«Pietro
si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe
contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Il
Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra
vita “comunitaria”. Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante
in una comunità ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui;
quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo. Oggi ci
offre un ulteriore approfondimento del tema: uno dei modi più efficaci
per esprimere l'amore, è il perdono.
A
Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere
certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. «Quante volte devo
perdonare?». Egli ha capito perfettamente che bisogna perdonare: ma quali
sono i limiti di questo perdono? Egli pensa di mettersi in linea con la
predicazione di Gesù, andando oltre le tre, quattro volte, previste dall’antica
legge (come per es. in Amos 2,4 e Giobbe 33,29) e, per tenersi sul sicuro,
propone “sette volte”. Ma la risposta di Gesù va ben oltre:
rovesciando il canto di Lamech che prevedeva un crescendo di violenza scatenata
dal gesto di Caino: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech
settantasette…» (Gn 4,24), Gesù fa capire quali impensabili risorse di
misericordia siano legate all’avvento del suo Regno:«Non ti dico fino a
sette, ma fino a settanta volte sette». In altre parole, caro Pietro, non
hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplice: il perdono non è frutto di
un gesto eroico che nasce dal grado di bontà del discepolo, ma è la logica
conseguenza di chi si rende conto di quanto perdono, lui per primo, abbia
ricevuto dal Signore... Chi si guarda un po’ dentro, e vede quanto male gli è
stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta qualunque torto.
Quindi l'unica misura del perdono è perdonare sempre, senza misura e senza
calcoli, perché è così che Dio fa con noi. La nuova giustizia che Gesù
introduce nel Regno, infatti, non è quella che ristabilisce la parità, in base
alla regola “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la
giustizia propria di chi ama senza limiti. Egli sostituisce la giustizia della
legge che uccide, con la sua, quella dello Spirito che dona vita.
Perdono
incondizionato, dunque. Ma cos'è il perdono? È possibile il perdono? Come si
giustifica? Come viverlo? Cerchiamo di chiarire un po’ questi interrogativi.
Per
ciascuno di noi è una cosa naturale, istintiva, reagire alle offese degli altri
e in qualche modo vendicarci, anche se si tratta di piccole cose. Se poi
subiamo torti o azioni cattive più gravi, lesioni alla nostra dignità, alla
salute o alla vita nostra e dei nostri cari, sentiamo non solo il bisogno di
far valere le nostre ragioni giudizialmente (e fin qui può andare bene), ma soprattutto
di affrontare con altrettanta durezza e cattiveria il responsabile, per fargli
pagare ad ogni costo il “male” che abbiamo ricevuto. Ma è una soluzione che non
paga. Perché ci fa cadere inevitabilmente in quel meccanismo in cui il male
richiama altro male, la violenza (di qualunque tipo) richiama e moltiplica
violenza; in questo modo non plachiamo certamente l’odio, ma lo
alimentiamo facendolo crescere sempre più; inoltre l’idea della vendetta ci
illude, ci corrode l’anima, inducendoci a pensare che è lei, la ritorsione, a
rimettere le cose a posto; ma il risultato è ingannevole perché ci fa
vivere nel tormento, con l'inferno nel cuore. Conosciamo tanti piccoli casi
intorno a noi: vicini di casa che hanno litigato per un nonnulla e lasciano
passare anni, decenni, senza scambiare una parola, un saluto; genitori e figli
che interrompono ogni rapporto per motivi futili e banali; fedeli impegnati
nella parrocchia, attivi nella pastorale e nel volontariato, che si dilaniano
l’anima per soprusi o per sgarbi di “lesa maestà” inesistenti; fratelli e
sorelle apertamente ostili tra loro, che al momento della pace nell’Eucaristia domenicale,
invece di aprirsi all’amore e alla misericordia secondo l’insegnamento di Gesù,
preferiscono fingere e mantenere immutato nel cuore tutto il loro rancore.
Ciascuno rimane orgogliosamente arroccato sulle proprie posizioni, su versanti di
vita diametralmente opposti. Eppure il perdono è l'unica strada, umana e
cristiana, che ci assicura una vita vera, autentica, serena e felice. Vi sono
poi altre situazioni ben più dolorose e strazianti, come rovinare per capriccio
la vita e la serenità di una famiglia, rubando l’amore del marito o della
moglie, oppure causare per gioco, per superficialità, la morte di un figlio, di
una persona cara. Cosa fare allora? Come gestire queste gravi situazioni? Come
continuare a vivere, dopo aver subito azioni così distruttive? Ebbene, nel
perdono non ci sono eccezioni, non ci sono “distinguo”: sempre, anche in questi
casi, dobbiamo perdonare. Dobbiamo farlo noi per primi, portando gli altri a
fare altrettanto. Sembra impossibile, non è vero? Certo, umanamente parlando,
visto dall’esterno, il perdono può sembrare un gesto eroico, irrazionale. Ma a
ben vedere, non è altro che un gesto di equità, un concedere all’altro lo
stesso beneficio che noi abbiamo già ricevuto da Dio in larghissima misura.
Difficile da praticare, questo si. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto
quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con
il Suo aiuto. Per questo dobbiamo chiedergli la forza di cui abbiamo bisogno.
Molti
pensano che perdonare sia un atto riservato a chi ha molta fede, a quanti sono già
avanti nel difficile cammino della perfezione. Nossignori. Il perdono è un atto
che tutti possono e devono fare: un impegno forte, che deve normalizzare la
nostra vita, il nostro modo di pensare, il nostro relazionarci, il nostro
vivere da cristiani. Certo non è una cosa naturale, spontanea, semplice, quanto
piuttosto un gesto irrazionale, contro natura, incomprensibile: esattamente come
lo è l’intero messaggio evangelico di Gesù. Egli, perdonando e scagionando
contro ogni logica umana i suoi torturatori, i suoi carnefici, ci ha lasciato
il più sublime esempio di perdono: ecco perché le sue non sono raccomandazioni
astratte, ma vita vissuta, scuola pratica che tutti possono e devono seguire.
Il
cristiano è chiamato a perdonare, sempre e in ogni caso, soprattutto perché Dio
lo ha sempre fatto, e continua a farlo con lui. Inoltre il vangelo di oggi, con
la sproporzione del debito dei due servi, (migliaia e migliaia di talenti
contro pochi denari) ci ricorda proprio l’enorme divario che esiste fra il
perdono di Dio e il nostro. Ecco: noi siamo chiamati a perdonare perché siamo
dei “perdonati”, perché noi per primi abbiamo fatto e facciamo esperienza
continua del gratuito perdono di Dio, non certo perché siamo più buoni, più
cristiani degli altri. Non dobbiamo perdonare per dimostrare qualcosa a
qualcuno; ma solo perché anche noi abbiamo bisogno assoluto di perdono, e
perché portare rancore, fa più male a noi che agli altri. Sicuramente il nostro
perdonare, come quello di Gesù, rischierà di essere ridicolizzato dalla gente,
forse ci verrà rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità. Poco
importa: chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non
può sottrarsi dal guardare sempre suo fratello con amore e comprensione.
È in
questo senso che dobbiamo leggere il famoso detto di Paolo: “dove abbonda il
peccato, sovrabbonda la grazia!” (Rm 5,20). Il perdono che, da peccatori
perdonati, accordiamo ai fratelli, diventa in noi il “respiro di Dio”, diventa
cioè quello Spirito divino che alimenta la nostra vita. Una comunità è
“osservante”, è “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti cristiani,
assidui praticanti che non sbagliano mai e non mancano di rispetto a nessuno;
ma perché tutti, consapevoli di essere loro stessi dei “perdonati”, perdonano
immediatamente a loro volta gli altri, ricambiando qualunque offesa con
l’amore. In questo modo, e può sembrare assurdo, il male reciproco che troppo
spesso ci facciamo, non costituisce un elemento dirompente di divisione ma, nel
reciproco perdono, diventa il collante che ci unisce saldamente in Cristo.
Anche
a noi succede di essere dei giudici giusti ma spietati, onesti ma scorretti!
Non basta infatti praticare la giustizia umana per essere uomini perfetti, e
men che meno per essere figli di Dio. Se capiamo che il perdono guarisce,
matura e fortifica soprattutto chi lo esercita, cioè noi, e non coloro che lo
ricevono, allora capiremo che perdonare significa fare soprattutto il nostro
interesse!
E
concludo: Gesù suggella il suo insegnamento, proponendoci una pietà, una
misericordia, un perdono, razionalmente incomprensibili quanto si vuole, ma di
una coerenza estremamente semplice: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto
quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo
compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
Due
sono dunque i motivi per cui dobbiamo avere pietà e perdonare: per conquistare
il cuore di Dio e per introdurre nell’apparente equilibrio di questo nostro
mondo garantista, il “disordine divino”, scompaginante, del suo messaggio
d’amore. E dobbiamo farlo col cuore. È difficilissimo perdonare veramente di
cuore: comporta prima di tutto un profondo atto di fede con cui dare fiducia assoluta
all’altro, senza tenere conto del passato, ma guardando solo al futuro. Esattamente
come Dio fa con noi. Dio infatti ci perdona per un suo preciso atto di fede, Egli
crede in noi, si fida di noi! Perdonandoci, Egli investe su di noi, conta sul
nostro cammino di perfezione. E allora, come non rispondere positivamente al
suo invito di essere operatori di bontà?. Amen.