Esaurite
le grandi solennità del Tempo Pasquale e quelle “mobili” immediatamente
successive alla Pentecoste, oggi la liturgia ci reintroduce nel Tempo
Ordinario, durante il quale ci propone una serie di letture evangeliche che
illustrano quelle che devono essere le caratteristiche fondamentali della
Chiesa di Cristo e di quanti intendono farne parte.
Marco,
con il suo solito stile conciso e pieno di inclusioni, sottopone oggi alla nostra
riflessione un testo particolarmente significativo in questo senso.Le tematiche trattate sono due: la difesa di Gesù dall’accusa rivoltagli dalle autorità di essere un indemoniato, uno strumento di Satana, e la sua precisazione su chi siano “sua madre e i suoi fratelli”.
Ma andiamo con ordine. Gesù, durante la sua missione, è costantemente circondato da una folla di poveretti, di emarginati dalla società, di malati, di posseduti dal demonio, di bisognosi d’aiuto: tutti lo rincorrono per avere da lui la soluzione dei loro problemi, la guarigione dalle loro infermità. E a tutti Egli dona conforto e salute sia corporale che spirituale.
Preoccupate di tanto consenso della folla, le autorità religiose, sopraggiunte di proposito da Gerusalemme, cercano in tutti i modi di screditarlo, sostenendo che tutto quanto egli compie, lo compie per mezzo si satana: in particolare gli rinfacciano che egli riesce a cacciare i demoni soltanto grazie all’intervento diretto di satana. Una insinuazione decisamente ridicola: quando mai satana caccerebbe se stesso da un luogo di sua proprietà? È infatti decisamente impensabile che il demonio, attaccatissimo e gelosissimo del suo regno di morte, sia tanto ingenuo da rinunciarvi andando contro i suoi stessi interessi.
Semmai, ribatte Gesù, opera del demonio sono i vostri tentativi di attribuire a satana le opere che appartengono a Dio, rifiutando in questo modo l’opera redentrice che io sto realizzando nel mondo. In altre parole, dice Gesù, gli indemoniati siete voi, perché rifiutate categoricamente e senza riserve la salvezza che mio Padre, Dio Amore, sta operando mio tramite: un peccato, il vostro, che non potrà mai ottenere il perdono: non perché Dio prenda le distanze, vi giri le spalle, ma perché arrivate a rifiutare la possibilità di perdono e redenzione, negando la mia missione di Messia.
“In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”.
Rifiutare l'azione di Dio che agisce nella persona di Cristo dal momento del suo battesimo nel Giordano (“Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento!”) costituisce infatti il più grave insulto alla potenza stessa di Dio. Con il loro atteggiamento, pertanto, gli scribi si autoescludono dalla salvezza che il Padre, spalancando definitivamente il Cielo, ha portato nel mondo per mezzo del Figlio, grazie allo Spirito, il reciproco amore che li unisce indissolubilmente. Peccare quindi contro lo Spirito Santo costituisce un’offesa “imperdonabile”, non perché Dio non la perdoni a chi si pente, ma perché è gravissima, rappresenta la volontaria astensione dalla fede, il rifiuto di convertirsi, di aderire all’opera redentrice di Cristo, collaborando con riconoscente umiltà alla sua azione salvifica conclusa sulla Croce.
Il catechismo ce ne presenta diversi di questi peccati “contro lo Spirito Santo”, tutti demoniaci e “imperdonabili”: come “disperare della salvezza eterna, presumere di salvarsi senza merito, impugnare la Verità conosciuta, invidiare la Grazia altrui, ostinarsi nel peccato, l’impenitenza finale”. Sono tutti molto simili perché ciascuno comporta il rifiuto della Grazia e degli aiuti divini di cui lo Spirito Santo è portatore.
Venendo a noi, dobbiamo riconoscere oggi una diffusa ostilità contro Gesù e il suo Vangelo: purtroppo oggi la società si esprime contro lo Spirito in maniera sempre più categorica, combattendo con tutti i mezzi la fede cristiana, la Chiesa cattolica e qualsiasi riferimento ad essa, rifiutando pervicacemente qualunque azione divina di perdono e di Grazia.
Nonostante le infinite prove tangibili e inconfutabili dell'Amore di Dio, rivelate attraverso la vita delle persone e gli eventi della storia, c'è chi cerca di propagandare sistematicamente l’odio per il sacro, per i principi morali, per i valori inalienabili della civiltà cristiana, contrapponendo alla dottrina etica e religiosa della Chiesa, un edonismo, un materialismo, un relativismo sfrenati. C'è addirittura chi si vanta con orgoglio della propria miscredenza, del proprio perseverare nel peccato, della propria vita amorale e contro natura, facendolo come atto di sfida, di sberleffo, nei confronti di Cristo e di tutti quei “beoti” che lo seguono; come pure chi, pur riconoscendosi colpevole, rifiuta con orgoglio e arroganza qualunque forma di ripensamento e di ravvedimento.
Peccare provocatoriamente contro lo Spirito Santo, in questa nostra società secolarizzata e impertinente, è diventato ormai un naturale e sconsiderato “modus operandi”: ma di una cosa dobbiamo essere assolutamente certi: che quanti perseverano nel negare Dio e la sua Misericordia, prima o poi cadranno vittime del loro errore, perché in nessun modo la presunzione e l’orgoglio riusciranno mai a sopraffare l’Amore e la Verità.
Di fronte a tanta cattiveria, a noi deboli e tiepidi cristiani, smarriti nella nostra umanità, può venire a volte da pensare: “perché vivere secondo il Vangelo di Cristo, quando questo ci porta ad essere derisi, ci impone privazioni e ogni genere di ostilità? Ne vale veramente la pena?”.
Ebbene: se noi uomini e donne possiamo talvolta anche deludere chi si affida a noi, Cristo non ha mai deluso nessuno: le sue promesse di premio e di Amore eterno sono certezza assoluta, e questo ci deve bastare per continuare a vivere cristianamente, a combattere senza sosta, ad annunciare con determinazione la sua Parola. Le difficoltà che incontriamo nella salita al suo Monte, sono sicuramente sopportabili all’idea del riposo, della soddisfazione, di questo Amore completo e duraturo che otterremo una volta raggiunta la vetta.
“Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
È il secondo tema del vangelo di oggi. Attorno a questo versetto di Marco e a quelli analoghi degli altri sinottici (Mt 12,46-50; Lc 8,19-21) sono stati consumati fiumi d’inchiostro: Gesù era figlio unico, o Maria la “sempre vergine” ha avuto altri figli? Al di là delle fantasiose ricostruzioni di tanti romanzieri contemporanei, il cui scopo preferito è quello di gettare discredito sul nostro “credo”, oggi le posizioni sono tre: a) secondo la Chiesa cattolica i “fratelli e le sorelle” di Gesù erano i cugini, i parenti affini o comunque i membri del clan familiare di Gesù; b) secondo le Chiese orientali essi erano invece i “fratellastri” di Gesù, figli cioè di un precedente matrimonio di Giuseppe che, rimasto vedovo, era convolato a nozze con Maria; c) secondo le chiese protestanti moderne, i Testimoni di Geova, e alcuni studiosi della corrente storico-critica, essi erano “veri figli carnali” di Giuseppe e Maria, nati dopo il primogenito Gesù.
Ora, giusto per avere un’idea corretta sul significato del termine greco “adelphòs” con cui è stato tradotto il testo ebraico, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli: in aramaico – così come in ebraico – c’è un unico termine (Haha/hah) che designa sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato. In quest’ottica si capisce infatti perché Abramo chiami “fratello” suo nipote Lot (Genesi 13,8), come pure fa Labano nei confronti di suo nipote Giacobbe (29,15).
Si tratterebbe quindi di una errata interpretazione dell’ebraico, visto che nel contesto socio-culturale giudaico di Gesù, il termine “fratello” non aveva, come abbiamo visto un senso univoco come nel greco, dove per indicare un “cugino”, persona diversa da “adelphòs”, viene utilizzato il vocabolo specifico “anepsiós”.
Infatti, già un antico apocrifo, come il Protovangelo di Giacomo del II secolo, ha considerato in realtà questi “fratelli” come “fratellastri” perché in quello scritto, al momento del matrimonio con Maria, Giuseppe confessa: “Ho figli e sono vecchio” (9,2).
C’è poi un’altra considerazione più significativa e fondata: l’espressione “fratelli del Signore” nel Nuovo Testamento (At 1,14; 1Cor 9,5) designa nella realtà un gruppo specifico di persone, quello dei giudeo-cristiani, legato al clan parentale nazaretano di Gesù. Essi costituirono una sorta di comunità a sé stante, dotata di una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù”, Giacomo, citato anche dallo storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio.
Per noi cattolici, in ogni caso, il problema non esiste, in quanto la questione è già stata ampiamente risolta, nel senso che l’esistenza di “fratelli e sorelle carnali” di Gesù è incompatibile con il dogma della perpetua verginità di Maria, esplicitamente esposto nel Secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 d.C., e ufficialmente confermato nei successivi Concili Lateranense IV del 1215 e II di Lione del 1274.
Ma torniamo al vangelo: c’è da notare come il testo specifichi come in questa occasione siano i “suoi” che si intromettono nell’azione pastorale di Gesù, definendolo addirittura “fuori di sé”; questi “suoi” sono il suo “clan”, sono i suoi “parenti” che intervengono, spinti non dallo Spirito Santo, ma semplicemente dal loro cuore, preoccupati di come potevano mettersi le cose a causa dell’accesa discussione con i capi religiosi; non potevano essere certo parenti stretti come i fratelli carnali ad interromperlo, non poteva certo essere Maria sua madre, costantemente illuminata dallo Spirito, a mandarlo a chiamare: Ella era consapevole di dover rispettare i tempi e la volontà di questo suo Figlio e Signore, e lo faceva con il suo silenzio adorante.
“Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Una risposta secca, questa di Gesù: una risposta un po' indispettita; una risposta, forse, con cui vuol disconoscere i suoi parenti, rinnegare Maria, ripudiandola come Madre? Certamente no!
La sua risposta ha semplicemente un valore universale: non è rivolta tanto a Maria e ai “suoi”, quanto a tutti noi; è una risposta che ci provoca tutti direttamente, in prima persona: è la risposta, unita allo “sguardo”, con cui Gesù elegge e, nello stesso tempo, interpella, impegna ciascuno di noi, a divenire “suoi fratelli, sorelle e addirittura madre”.
La sua logica è una sola e vale per tutti, nessuno escluso: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,34-39).
Per Gesù dunque prima di tutto viene la volontà di Dio: ed è in questa volontà divina che Lui fa nascere tutti i rapporti interpersonali. Chi è in linea con la volontà di Dio? Chi gli permette di compiere solo e sempre la volontà di suo Padre. Chi dovesse ostacolarlo, interromperlo, disturbarlo, dimostra di non amarlo, perché non capisce cosa significhi per lui fare la volontà di Dio.
In pratica Gesù ci fa capire che per essere uniti a lui con legami di autentico amore, non servono i legami della carne e del sangue, quanto piuttosto la decisione di fare come lui la volontà del Padre, in quanto se è vero che Gesù è l’origine della nostra comunione fraterna, è altrettanto vero che questo nostro legame con lui si fonda e si costruisce all’ombra “luminosa” di quel Padre che egli è venuto a rivelare; Egli in pratica ci introduce nella sua intima relazione con il Padre invitandoci a partecipare di quello stesso mistero che li unisce: allora le parole con cui termina il suo discorso devono costituire per noi la sintesi programmatica della nostra sequela: “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
“Fare la volontà di Dio”: questo è il nostro programma di vita; compiere il “suo disegno”, realizzare la sua “idea”; che non è osservare la sua legge in astratto, ma seguire lo stesso cammino di Gesù, portando anche noi la nostra croce così come Lui l’ha portata: con lo stesso amore, con lo stesso attaccamento, con lo stesso proposito, convinti anche noi di compiere la volontà del Padre “nostro”. Amen.