giovedì 26 aprile 2018

29 Aprile 2018 – V Domenica di Pasqua


«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano». (Gv 15,1-8)

Il brano del vangelo di oggi è tratto dal lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, e manifesta loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: parla di sé, di loro, di ciò che lo preoccupa, di ciò che li aspetterà in futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. E per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci: Lui è la vite, loro i tralci: il tralcio, rispetto alla vite, è indipendente, è un'altra cosa. Non è la vite. Ma se il tralcio rimane unito alla vite porta frutto; staccato da essa, tagliato via, dissecca e non porterà mai frutto. La vite è per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio, pur essendo tralcio, diverso dalla vite, forma un tutt'uno con la vite.
L’immagine, molto chiara e accattivante sul rapporto vitale che ci “lega” a Gesù, rende anche perfettamente ciò che dovrebbe essere la comunità cristiana: tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande diversità (tralci diversi con una resa diversa). Infatti, pur essendo un tutt’uno con la vite, siamo comunque assolutamente “diversi”, siamo cioè tutti “entità uniche e autonome tra loro”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi, non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci, è vero, ma “dissimili” tra noi. Ogni tralcio è se stesso, siamo noi, sono io: nome e cognome.
Spesso succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo di uniformare gli altri a noi (non noi agli altri!); se non corrispondono al nostro modello, non ci soddisfano, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo accettare la diversità, l’unicità altrui. Ognuno invece ha una sua identità, una sua dignità, una sua potenzialità; ognuno è un tralcio singolo, sviluppato per portare la sua quantità di frutto.
Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non è fare tutti insieme le stesse cose, ma è l’amore, il dialogo, la condivisione.
Molte famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le domeniche a pranzo. Ma questa non è unione. Unione significa essere un’anima sola, un cuore solo; significa condividere reciprocamente i propri pensieri, le proprie emozioni, le proprie preoccupazioni, la propria vita: esattamente come avviene tra la vite e i suoi tralci.
L’allusione alla vite era molto comune ai tempi di Gesù. Il vino, frutto della vite, per gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa, sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è riapparso in abbondanza. Così l’immagine dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice gioia, felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita, alla linfa che scorre continuamente al loro interno.
Il riferimento a noi è immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita, nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che li lega, non tagliamoci fuori da questa intimità, da ciò che abbiamo e proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso istante, noi ci perderemo; non avremo più linfa, seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È la legge fondamentale della vita.
Gesù si propone come la Vite/Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono il vero piacere della vita”.
Ogni volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il calice del mio sangue, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice anche che il vino di quel calice è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, amore, essenza di vita perenne.
La vita è un piacere; vivere è bello, entusiasmante, appassionante. Nella misura in cui sperimentiamo, assaporiamo, viviamo l’Amore.
Molti straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinti di essere gli unici “illuminati”, gli unici destinatari, gli esclusivi custodi dell'amore divino; e per essere degni di questa loro “elezione”, conducono una vita triste, sconsolata, passiva, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze, di privazioni. Ma non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per noi; perché noi li potessimo ammirare, prendere, assaporare; perché potessimo gioire della loro bontà, riempiendoci il cuore e l’anima.
Dio è buono. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non dobbiamo aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito: “Saremo giudicati per tutte le bellezze e i piaceri che Dio ci ha messo a disposizione e che noi abbiamo sdegnosamente ignorato”. Ovviamente non dobbiamo mai assolutizzare questo piacere, non dobbiamo finalizzarlo per non diventarne succubi. Tutto ciò che esiste, il mondo intero, esiste per noi; ma esiste non perché lo possediamo egoisticamente, non perché lo rapiniamo, lo dominiamo, lo distruggiamo, ma perché lo godiamo, condividendone serenamente la bellezza e la bontà con i nostri fratelli.
Noi invece vorremmo possederlo questo mondo: vorremmo che esistesse solo per noi, che fossimo noi i soli a goderne la bellezza: ciò succede inconsciamente, per esempio, anche quando, di fronte ad un paesaggio incantevole, oltre che a fermarci ad ammirarlo, a goderne in silenzio la sua maestosità, ci preoccupiamo soprattutto di fotografarlo in ogni suo particolare, in ogni sua sfumatura; vogliamo cioè in qualche modo catturarlo, possederlo, custodirlo sempre con noi, a nostro esclusivo uso e piacere. Il peggio purtroppo è che ci comportiamo così anche con le persone: spesso non le godiamo, non gustiamo la gioia della loro presenza, della loro compagnia, della loro amicizia; ci preoccupiamo soprattutto di trovare un modo per servirci di loro, siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle a nostro uso e consumo.
Godere è lasciare invece che le persone esistano, che vivano la loro vita. Godere è condividere la loro anima dentro di noi, assaporarne la bontà, la generosità, la disponibilità, ma lasciarle libere dove sono, non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore vero è gioia pura che dà continuamente vita; il possesso invece, anche se al momento è attraente, se stuzzica i nostri sensi, se ci offre soddisfazione immediata, ben presto svilisce, perde la sua attrazione, intristisce e soffoca l’anima.
L’immagine del tralcio unito alla vite ci ricorda il presupposto della sopravvivenza: se il tralcio si stacca dalla linfa che lo nutre, muore. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Ce lo ripete insistentemente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci stacchiamo dal nostro Spirito interiore per noi è la fine. Se crediamo che la felicità consista nell’esteriorità, nel possedere, nel gozzovigliare, nel divertirci e basta, ci illudiamo: continueremo per tutta la vita a rincorrerla invano, senza alcun risultato, perché ciò che ci rende veramente felici non si trova all’esterno, ma dentro di noi. Le parole di Gesù sembrano lontane, astratte, riservate ai grandi mistici: “Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano astruse, ermetiche, ma al contrario dicono una cosa semplice, elementare: l’intimità con Dio, linfa vitale, è data non da quanto facciamo, ma da quanto in profondità noi andiamo. Solo nel nostro profondo possiamo incontrarlo e rimanere in contatto diretto con Lui.
Tutti noi andiamo in chiesa per incontrarlo: ma non basta. Non basta andare in chiesa e riempire Dio di paroloni, di promesse, di inchini e genuflessioni a mezz’asta! Molti purtroppo parlano a Dio ma non con Dio. Molti cristiani, come pure molti preti e persone consacrate, quando sono in chiesa, quando pregano, dimostrano inequivocabilmente di non provare alcuna vibrazione interiore, alcuna vitalità spirituale, nessuno slancio: solo superficialità. Sembra proprio che le parole del Vangelo che proclamano non li riguardi; che non si lascino toccare da ciò che fanno e sentono; che non provino in alcun modo l’ebbrezza del canto o la commozione del silenzio. Insomma, dimostrano di essere persone che non parlano con Dio; semmai persone che lo riempiono semplicemente di fumo, di chiacchiere, di dovuto, di noia.
Nella vita, ovunque siamo, qualunque cosa facciamo, possiamo trovare la felicità autentica, assoluta, solo dentro di noi, nell’anima, punto di contatto con Dio, santuario in cui il suo Cuore palpita col nostro, sorgente da cui sgorgano le nostre emozioni più vitali: il pianto, la gioia, il dolore, il conforto, la riconoscenza, l’amore. “Introire secum” vuol dire allora percepire questa linfa divina che scorre dentro di noi, esserne riempiti, saturati, sommersi; vuol dire “rifugiarsi dentro”, nella nostra anima, e lasciarci sommergere interamente da Dio. Se rimaniamo lì, in Lui, allora finalmente capiremo “chi” siamo in realtà; allora finalmente capiremo quanto fortunati siamo ad averlo sempre con noi; allora finalmente conosceremo tutte le sfumature della Sua chiamata, tutte le implicazioni per la nostra vita, anche quelle più impegnative e forse a noi meno gradite. Ma soprattutto allora potremo finalmente perderci nella Sua grandezza, nella Sua bellezza, nella Sua immensità, nel suo Amore infinito. Amen.




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