«Gesù fu condotto dallo Spirito
nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta
giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e
gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,1-11).
La
liturgia propone ogni anno, nella prima domenica di quaresima, il vangelo sulle
tentazioni di Gesù. Cerchiamo allora di capire esattamente in cosa consistono
queste “tentazioni”, come mai siano riportate da Matteo con così tanti
particolari. C’è da
dire, prima di tutto, che l’episodio delle tentazioni non è un fatto storico inteso
come lo pensiamo noi: che cioè Gesù sia stato “fisicamente” per quaranta giorni
nel deserto e che lì si sia scontrato materialmente con il diavolo. No: il
racconto di Matteo non è un evento “storico”, ma una riflessione “haggadica”; una
riflessione personale, cioè, con cui l’evangelista, volendo sottolineare la
particolare importanza dell’insegnamento di Gesù, lo ha fatto imitando lo stile
dell’Haggadah, ossia il metodo abituale con cui i rabbini commentavano i vari
passi della Bibbia, arricchendoli con racconti, aneddoti ed esortazioni morali
per renderne più comprensibile il messaggio: un metodo quindi, quello di Matteo, con cui esprime in immagini non tanto un fatto storico, ma una dimensione, una
possibilità, un qualcosa di importante che Gesù ha vissuto durante la sua
vita terrena: nel nostro caso, appunto, le lusinghe di satana, per indurlo ad usare
il suo potere, le sue conoscenze, la sua posizione di Figlio di Dio, per scopi
diversi da quelli che costituivano le linee guida della sua missione.
In un
unico episodio e con delle immagini molto plastiche, Matteo dunque concentra in
questo racconto quello che è successo durante l’intera vita di Gesù: le
tentazioni cioè di seguire la strada del godimento, del possesso, della potenza,
e non quella della Croce, l’unica che Egli doveva percorrere.
Leggiamone
allora i particolari: “Gesù fu condotto
dallo Spirito nel deserto”.
Siamo
subito dopo il Battesimo nel Giordano: si erano appena “aperti i cieli”, e lo
Spirito di Dio era sceso su di Lui; è l’investitura ufficiale di Gesù da parte
di Dio: lo Spirito del Padre, lo Spirito dell’Amore, lo riconosce pubblicamente
davanti al popolo: “Questi è il Figlio
mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. Parole di consacrazione,
attraverso le quali Gesù percepisce che il Padre è al suo fianco: una presenza
di accoglienza, di sostegno, di predilezione, di amore incondizionato.
Ebbene:
quello stesso Spirito subito dopo lo spinge, lo manda, lo “conduce” nel deserto:
il verbo greco anècze (fu portato),
usato al passivo, indica chiaramente che è lo Spirito che vuole questo; è lo
stesso Dio di prima che lo manda laggiù, per vivere un’esperienza difficile e
traumatica.
Questo
ci aiuta a capire come la nostra idea di Dio sia falsata. Per noi, infatti, se
una cosa è bella, buona, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che
viene da Dio; se al contrario è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non
può venire che dal demonio, dal male.
Ma qui
non è così: è Dio stesso, il suo Spirito, il Padre amoroso che “spinge” Gesù nel
deserto per confrontarsi col maligno. Questo ci dice che tutto quanto ci capita,
qualunque cosa, buona o cattiva, che ci riservi la vita, viene sempre da Dio, è
Lui che la permette. Non chiediamoci più allora se una certa situazione dipenda
dal diavolo o da Dio: chiediamoci piuttosto quale sia la prova, quale la
difficoltà, il passaggio, che dobbiamo affrontare e superare nella nostra
crescita. Satana infatti non è il male in sé, ma un ostacolo, uno sbarramento
che ci complica il cammino verso il bene, un passaggio obbligato che ciascuno
di noi deve compiere per evolvere, per liberare le sue energie, le potenzialità
che sono dentro di noi. Per cui l’unica competenza del demonio, la sua unica funzione,
peraltro a noi indispensabile per raggiungere la maturità, è quella di farci
crescere. Non imputiamo quindi a lui l’onere delle nostre colpe, delle nostre
deficienze: è molto comodo scaricare su di lui la responsabilità dei nostri errori,
del nostro egoismo! Non attribuiamo al diavolo un ruolo decisionale che non gli
appartiene: “È colpa sua, è lui che l’ha voluto, che posso farci io?”. Che
possiamo farci? A chi spetta, se non a noi, decidere cosa fare? Solo noi siamo gli
unici preposti alla soluzione dei nostri problemi. Nessun altro.
Dio, al
massimo, può riservarci ogni tanto lo stesso trattamento riservato al Figlio: quando
cioè è venuto il momento per noi di dimostrargli la serietà delle nostre
convinzioni, la nostra sincerità di figli, una prova del nostro amore, ci
spinge nel “deserto”, a fare i conti con le tentazioni del maligno; vuole cioè
che anche noi, come Gesù, ci confrontiamo con i nostri demoni, li combattiamo
faccia a faccia e li vinciamo. La parola “tentare” (in greco peirazo) equivale infatti a “mettere
alla prova, verificare, fare un test”.
Un po’
come succede ai nostri ragazzi a scuola con la “verifica”, con l’esame: i
professori vogliono sapere se hanno studiato, se sono preparati ad affrontare
il corso della vita. La tentazione è la stessa cosa. La tentazione non è Dio
che vuol “farci cadere in errore, farci sbagliare, che ci seduce per provare se
siamo forti”. No, Dio non è così cattivo: Dio vuole che siamo noi stessi a
renderci conto se siamo sinceri, convinti delle nostre promesse, leali con Lui:
che siamo noi stessi a controllare il grado di autenticità della nostra fede.
La tentazione è quindi un dono, non un male: infatti ogni volta che ne usciamo
vincitori, oltre all’intima soddisfazione di scoprire in noi quella forza che
prima pensavamo di non avere, riceviamo una carica di ottimismo, uno stimolo reale
a dimostrare sempre più intensamente il nostro amore a Dio .
Ecco
perché è necessario entrare nel “deserto”, ecco perché dobbiamo essere tentati,
ecco perché dobbiamo affrontare i nostri demoni. Con coraggio, senza temere che
la nostra onorabilità venga meno, sia imbrattata, oltraggiata: nessuno potrà
mai farlo se non noi stessi, perché l’ultima parola, quella decisiva, è solo ed
esclusivamente nostra.
Convinciamoci
che ogni ingresso nell’ombra, nella zona buia della tentazione, anche se all’inizio
può farci paura, ha sempre il pregio di portare con sé un dono di luce, un prova
di maturazione, un’esperienza diretta del nostro amore da offrire a Dio.
I regali
più belli non ce li fanno gli altri, ce li facciamo noi andandoli a cercare
coraggiosamente nel nostro deserto, nelle nostre zone d’ombra: i tesori più
preziosi sono nascosti “dentro” di noi e per ottenerli vanno cercati; le nostre
migliori possibilità sono come le perle preziose, nascoste nel “fondo” del mare,
rinchiuse “dentro” le loro ostriche: solo portandole alla luce, possono sprigionare
la loro bellezza, ed irradiare ovunque il loro fascino.
La
pienezza, la perfezione, non è data dal possedere tante cose, ma dal “tirar
fuori” quei doni, quelle ricchezze che sono dentro di noi, e che moriranno con
noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere.
Quello
che ci attende è dunque un cammino importante, un passaggio obbligato nel
profondo della nostra anima, per riappropriarci delle nostre “terre promesse”, per
rilanciare i nostri propositi di conversione trascurati, inascoltati,
abbandonati. Dobbiamo certo misurarci con i nostri demoni; ma è necessario per rispondere
coraggiosamente alle grandi domande della nostra esistenza, quelle domande
rimaste disattese, accantonate, ignorate fino ad oggi: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono
disposto a rischiare? Come voglio vivere? Quali sono le paure che mi frenano?
Quali sono le bugie che mi racconto? Fino a che punto sono disposto ad
ascoltare la Voce che ho dentro?”. Domande alle quali possiamo dare una sincera
risposta soltanto nella solitudine dell’anima, nel nudo confronto con noi
stessi; perché possiamo raccontare delle belle storie a tutti, possiamo
illudere chiunque, mai noi stessi!
“Dopo aver digiunato quaranta
giorni e quaranta notti…”. Cosa
dobbiamo fare dunque nei nostri “quaranta” giorni, nel nostro deserto quaresimale?
Dobbiamo digiunare! Dobbiamo cioè vietarci l’assunzione di tutti quei “cibi” dannosi,
malefici, che degradano e avviliscono l’anima, saziando esclusivamente il
nostro delirio di onnipotenza.
Sono
tre le tentazioni che satana propone a Gesù: non sono inviti espliciti a fare
delle cose peccaminose, ma delle seduzioni molto fini, intriganti. Si tratta di
tentazioni molto attuali anche per noi, perché ogni uomo le conosce bene, le
accetta volentieri, le usa abbondantemente.
La
prima: “Dì che questi sassi diventino
pane”. È la tentazione “del pane”, del benessere personale, dell’assicurarsi
la prosperità materiale anche a scapito degli altri.
Il
diavolo sa che Gesù è Figlio di Dio: a lui non interessa mettere in dubbio questa
sua figliolanza divina, ma di suggerirgli i vantaggi che da essa egli potrebbe
ricavare. “Usa le tue eccellenti capacità, il tuo prestigio popolare, ad
esclusivo vantaggio della tua persona”. In altre parole Satana invita Gesù a spogliarsi
della sua divinità, ad abbandonare la sua missione d’amore, per vivere in modo umano,
egoistico, usando le sue potenzialità solo per risolvere le esigenze materiali,
i suoi problemi quotidiani, per agevolare la sua “carriera”. È la tentazione di
fare a meno di Dio, come era già stato per Adamo. Ma per Gesù l’unico cibo
valido è quello di fare sempre e comunque la volontà del Padre. Egli, se solo
lo avesse voluto, avrebbe potuto trasformare in pane tutti i sassi di questo
mondo: ma non lo ha fatto. Per Lui agire egoisticamente a proprio tornaconto, disinteressandosi
del prossimo, è una scelta destabilizzante, diabolica: diventa invece un
miracolo autentico quando i doni di Dio vengono messi a servizio esclusivo dei fratelli
bisognosi.
La
seconda: “Gettati giù dal pinnacolo del
tempio e gli angeli ti sorreggeranno”. Il tentatore in pratica non fa altro
che dire a Gesù: “Fai quello che la gente si aspetta da te. Non sei il Messia? Comportati
e mostrati comunque come tale. Tutti si aspettano che tu venga in modo
prodigioso? Accontentali! E visto che ci sei e che puoi (sei figlio di Dio!), lanciati
e fatti sostenere dai tuoi angeli, così tutti sapranno che tu sei il Messia”. Tra
le varie cose che la gente si aspettava dal Messia, c’era anche una sua spettacolare
manifestazione nel tempio di Gerusalemme: ora, il suo “pinnacolo” era il punto
più alto, più in vista: se Gesù avesse fatto qualcosa di spettacolare da quell’altezza,
tutti lo avrebbero potuto ammirare. Un fenomeno un po’ da baraccone, ma questo
era il Messia che allora la gente si aspettava: se però Gesù fosse diventato un
simile Messia, non sarebbe mai stato il Figlio di Dio che noi conosciamo. In
pratica è la tentazione della “religione”: una tentazione umana molto forte anche
oggi è quella di usare Dio e le parole del Vangelo per i propri fini, per un
proprio tornaconto, che con Dio non c’entra proprio nulla! La storia è piena di
questo falso uso delle Scritture e delle tradizioni religiose. In nome di Dio
si sono fatte e si fanno guerre fratricide, si continua a commettere ingiustizie
enormi. Con il risultato di far allontanare dalla fede intere generazioni.
Qui
vuol dire che se riusciremo ad accontentare tutti, a costo di qualunque
compromesso, avremo sicuramente l’approvazione generale, ma perderemo noi stessi.
Così, facciamo pure leggi contro la morale naturale, leggi che certa gente pretende
a tutti i costi: sicuramente otterremo voti e tanto consenso umano, ma tradiremo
Dio e la nostra coscienza, rendendola sorda e inefficace. Cerchiamo pure, con
la nostra abilità untuosa, l’approvazione dei capi, dei potenti, delle persone
che contano: non avremo più problemi dall’alto, ma avremo perso completamente la
nostra libertà. Cercare infatti ad ogni costo l’approvazione, il consenso degli
altri, per Gesù è una scelta diabolica, perché significa rinunciare alla propria
missione, tradire il proprio “mandato”, diventando dei “traditori”, piuttosto
che “servitori” dei fratelli.
Infine
la terza tentazione: il diavolo alza ancora il prezzo; non c’è riuscito con la
fame e con la religione, per cui a questo punto tira in ballo la seduzione più
forte: la ricchezza.
“Ti darò tutto questo se
prostrandoti mi adorerai”.
Una ricchezza smisurata a prezzo della rinuncia alla nostra intelligenza, alla
nostra dignità; a prezzo di una viscerale sottomissione alle leggi nefaste del
male: “fai quello che ti dicono”. E questa volta il diavolo porta Gesù su di un
monte altissimo. Perché? Perché la vetta del monte anticamente era considerata la
residenza degli dei: per cui salire lassù in alto, significava entrare in una condizione
superiore, divina. Essere come Dio, allargare il possesso su tutto e su tutti,
è sempre stata la massima aspirazione dell’uomo. In cambio, però, il diavolo
chiede una cosetta non proprio insignificante: abbassarsi a fare sempre quello
che vuole lui.
Una
cosa, tutto sommato, ci riesce abbastanza facile: se tutti fanno così, se tutti
si comportano in un certo modo, perché non ci adeguiamo anche noi? È più
semplice che non creare problemi per remare contro, per voler distinguersi dalla
massa! Se tutti dicono di essere cattolici, di vivere da buoni cristiani, ma
all’atto pratico trascurano completamente i valori del vangelo, chi siamo noi
per ribellarci a questo andazzo? Facciamo anche noi altrettanto! Del resto non
dipende da noi, non è colpa nostra, è il mondo che va così, è la convivenza
sociale che impone questa scelta; non possiamo farci nulla!
Oggi siamo
schiavi dei budgets economici, degli
obiettivi da raggiungere, dei mercati e della concorrenza: le lobbies finanziarie impongono al mondo di
seguire una certa direzione di loro gradimento? Tutto il popolo bue deve
adeguarsi. Ma se tutti i governanti preferiscono defilarsi, se tutti i media
prezzolati continuano a magnificare tali iniziative, se tutte le popolazioni sottostanno
passivamente a simili imposizioni, dove andremo a finire?
La mentalità
dominante nella società contemporanea è che purtroppo il denaro può tutto; che
la “bustarella” è il motore che muove ogni decisione umana. Non la cultura, non
la religione, ma è il denaro che stabilisce i criteri guida di una società: non
i valori morali, ma la potenza del denaro condiziona la vita globale. Tutto ha
un “suo prezzo”: basta solo trovare quello giusto per far cambiare indistintamente
opinioni, leggi, scelte di vita. È la cosiddetta “etica del quanto”; ci sono
persone che sembrano rifiutare certi accorgimenti, sembrano resistere a certi
livelli di corruzione: ma di fronte al rialzo del prezzo finiscono per
modificare anch’essi il loro costume, perdere la loro moralità, la loro integrità,
la loro coerenza.
Ebbene:
quale è a questo punto il nostro prezzo? Siamo davvero convinti che nulla può
portarci fuori strada, che nulla può farci rinnegare le nostre scelte di valore,
i principi guida della nostra coscienza? La fede che professiamo ci rende immuni
dal cedere alle tentazioni dell’affermazione egoistica, del potere assoluto,
della ricchezza smisurata?
Beh,
perlomeno è consolante sapere che anche Gesù è passato per questa strada
stretta, e che anche lui è stato messo alla prova del “fregarsene degli altri”
quando aveva fame, dell’affermare il proprio prestigio, dell’essere immune dal “prezzo
giusto”.
Lui è
rimasto fedele in tutto. Affidiamoci allora a Lui in queste nostre prove con le
quali purtroppo la nostra vita deve fare continuamente i conti. Come Gesù ha
sconfitto il suo tentatore, così anche noi, con il suo aiuto, faremo
sicuramente altrettanto. Amen.