettare il nostro spirito, la nostra anima, fino a corroderla e ad ucciderla.
Peccato,
male, morte è, pertanto, non esprimere pienamente la vita che ognuno ha dentro.
Perché dove c’è vita non c’è morte; dove c’è espressione non c’è depressione;
dove c’è amore non c’è chiusura; dove c’è il bene non c’è il male. Nella vita,
soprattutto, non possiamo accontentarci di “non fare il male”, ma dobbiamo scegliere
sempre di “fare il bene”!
Ogni
domenica, quando andiamo a Messa, sentiamo ripeterci: “Ecco l’agnello di Dio
che toglie il peccato del mondo”. È la voce di Gesù, il Liberatore, che ci
sussurra: “Se vuoi, io vengo per portarti un po’ di pace, un po’ d’amore, di
speranza, di perdono, di serenità. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?”: e noi
che facciamo? gli giriamo le spalle e rispondiamo: “No grazie, non mi interessa”?
Fare la comunione non è un
dovere, non è un precetto, non è un obbligo: ma è un riconoscere umilmente di
aver bisogno di Dio, di aver bisogno di coraggio e di forza. La comunione è la
possibilità che abbiamo di far entrare nel buio del nostro cuore un po’ di
luce; di portare nel mondo conflittuale della nostra anima un po’ di pace e di
perdono. È una possibilità concreta che ci viene offerta. Ma allora perché
tanta gente va in chiesa e non fa la comunione? È tanto distratta e indifferente
da non porsi neppure il problema? Non vuole farsi coinvolgere troppo? Crede di
non meritare l’amore di Dio? È difficile capirlo: perché è come andare dalla persona
amata e non darle un bacio, entrare in casa di un amico e non salutarlo. È come
andare ad un pranzo e non mangiare. Perché? Perché rinunciare alla cosa più gustosa,
a quella che dà più energia, a quella più gratificante? Eppure quando teniamo
ad una persona, facciamo di tutto per incontrarla, cerchiamo in tutti i modi di
star soli con lei!
Evitiamo allora, soprattutto, di
pensare che “tanto Dio fa tutto Lui”. “È talmente buono, capirà!”. Nossignori:
nel cammino della fede e della conversione del cuore non è possibile rimanere
assenti, disinteressati, immobili: non ci sono bacchette magiche, né interventi
mistici sostitutivi. L’azione di Dio in noi richiede sempre la nostra diretta
collaborazione, l’investimento di tutta la nostra libera volontà. Siamo noi che
dobbiamo muoverci: siamo noi che dobbiamo scegliere di stare con Lui, di
lasciarci salvare, di guarirci il cuore e l’anima. In una parola siamo noi che
dobbiamo mettere tutto nelle sue mani: che poi è l’unica scelta che non ha mai
deluso nessuno! Amen.
“Appena
battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli
vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed
ecco una voce dal cielo che diceva: Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho
posto il mio compiacimento”
(Mt 3, 13-17).
Anche
Gesù, come una grande moltitudine di persone, segue il Battista; sono
addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il
maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano
per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile
in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma
una volta disceso nelle acque del fiume, ed essere stato battezzato, tutto
cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario,
decisivo.
Quello
che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato
assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di
tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli
valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende conto che il “suo”
Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio
intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera
inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c’è motivo di aver paura di
te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto
sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così
che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”,
diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo
sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi
infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da
farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale,
all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Matteo
vuole qui dire, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di
routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova,
inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore
innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù
da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima
personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di
dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto
modo di percepire:
“Si
aprirono i cieli”, sottolinea
Matteo: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta,
indissolubile comunione, in costante collegamento; e si sono aperti per
rendere possibile qualunque comunicazione.
“Ed
egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba”: non che ci fosse una colomba in
carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di
soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in
grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito
entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante
osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all’inizio della storia del
mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso
però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha
funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è
il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo
nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo
Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il
garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di
profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù
la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale,
indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
“Ed
ecco una voce dal cielo”:
non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in
preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente
dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso:
“Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io
sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il
suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra,
per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora
non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”.
È
proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di questi concetti “messianici”,
il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella
sua vita: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio
obbligatorio da superare.
Una vera
e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso
quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice
chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”.
Tutti
noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una
speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove,
visto che non si tratta di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”.
Ma per tutti, una tale occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande
intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e
l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un
incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci
rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente
imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da
destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un
qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che
ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e
bello.
Per
inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati,
nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per
indicare una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla
tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un’altra persona, ho un altro nome”.
Ecco; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”,
viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere
nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra
umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie,
ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume;
dobbiamo renderci conto del non fatto, dell’incompiuto, delle occasioni perse,
degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta
la nostra miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni
peccaminose e mortali che rendono asfittica la nostra vita cristiana. E
soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo
lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo
ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno
dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo
Spirito di Dio: a quello Spirito d’Amore che solo ci può consigliare,
confortare, amare, proteggere.
Guai
a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere
delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano;
guai a noi, perché così non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l’amore
di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio
riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe.
Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore
che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi
con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere
buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la
nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “contrappone”, non
è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a servizio,
previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta”
alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola
dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce
dell’Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così,
coraggio, datti da fare!”. Perché questa è la voce che ci salva; questa è la
voce che ci fa rinascere: anche così impresentabili come siamo, è questa voce
che ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che
aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, soprattutto
amiamo!
In
questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste
consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita,
tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d’ombra,
nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una
musica celestiale confortevole. Fidiamoci di questa Voce; rispondiamo
sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi,
felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.
“In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi” (Gv
1,1-18)
Il
vangelo che la Chiesa ci propone oggi, è lo stesso del giorno di Natale; un
brano che è il più ricco, profondo e difficile di tutti i vangeli. Alcuni
studiosi hanno passato la loro vita a studiare questa pericope giovannea: san
Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino hanno detto, per esempio, che si tratta di
un testo che va al di là di ogni comprensione umana.
Senza
alcuna presunzione, per quanto ci riguarda, cerchiamo almeno di capire il significato di alcune
espressioni.
“In
principio” (in
ebraico berescit; in greco en arché) sono le stesse parole con
cui ha inizio nella Genesi, il primo libro della Bibbia, il racconto della
creazione.
In
particolare come iniziava l’Antico Testamento? “In principio Dio creò il cielo
e la terra” (Gn 1,1). Giovanni invece dice no: “In principio c’era il
Verbo!”
Il Verbo
è la traduzione latina del termine greco “Logos”, che ha due
significati: “Parola” e “Progetto”; per cui possiamo dire: “All’inizio c’era un progetto”.
Questo è
meraviglioso: prima ancora di creare ogni cosa, Dio aveva un’idea, un progetto.
Allora
noi, il mondo, non siamo qui per caso. Siamo tutti qui perché Dio ha un
progetto su di noi. Se non avesse avuto un progetto su di noi, non ci saremmo. Se
ci siamo è perché Dio aveva un motivo ben preciso per crearci, un motivo
davvero importante.
Quindi Dio
ha un progetto. Ma per attuarlo, ha bisogno di noi. Vogliamo allora dargli una
mano?
Identificando
poi il Logos, il Verbo, con Dio, Giovanni si scontra con la
teologia del tempo. L’Antico Testamento infatti identificava la Parola di Dio con
i Dieci Comandamenti (il Decalogo) che Dio ha dato a Mosè (Es 31,18). Ma
Giovanni dice: “No, la Parola, il Logos esiste ancor prima di tutte le altre parole”.
Una novità impensabile, che stabilisce la priorità e l’importanza assoluta
della nuova Parola. Infatti Giovanni farà dire a Gesù: “Vi do un
comandamento nuovo (kain¾n): che vi amiate gli uni gli
altri” (13,34).
Ora, per
dire “nuovo” in greco ci sono due possibilità: “neos” e “kainos”;
nel primo caso vuol dire “nuovo” rispetto ad un “altro” già
esistente; con kainos si vuol invece stabilire che un qualcosa è “nuova”
nel senso che annulla tutto il resto: Gesù, il Logos, quindi non dà un “altro”
comandamento, ma in assoluto uno “nuovo”, che mette cioè in secondo piano tutte
le Parole precedenti.
“Egli
era in principio presso Dio” (Gv 1,2).
Questo, Gv ce l’ha già detto: perché lo deve ripetere? Perché la lingua ebraica
scrive tutte parole in caratteri maiuscoli, attaccate l’una all’altra, e non
aveva, come abbiamo noi oggi, il grassetto, il corsivo, la sottolineatura, ecc.
Per cui per evidenziare un concetto lo ripetevano. Una ripetizione quindi che sta
ad indicare un concetto veramente importante.
“Tutto
è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto
ciò che esiste”
(Gv 1,3). Anche qui la seconda parte è una ripetizione della prima. Ma cosa
significa? Che tutto è stato fatto per volontà divina. Noi, in altre parole,
siamo qui solo per volontà di Dio. Magari i nostri genitori non ci volevano...
magari la gente ci rifiuta, ci respinge... magari noi stessi non ci accettiamo,
siamo insofferenti verso noi stessi... ma Dio ci vuole, perché ha un progetto
ben preciso su di noi. La creazione pertanto non è cessata il settimo giorno,
ma si sta compiendo continuamente, anche oggi, perché Dio ha bisogno di noi: è per
questo che ci ha creato.
“In
lui (cioè nel Logos-Progetto) era la vita e la vita era la luce degli uomini”
(Gv 1,4).
Il
termine “Vita” (zoé) appare ben 37 volte in Giovanni. Un termine quindi con
cui egli intende qualificare il Progetto di Dio, vuol darne una
spiegazione: il progetto di Dio è un progetto di vita: una vita con un nuovo
stile.
Prima di
Gesù infatti gli “uomini di Dio” erano gli uomini di preghiera, quelli
che si mortificavano, quelli che rinunciavano a tutto, quelli che reprimevano l’affettività
in quanto pericolosa, quelli che digiunavano e seguivano un’ascetica ferrea,
che non avevano tempo per la carità, l’amore verso il prossimo. Ma Gesù dirà di
questa gente: “Sepolcri imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi,
ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Mt 23,27).
Con Gesù,
invece gli “uomini di Dio” sono quelli vivi, quelli che hanno vita, che
sanno piangere, indignarsi, commuoversi, emozionarsi, che provano amore,
misericordia, che si innamorano, che hanno slanci, che sanno stupirsi: più un
uomo è vivo, più è pieno di Dio. L’essenza, il centro del Natale, è appunto la
Vita, un bambino che nasce alla vita.
“La
luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5).
L’uomo
che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, risplende, è luce.
Qui non
si dice che lotta. A quel tempo, e anche oggi, ci sono molti fanatici che
vogliono imporre le proprie regole e le proprie leggi ad altri. Qui, invece, è
luce, splende, brilla: non costringe nessuno. Segue semplicemente la Luce, la
luce vera, Gesù, il verbo incarnato, che è venuto nel mondo: “Io sono la
luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della
vita” (Gv 8,12).
È Gesù-quindi,
la vera luce che illumina ogni uomo: attenzione in questo a non prendere
abbagli! Domandiamoci
spesso: “Qual è la cosa più importante che dà luce alla mia vita?”. È il
partner, i figli, i soldi, il lavoro, il successo, la gloria, l’essere
famosi... cos’è dunque la cosa più importante che condiziona la nostra vita? Deve
essere solo una: la Vita!
“Egli
era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo
riconobbe” (Gv 1,10).
Mondo è “kosmos”:
in Giovanni non indica semplicemente il creato, il cosmo, l’universo: ma è un
termine che in lui acquista un senso negativo: è il sistema politico,
religioso, civile, sul quale si fonda la società umana, in contrapposizione a
quella divina. Il potere, infatti, sinonimo di orgoglio, di superiorità, di mancanza
d’amore, di rigidità, ecc., non può conoscere Dio, non si abbassa ad amarlo. È
vero, tutte le persone sono “divine”, in quanto anch’esse create da Dio,
impregnate di Dio: solo che si sono, per così dire, dimenticate chi sono
veramente, si sono dimenticate che hanno dentro di loro l’impronta di Dio,
vivono senza riconoscerlo e quindi senza riconoscersi più. Che tristezza! È
come essere dei re e vivere da schiavi!
“Venne
fra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
È una
denuncia tremenda. Quelli che non l’hanno accolto come Vita sono gli stessi che
poi gliela toglieranno sulla croce. È il popolo eletto, il popolo prediletto da
Dio! Chi non accoglie la Vita e non la fa vivere in sé, uccide Dio, la Vita. È
incredibile come nei vangeli quelli che hanno accolto Gesù siano stati proprio
i più lontani da Dio, i peccatori: al contrario quelli che non l’hanno voluto
accogliere, che l’hanno sempre combattuto, condannandolo alla morte di croce, siano
stati proprio i più vicini alla religione, i sommi sacerdoti, i tenutari del
tempio. Una triste constatazione!
Il
progetto che Dio ha pensato per ciascuno di noi è, a questo punto, estremamente
chiaro: “Essere suoi figli” (Gv 1,12). Attenzione, non “servi” di
Dio, ma “figli” di Dio: non come sentiamo spesso ripetere in certe
prediche, che l’uomo è fatto per servire Dio, che dobbiamo buttarci ai suoi
piedi, temerlo, servirlo in tutto e per tutto per non incorrere nei suoi
tremendi castighi!
Noi infatti non siamo i servi di
Dio, ma i serviti da Dio: Lui stesso ce l’ha insegnato abbassandosi a
lavare i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-20). È Dio che serve
noi: Egli non ci chiede più come una volta sacrifici cruenti, servizi,
penitenze in suo onore: è Lui che è venuto a portare i suoi servizi, la sua
disponibilità, il suo amore a noi. La “fede” non consiste più nel fare qualcosa
per Lui e basta, ma accettare riconoscenti tutto quello che Lui fa per noi.
In questo è stato chiaro: “Non
sono venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20,28).
Siamo figli di Dio, perché è Lui
che ci ha generati come tali, con tale privilegio.
Tocca però a noi “diventare” veri
figli di Dio: non lo siamo semplicemente per nascita, per appartenenza ad un
popolo eletto, come succedeva per la casta sacerdotale dell’antico testamento:
per essere veramente tali, dobbiamo diventarlo, dobbiamo cioè essere noi a
“trasformarci” in figli. Come? Amando gli altri. Non con preghierine, digiuni o
fioretti, ma con l’amore vero; perché saremo figli, solo quando sapremo amare
anche chi non ci ama, quando ameremo senza aspettative, quando perdoneremo con
amore, sempre e tutti. Perché, come Giovanni chiarirà nella sua prima lettera: “L’amore
è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha
conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8).
“E il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua
gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv
1,14).
Più che “abitare
in mezzo a noi” il verbo greco ™sk»nwsen
dice letteralmente: “venne a piantare una tenda fra noi” (skenÐ = tenda); farebbe cioè
riferimento all’esodo degli Israeliti dall’Egitto, durante il quale Dio li accompagnava
assicurando la sua presenza in una “tenda”. (Es 33,7-11; 40,34-38).
In pratica Giovanni introduce qui una novità rispetto al passato: Dio cioè non
abiterebbe più nel tempio tra i sacerdoti, ma in una tenda in mezzo al popolo.
Questa
di Giovanni è una visione teologica decisamente “trasgressiva”: Dio non è più in
un luogo esclusivo, solitario, ma “in mezzo” al suo popolo, tra la “sua” gente. Dio
non è più immobile, fisso, in un luogo prestabilito, ma in continuo cammino,
insieme agli uomini.
La presenza di Dio non è più legata quindi ad un “luogo”
ma ad un “tempo”: vale a dire nell’esatto momento in cui c’è l’amore, lì
c’è Dio.
“E
noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14).
Nell’Antico
Testamento nessun uomo poteva vedere Dio: Gesù al contrario dirà: Dio si
vede... “Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”; in Gesù, cioè, c’è già tutto
quello che è possibile vedere di Dio: gloria, potenza, amore. Possiamo pertanto
dire che non è Gesù ad essere come Dio, ma è Dio che è come Gesù.
Quando
la gente parla di Dio, dice tutto e il contrario di tutto. Il vangelo invece non
solo è chiaro ma estremamente pratico: Dio è come Gesù: se vuoi sapere chi è
Dio, guarda, imita, diventa, come Gesù. Tutto ciò che non è di Gesù, che non
rispecchia Lui, non è da Dio; così non vengono sicuramente da Dio quelle pratiche
religiose, quei pietismi puramente esteriori, quell’ascetismo formale, in
quanto non si rispecchiano in Gesù, ma soddisfano semplicemente il nostro
“ego”, la nostra voglia di esibirci. Gesù al contrario è “pieno di grazia e di
verità”, ossia è “pieno di amore vero”: tutto quanto egli compie è “pieno
di amore e di verità”.
È la caratteristica di Dio: l’amore del Dio di Gesù è un amore fedele, che non
tradisce, che non cerca esibizionismi, personalismi, che non si vendica, che
rimane sempre invariato nel tempo, anche se gli giriamo le spalle, anche se lo
tradiamo.
Molte
persone purtroppo pensano di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa
di irreparabile nei suoi confronti, di essere indegni di Lui: ma Lui non è
così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre: “Qualunque cosa il nostro cuore ci
rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Una certezza
ci deve sostenere sempre: l’amore di Dio non tradisce mai di fronte a niente,
di fronte a nulla. Amen.
“Àlzati,
prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti
avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt
2,13-15.19-23).
Oggi,
festa della Santa Famiglia.
Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una minuscola
comunità esente da ogni difficoltà e contrarietà. Di essa ci è stata talvolta
tramandata un’immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come
tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con più problemi di tante altre:
una madre rimasta incinta non si sa come; un padre che, dopo la nascita del
figlio, scompare (che fine ha fatto Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto
difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una
famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a
fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala”
questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte
si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la
perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici,
che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece
quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta
pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà le
avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe, nel piccolo paesino di Nazareth: ed essi erano
veramente santi! Perché allora noi, che non siamo proprio dei santi, dovremmo
esserne esenti?
La
famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi paradisiaci, del
“tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo
abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come
sappiamo, è quello che è, parziale, limitato, mai perfetto, perché legato alla
fragilità umana; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo
quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo
anche se molte famiglie si ritrovano a vivere insieme, anche se siedono sempre
attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”: c’è infatti la famiglia-autogrill
in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma, in cui uno ordina, uno
comanda, e gli altri devono obbedire; c’è la famiglia-albergo in cui
tutto è perfetto, ordinato, ma dove non c’è vita, non si ride e non si scherza insieme, non
ci si racconta e non ci si ascolta; c’è la famiglia-tv dove il
padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono stare in silenzio.
Nella
nostra società ci sono molte tipologie di case, molte abitazioni: c’è la
casa al mare, in montagna, all’estero; c’è una “seconda casa” che è il pub,
l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno
con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante
case, tante stanze, tanti locali diversi, tante scelte di vita, ma di “famiglie” vere, ce ne sono ben poche. Molto poche!
Perché non
basta che due individui si mettano insieme, vivano sotto lo stesso tetto, per
essere una “famiglia”. Ci vogliono soprattutto due genitori esperti, maturi, un
padre e una madre consapevoli di affrontare un ruolo estremamente importante.
Ora, se
per i bambini c’è la scuola materna, elementare, media, superiore,
l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, se per fare un qualsiasi
lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi
di formazione specializzati, per chi vuol formare una famiglia, per essere
genitori responsabili, in grado di educare, non esiste purtroppo nessuna
scuola. Eppure ci sarebbe anche per loro una grande necessità di andare a
scuola! Ma chi può insegnare loro? Da chi possono imparare?
Eppure
una famiglia esemplare, una famiglia che può insegnare a tutti, una famiglia
autentica maestra, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio,
ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, con il comportamento ci ha
indicato quei principi fondamentali che ciascun genitore dovrebbe praticare e
trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione,
la preghiera.
Tutti i genitori, papà e mamme, sono chiamati ad
imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova in sé stessa entusiasmo,
amore, sopportazione, rispetto reciproco, momenti di crescita spirituale, è
destinata ad appiattirsi, a rinsecchirsi, ad esaurirsi e, prima o poi, a
perdere ogni linfa vitale, a morire. In tale
contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di
Gesù.
La
storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che, in qualche modo, è il
“destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha un suo “Erode”: per crescere deve
soffrire, superare difficoltà, conflitti, umiliazioni. Ogni bambino deve, in
qualche modo, fuggire dalla propria abitazione, da quello che lui è, dalla
profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare un altro. E
tutto questo per salvarsi, per affermarsi. Ogni bambino, fortunatamente, ha una
forza interna, la forza del suo voler vivere ad ogni costo, che è più grande di
tutte le forze contrarie, avverse e che gli permette di tornare sempre nella
“sua casa”, nella terra promessa.
Soffocare,
uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera
strage degli innocenti: perché egli è quella parte di noi che sa stupirsi; che
sa amare pienamente, completamente, sinceramente, che si dà senza trattenere
niente; è la parte di noi che sente, che ascolta, che vive tutto con intensità,
che nel bisogno sa chiedere aiuto, che non si sopravvaluta, che conosce i
propri limiti; ma è anche quella parte di noi che è felice, che danza, che
canta, che ride, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne
frega di cosa dice la gente.
È così
bello lasciarsi andare! Perché è la vita che è bella! Dobbiamo soltanto vincere
la paura del nostro “Erode”: che però, a ben guardare, è lui che ci teme di
più!
La festa
di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli
un bambino? Eppure Erode è terrorizzato da quel bambino, ha paura a lasciargli
spazio, ha paura che cresca, che prenda forza; ha paura di non saperlo più
controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è,
invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La
strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire,
che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza
del “nostro” bambino: ed altri innocenti (che non c’entrano niente) saranno
costretti a subire la nostra collera, il nostro disagio, la nostra rabbia. E
saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli
di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta
la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena
senza fine.
Guardare
quel nostro “bambino”, è tornare a guardare oltre le nostre deformità, a quando
i mali e i condizionamenti subiti, non avevano ancora segnato il nostro
vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci
vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nel nostro esistere per un
motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è
una parte di noi che nessun Erode potrà mai distruggere. È trovare la forza, un
punto d’appoggio, per ripartire.
Perché solo
rialzandoci dalle miserie della vita, potremo vederci come Dio ci ha pensato,
prima che il nostro volto si sfigurasse: solo allora potremo vedere la nostra
infinita bellezza, la nostra grandezza e preziosità, e ci sarà chiaro che siamo
angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a vedere il bambino che egli era,
riesce a capire finalmente cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in
lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.
“Maria,
essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si
trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era
uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in
segreto” (Mt 1,18-24).
Per
Giuseppe non fu sicuramente una notte facile quella! Lui i suoi progetti li
aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene,
merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era
una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e,
addirittura, trasferirsi nella vicina Sefforis. Da lì a poco avrebbe preso in
casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e
la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, il pensiero di una famiglia con
quella ragazza che gli aveva rapito il cuore, era fonte di gioia incontenibile.
Improvvisamente
però, i progetti di Giuseppe vengono frantumati da un impensabile intervento di
Dio: l’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è
responsabile, lo getta nell’angoscia. Ma come: Maria? Proprio lei? Come è
potuto succedere? Lui è l'unico a sapere che quel figlio non è frutto del suo
seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa fare?
Non è il
tempo della rabbia, questo, né del piangersi addosso; è il tempo di agire. Consegnarla
alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sa bene che il destino delle
donne adultere è la pubblica lapidazione. No, non può fare questo.
La notte
sopraggiunta alla tragica notizia, deve essere stata quindi terribile per il povero
Giuseppe: l’ansia che lo tiene sveglio, il rigirarsi continuamente nel
pagliericcio, le orribili visioni del domani che continuano a gettarlo nella
disperazione più cupa. Ha sempre davanti agli occhi il volto sorridente di
Maria: non riesce a capacitarsi, a credere alla realtà, non vuole arrendersi
all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio è sicuramente ferito, ma la tenerezza
e le lacrime dell’innamorato hanno ben presto la meglio.
Il suo
cuore improvvisamente si placa quando decide di seguire una soluzione
alternativa: al rabbino avrebbe detto che si è stancato di Maria, che non l’ama
più e che quindi scioglieva il contratto matrimoniale. Maria ne sarebbe uscita
con l'onore compromesso, certo, ma avrebbe avuto la vita salva. Ecco, sì, questa
è una buona idea. Perché Lui amava immensamente la sua giovane promessa sposa.
Il
racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci nella
nostra vita personale con tutti i sogni infranti da un imprevisto, da una
malattia, da un incidente, da una ingiustizia patita, dalle tante contrarietà che
ci hanno ingiustamente frenato nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo
ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi
progetti di vita, alla realizzazione di un futuro familiare e professionale
dignitoso e stabile. Anche nel nostro cammino di fede possiamo a volte
sperimentare impedimenti e disagi, quando pensiamo che Dio si sia allontanato
da noi, e percepiamo la chiesa non come rifugio, ma come un ostacolo, con il
risultato che quanto credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La
storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina
nemmeno con il suo proposito di agire nei confronti di Maria con bontà e rettitudine.
Dopo il
dormiveglia tormentato dai dubbi e dall’angoscia, finalmente il sonno arriva:
lo prende sul fare del mattino. Ed è lì che succede: un angelo, materializzatosi
improvvisamente nel sonno, gli parla di una missione da compiere, di un figlio
che avrebbe salvato il mondo, che lui, Giuseppe, non deve preoccuparsi di nulla,
perché questa è la volontà dell’Altissimo. Un sogno strano, dolce, quasi vero.
Maria era sua, era la sua sposa, ma Dio dall’eternità si era innamorato di lei,
e aveva scelto il suo grembo verginale per la nascita del Verbo, suo Figlio.
Nel
sogno Giuseppe tace: è stupito, attonito, senza parole. Poi si sveglia, sereno.
I pensieri bui sono lontani, fuggiti con le tenebre: ora Giuseppe ha riacquistato
tutta la sua forza e il suo entusiasmo: se Maria ha accettato di prestare il
grembo a Dio, lui, Giuseppe, può anche fargli da padre a quel Dio che sarebbe
nato.
Un nuovo
progetto prende forma in Lui proprio dalle rovine del precedente, ormai irreparabilmente
distrutto: Dio lo vuole coinvolgere in una storia che è decisamente superiore
alle sue umane possibilità, una storia che vede come protagonista Maria, la sua
giovane sposa:
Dio vuole
entrare nella storia umana, servendosi della loro collaborazione.
Matteo,
ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe è “giusto”: cioè
irreprensibile, autentico, onesto, un uomo pieno di dignità, non vendicativo;
uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito come marito, capisce
che Dio, per assumere le sembianze umane, ha scelto Maria, e nella generosità
del suo cuore, lascia prevalere la tenerezza e l’amore per quella sposa che
deve condividere con Lui. È “giusto” perché, mettendosi dalla parte di Dio, si
oppone alla follia dominante e al giudizio di morte della gente. Giuseppe è
“giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo sapessimo amare come lui, e
permettessimo umilmente a Dio di disporre di noi secondo la sua volontà.
Cerchiamo
allora di imitarlo: mettiamo da parte la nostra voglia di apparire, coltiviamo
seriamente in noi quelle virtù che devono essere sempre i nostri valori
fondamentali: la mitezza, la bontà, la pazienza, la carità; impariamo a vivere
la chiamata di Dio con il massimo impegno nell’umiltà, nel nascondimento: del
resto, Dio conosce già perfettamente il nostro intimo e tutto quanto ci
riguarda, e non gli serve una campagna pubblicitaria per quel poco che
facciamo; il protagonismo ad ogni costo lasciamolo agli uomini del mondo:
uomini che purtroppo oggi sono sempre più arroganti e ipocriti, gente che urla
soltanto, per imporre il nulla che è in loro.
Di
quanti Giuseppe avrebbe bisogno oggi la società! In politica, negli uffici, in
famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose: uomini e donne
“giusti”, sui quali Dio può veramente contare, dei quali può fidarsi in tutto,
per realizzare nel mondo i suoi progetti di salvezza!
Ma non
basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei “sognatori”, gente
che in questo mondo disincantato e cinico, ha il coraggio di credere ancora
negli ideali, nelle promesse di Dio. Come Giuseppe, dobbiamo avere il coraggio
del sogno, di piegare la nostra volontà a quella di Dio che ci chiede di collaborare
al Suo progetto divino di salvare il mondo: un progetto che, dopo il suo
ritorno al Padre, egli ha affidato alla sua Chiesa; un progetto divino che pertanto
ci vede tutti responsabilmente coinvolti, consapevoli che se non sappiamo più
sognare il nostro inserimento in Dio, se non inseguiamo gli ideali che Lui ci
ha lasciato nel Vangelo, se non li ascoltiamo, se non li dimostriamo al mondo
con la nostra vita, finiamo per soffocare lo Spirito di Dio in noi, continuando
a vivere da parassiti, servi inutili, tralci infruttuosi, destinati ad essere
recisi e bruciati.
Viviamo allora
anche noi l’imminente Natale con la stessa fede di Giuseppe: viviamolo coinvolti
come lui, nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci
vuole inerti spettatori, pusillanimi e rinunciatari, ma discepoli innamorati in
continua tensione verso il compimento della Sua volontà.
Questo è
il mio cordiale e sincero augurio a tutti voi. Buon Natale.
Amen.
“Sei
tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-11).
Oggi, la
Parola ci fa incontrare ancora una volta Giovanni: questa volta però è un uomo
ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore del deserto: è in carcere e sa
che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia covata nei suoi
confronti da una isterica cortigiana che manovrava la debolezza di un
re-fantoccio.
Giovanni
ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo solo per preparare la
strada al Messia, senza alcun riguardo verso coloro che vivevano nel peccato e
nel vizio; e quando lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la
folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare, lo ha accolto schernendosi,
riconoscendo in lui il “potente” che dopo di lui avrebbe battezzato non con
l’acqua ma con lo Spirito santo e fuoco; in cuor suo però era rimasto stupito, confuso
per l'atteggiamento riservato e umile, con cui si era presentato colui che
doveva essere il Salvatore del mondo.
Ora,
nella solitudine del carcere, Giovanni è perplesso; pensa, è dubbioso. Le
notizie che i suoi inviati gli riportano non fanno che accrescere le sue perplessità,
lasciandolo costernato: il Messia non si sta comportando come un condottiero,
un capo del popolo, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario né
tantomeno catastrofico, non annuncia l’imminente giudizio di Dio, non minaccia
la sua vendetta con il fuoco divorante. Gesù, al contrario, continuando nel suo
profilo basso, semplice, suadente: offre perdono incondizionato a tutti,
rimette le colpe, non minaccia né attua vendette, dice che quel “fuoco divorante”
Lui lo vuole accendere, certo, ma partendo dall'amore, non dal terrore. È insomma
un Messia troppo dissimile da quello che Giovanni e Israele si aspettavano, è un
personaggio completamente fuori schema, fuori da ogni loro sospirata previsione.
Del
resto Dio spiazza sempre tutti: anche quelle persone che, come Giovanni, vivono
la radicalità della fede, rischiando di costruirsi un Dio a propria immagine e
somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta plateale,
una irruzione nella storia con un frastuono assordante, accompagnata da schiere
di angeli trionfanti. Gesù, invece, è solo; ci svela il volto di un Dio
riservato, quasi nascosto: evidente, certo, ma pieno di ogni tenerezza e
sensibilità, in ogni caso mai in maniera banale.
Gesù
praticamente ci svela un Dio che divide il mondo in chi ama, o cerca di amare,
o almeno si lascia amare, e chi no, in chi cioè gli volta le spalle. L'amore è
una possibilità immensa, è l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non
gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare, nella
fragilità di ciò che siamo o che ci impegniamo di essere.
Ma noi,
dal canto nostro, siamo certi di Dio? Riprendiamo allora in mano il Vangelo e
chiediamo a Dio, nella preghiera, di condurci sempre per mano nella nostra autenticità.
Siamo sempre pieni di dubbi? Consoliamoci, non siamo i soli: anche il più
grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.
“Andate
e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…” replica Gesù ai discepoli che il
Battista aveva inviato per informarsi sulla sua identità; non dà loro una
risposta esauriente. Devono trarla da soli. La fede non richiede l’evidenza, non
necessita di “prove certe”, Dio non è il risultato di un teorema scientifico,
con buona pace di quei simpaticoni, che pretendono di vedere l’anima nelle
radiografie! Ci vengono offerti degli indizi, solo deboli indizi che lasciano
intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, siamo noi
che dobbiamo trovarlo, accantonando le nostre ideologie, prendendo coscienza e
conoscenza di noi stessi e del Dio che abita in noi.
“Guardati
intorno, Giovanni”, è in pratica l’incoraggiamento di Gesù a suo cugino, dopo
avergli elencato i grandi segni messianici profetizzati al popolo da Isaia.
Ecco, questo è il punto: per riconoscere
i segni della presenza di Dio, dobbiamo anche noi “guardarci intorno”: renderci
conto di quante persone nel mondo hanno incontrato Dio, e continuano ad
incontrarlo: magari gente disperata, che trovandolo, ha dato un senso alla loro
vita, convertendo il proprio cuore; persone straziate dal dolore, arrabbiate
con Dio, che hanno imparato grazie a Lui, a perdonare; persone accecate
dall'invidia o dalla cupidigia che con Lui hanno messo le ali, trasformandosi
in gioia, in bontà, in amore quotidiano, in donazione di sé stessi! Dobbiamo
guardare anche noi, come Giovanni, quelli che sono i segni della vittoria
silenziosa del Messia, la forza dirompente del Vangelo
sulle persone che cambiano, che guariscono, che scoprono Dio, potendo così ammirare,
nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto, gesti di totale gratuità, vite
consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in deserti di
solitudine e di egoismo.
Dobbiamo
guardare e riconoscere in questi segni la presenza del Regno di Dio.
Purtroppo
spesso non li vediamo, non ce ne rendiamo conto, non li vogliamo vedere, non li
possiamo vedere, perché il problema tragico del nostro tempo è proprio quella cecità
interiore che impedisce di vedere, di toccare con mano la presenza di Dio,
nascosta, silenziosa, ma decisamente reale e concreta, in tutto ciò che ci
circonda.
Quante
sfumature della natura i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a
cogliere! Meraviglie che ci lasciano indifferenti, che non ci colpiscono, non
ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il
cuore, nulla purtroppo di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui rimaniamo
solo tanti ciechi famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo, la insudiciamo;
la osserviamo, ma solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo,
scrutiamo, ma non “vediamo”!
“I ciechi riacquistano la vista”:
chi invece incontra Dio, vede,
ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia e
si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei
cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case
attraverso i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non
si impadronisce di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla.
Entra ed esce delicatamente, senza alterare o sconvolgere nulla.
Prepararsi
al Natale significa, allora, modificare il nostro sguardo, far constatare ai
tanti distratti, a noi ovviamente per primi, che il Regno avanza, è presente,
che tutti possiamo renderlo presente, contribuire a realizzarlo. Impariamo
tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dalla
nostra indifferenza, dal nostro dolore, per accorgerci della presenza e della salvezza
di Dio, che si attua continuamente nelle nostre soffocate città.
In
questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di
speranza per quanti a Natale si sentono abbandonati, soli, dimenticati! Pochi
giorni per assicurare chi non sa se Dio c'è, e si chiede se anche il Nazareno,
in fondo, non sia che un grande inganno, che Dio c'è, che è amore: diciamo loro
come Dio abbia cambiato la nostra vita, come ci abbia soccorso nel dolore e
nelle prove della vita. Perché Dio c’è veramente! Ecco, sia questa la nostra
prospettiva, in un mondo che si dibatte tra problemi irrisolti, ipotesi
strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Domandiamoci, come singoli
credenti e come Chiesa, se siamo la risposta vivente alle domande profonde e
incalzanti di tante persone che si dibattono nel buio; domandiamoci se siamo
veramente quella risposta, che si trasforma in offerta di solidarietà, in atteggiamento
di ascolto, in annuncio di speranza... Amen.