«Quando pregate dite: Padre,
sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro
pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo
a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11,1-13).
Gesù,
nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre
Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e
quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più
vicina all’originale. Era più naturale infatti, per le prime comunità cristiane,
aggiungere parole e concetti esplicativi ad un testo iniziale breve, piuttosto che
accorciarne uno successivo più lungo.
Qui Gesù
spiega ai discepoli non solo il motivo per cui devono pregare, ma soprattutto con
quali parole e con quale disposizione d’animo, devono farlo.
«Quando pregate
dite: Padre».
“Padre”
è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore,
potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva,
sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre
esperienze, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio,
Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra
comprensione.
Un
giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma chi è Dio?”. Allora la madre lo
prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti?”. “Sento
che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Questo è Dio, figlio mio!”.
Dio è
Padre così. Finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo
più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la
sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza
tra le sue braccia, noi saremo ancora nell’anticamera di Dio.
È Gesù
che ci ha parlato di Dio come di un Padre. Come? “Siate misericordiosi, come il
Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è
uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra
mai”: è uno che cerca soprattutto di amare come ama Lui, con il suo stesso
amore.
Quella
che Gesù ci propone è un’immagine di Dio tutta nuova: a Dio infatti non interessa
tanto fare il giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano,
ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e
i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole la
vita per tutti! Non a caso, come abbiamo visto, ci propone come modello di
credente un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto; perché solo lui ha
misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i
religiosi, i puri, gli osservanti, come il sacerdote e il levita, tirano
dritto. Gesù non vuole osservanza
(sacerdote e levita) ma che l’amore che Lui nutre per noi (un amore che
dobbiamo sentire, percepire, accettare)
si dilati e si espanda a tutta l’umanità: “Gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Per la
religione di quel tempo, Dio doveva essere temuto e “servito”. Dio era il Re, l’uomo
era il servo che gli ubbidiva con preghiere, digiuni, penitenze, una retta
condotta e una totale sottomissione alla sua volontà,.
Ma con
Gesù tutto è cambiato; Dio non vuole più essere servito, è Lui che ci serve. Esattamente
come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si e messo a servire i discepoli e a
lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a
voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se la
religione ci dice ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, fioretti,
digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo, la “buona notizia”, ci dice ciò che Dio
fa spontaneamente per l’uomo: lo ama aldilà di tutto e di ogni cosa.
San
Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella
paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale
gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo
figli di Dio” (Rm 8,15).
Quindi
qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro
peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo
figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci
respingerà.
«Sia santificato
il tuo nome».
Molte
persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, al parlar male,
all’usare in malo modo il nome di Dio. Ma noi non “santifichiamo il nome di Dio”,
ossia già lo “bestemmiamo”, vivendo al di sotto delle nostre possibilità;
bestemmiamo Dio quando ci lasciamo vivere, quando per paura, per dipendenza o
per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; noi
bestemmiamo Dio quando i nostri occhi non colgono la sua presenza in mezzo a
noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite senza
amore, senza fondamenta, perché così come sono rinnegano la Vita, perché sono
inutili, futili, superficiali e banali. Allora possiamo anche confessarci di
aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio, ma dobbiamo soprattutto
chiedere perdono e convertirci, quando con la nostra vita rinneghiamo la
grandezza, la meraviglia, lo stupore che Dio ha riposto in noi. Ogni volta che
viviamo al di sotto delle nostre possibilità, della nostra grandezza, noi non
santifichiamo Dio, bestemmiamo colui che ci ha creato grandi.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una
montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto sappiamo di Dio. Allora: “Non limitiamo
Dio alla nostra mente”. Dio è più grande, Dio è oltre, Dio è un’esperienza che
non finiremo mai di scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare, e per
quanto ci sforziamo di fare, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà sempre, ci sbalordirà
in ogni caso”. Questo è il mistero di Dio.
Gli
Ebrei non pronunciavano mai il nome “Jahwèh” per dire Dio, ma dicevano sempre “Adonai”. Come a dire: “Dio non lo si
può pronunciare perché nessuno lo conosce, nessuno sa chi è, nessuno possiede
il suo nome: Egli è l’impensabile, l’impronunciabile, il terribile”.
Noi invece
parliamo liberamente di Dio: ci sentiamo toccati dal suo amore e abbiamo
bisogno di esprimere ciò che pensiamo di Lui; cerchiamo di manifestare all’esterno
ciò che con Lui viviamo all’interno, nel nostro cuore, nella nostra anima.
Quando parliamo di Lui parliamo sempre della nostra esperienza di Lui, mai di
Lui, perché Dio è, anche per noi, l’in-definito, l’in-finito, cioè colui che
sta sempre oltre i nostri limiti.
Bestemmia
Dio quando la gente arriva a conoscere la “cruna di un ago” e dice: “Questo è
Dio”. Bestemmia Dio, quando usa Dio per scopi politici, per rappresaglie, per
interessi religiosi, per fare seguaci, per legare a sé le persone, per
sottometterle a qualche autorità, riducendolo a qualche pratica religiosa. Di
fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è
Santo, è Altro, è Oltre.
«Venga il tuo
regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In
tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche
nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un
re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun
re era così! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto,
senza la conversione del cuore, è stato inefficace. Quindi si pose in attesa di
un intervento diretto di Dio (apocalissi).
Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la fedele osservanza delle
leggi (i farisei). Poi venne Gesù che
non disse più: “Il regno verrà!”, ma:
“Il regno è vicino” (Mc 1,15). È
vicino a noi, perché il regno è la possibilità che abbiamo di instaurare la
signoria di Dio in noi stessi. Noi soli possiamo trasformare questa possibilità
in realtà, possiamo permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo
manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri.
Altrimenti, pur essendo una possibilità reale, vicina, a portata di mano,
rimane non realizzata.
Quando
ci impegniamo a far diventare la nostra vita più vera, il regno di Dio avviene
in noi. Quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando
diventiamo più aperti e meno giudicanti, il regno avviene in noi. Quando nel nostro
ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle
ipocrisie, quando non permettiamo agli altri di umiliarci e di umiliare, allora
il regno avviene in noi. Quando ci esponiamo, quando non ci tiriamo indietro di
fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in
gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità, il regno avviene
in noi.
Ogni
volta che noi preghiamo “venga il tuo
regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò
che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni
giorno il pane quotidiano».
Gesù
dovette usare l’espressione “lehem huqi”
che vuol dire il “pane che costruisce”.
Questa espressione, in greco “epiousion”,
in latino “super-substantialem”, “sopra
la sostanza”, si riferisce a qualcosa che comprende ma che va ben oltre la
formula “pane quotidiano”, che è piuttosto riduttiva.
L’idea
di nutrimento in ebraico (hatrifeni)
contiene l’idea di “conquista”, di trofeo, di qualcosa che raggiungi mangiando
(non a caso in greco tropheuein, “conquistare”,
vuol dire anche “nutrire”).
Allora:
ciò che mangiamo ci nutre, ci costruisce, ci realizza. Come il cibo naturale
(pane, pizza, verdura, frutta...) ci costruisce, ci fa vivere o ci intossica,
diventa noi stessi (noi diventiamo ciò che mangiamo e ciò che mangiamo diventa noi)
così ciò “di cui ci nutriamo” ogni giorno, ci costruisce, ci realizza, ci forma
o ci de-forma.
“Mangiare”
esperienze positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, che
ammettono i propri errori, vivere in ambienti mentalmente aperti e
affettivamente ricchi, essere in movimento e in cambiamento, perdonare,
cambiare, è un “cibo” che, giorno dopo giorno, ci costruisce e ci forma. Andare
a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, nel
tempo ci costruisce, ci alimenta, delinea la nostra fisionomia.
“Mangiare”
invece esperienze negative, rimanere con famigliari, amici, colleghi in
ambienti di chiusura, di odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare,
vivere stressati senza darci occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d’amore;
essere sempre rigidi, controllati e prevenuti; vivere maledicendo o con persone
che maledicono sempre, ci “demolisce”, ci deforma, ci smantella.
Ecco allora
che la scelta più importante della nostra vita, è quella di mantenere coscientemente
il “cibo” che ci costruisce, che ci fa bene, ed eliminare quello “guasto”,
quello che ci fa male.
Quando
scopriamo che in frigo un cibo è avariato, lo gettiamo via, è ovvio: ora, se lo
facciamo per la salute del corpo, perché non farlo anche per la salute della
nostra anima? Se un cibo ci fa male, non si mangia, punto! Eppure noi
continuiamo a nutrire la nostra anima di robaccia, di cibi avariati, vecchi,
malsani. Anche se sappiamo benissimo che diventeremo ciò di cui ci nutriamo: all’inizio
la differenza sembra un nulla, ma nel tempo sarà chilometrica.
“Quotidiano”
(epiousion-supersubstantalem) non
indica qui di certo il pane quotidiano del fornaio. È il pane sostanzioso, il
pane vero, quello che sfama l’anima, quello “sopra
la sostanza”. Ogni giorno noi abbiamo bisogno del pane dell’anima: un po’
di silenzio, un dialogo profondo con noi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio,
sull’anima; una parola, una lettura che ci insegni qualcosa, che ci faccia
riflettere, il contatto con la natura, un abbraccio dove poterci sentire “contenuti”,
amati; uno sguardo che non ci giudichi, che ci entri dentro l’anima e che non
si vergogni di noi, un po’di preghiera con cui sentirci a casa, al sicuro, tra
le Sue braccia, ascoltare il canto dell’anima, concentrarci sul nostro respiro
per sentire la vita che vibra in noi, chiudere i conti in sospeso, dire ciò che
dobbiamo dire, concentrarci sulla nostra strada, sul nostro motivo di vita.
Ogni giorno: la felicità, la pienezza, la sazietà della vita dipende da questo nostro
coraggio, da questa nostra disciplina quotidiana.
Noi infatti possiamo pian piano plasmare la nostra vita, nutrirla,
darle la forma che desideriamo. Non è vero che siamo in balia degli altri,
della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non
si può, che la società non aiuta. Tocca solo a noi scegliere ciò che deve
nutrirci. Non scegliere, è già una scelta!
Non è vero che una cosa vale l’altra: una
donna non vale l’altra; avere per amico una persona o un’altra non è la stessa
cosa; non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per
l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere lo shampoo, il bagnoschiuma, il
dentifricio solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo
farlo anche per l’ “igiene” della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne
dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita la prima cosa che ci capita
davanti, ciò che abbiamo sottomano; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta
di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima.
Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici,
i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi
che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Il
nostro “pane”, lehem, se invertiamo
le lettere, diventa meleh, “sale,
saggezza”: la nostra “saggezza” deve essere pertanto il nutrimento di ogni
giorno, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”,
gustosi, pieni di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di
Dio e dell’universo.
«E condona (afiemi
) i nostri peccati…»
Il “pane”
(lehem: l-h-m) e la “saggezza” (meleh: m-l-h), sono anche “perdono”, (mahol: m-h-l).
Il
perdono è quindi anch’esso il pane di ogni giorno, è ciò di cui ogni giorno dobbiamo
nutrirci per alimentarci, perché le nostre energie siano libere e vitali, e non
incatenate nel risentimento e nell’odio.
Ogni
giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri
sentimenti di odio, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo
ricordare che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, sarà
il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto
un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo
controllare, su cui non possiamo intervenire. Dobbiamo perdonare le persone che
criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di
parlare, di vivere, che parlano e non sanno, che malignano. Sono cose che ci
indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo;
altrimenti a che pro’ continuare a pensarci, continuare a star male per giorni
e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che possano pensare così,
accettare di essere feriti?
“Perdono”
in ebraico si dice anche kafor, che
vuol dire “ricoprire la ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni
giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono per poter vivere.
Il perdono
deve essere la nostra veste di tutti i giorni, il vestito con cui dobbiamo camminare
nel mondo; perché il perdono è la nostra unica possibilità di fecondità, di essere felici. La felicità
è nelle nostre mani solo se sapremo perdonare.
«… perché anche
noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Condonare
vuol dire mandare via, togliere tutto, non lasciare più nulla.
Noi
possiamo condonare tutto ai nostri fratelli solo se noi abbiamo fatto
esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi
non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora
conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio
ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo condonare.
«Non abbandonarci
alla tentazione».
Nell’Antico
Testamento il verbo “provare” non
indica mai una tentazione, una
sollecitazione al male. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che
viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo.
Un po’
come a scuola: uno studia e poi si fa la verifica per vedere se sa quello che
ha studiato. Lo scopo non è di mettergli un voto insufficiente, di farlo “cadere”,
ma di vedere cosa sa e cosa non sa. Il senso quindi è sempre positivo.
In tal
caso, quindi, la tentazione è una prova, un passaggio obbligato per poter
crescere, per andare avanti. Infatti nahasc
(il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da
superare: se noi lo superiamo, nella nostra anima si libera una luce, una
consapevolezza, una forza, che prima ci era nascosta. Il senso quindi è sempre
positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo
crescere, perché dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, che c’è in noi.
Nel
vangelo di Luca il verbo tentare
appare solo due volte; ed entrambe le volte, contrariamente all’Antico
Testamento, ha sempre un senso negativo: la prima volta è il diavolo che tenta
Gesù (Lc 4,2); nella seconda sono invece
quelli che lo seguono che lo “tentano” perché faccia un segno dal cielo (Lc 11,16). Qui il senso è negativo: si
cerca cioè di far fare a Gesù qualcosa di spettacolare, di trionfale, di
impressionante.
Ma
allora come dobbiamo prendere il verbo “tentare”? Come prova o come induzione al
male?
Chiarisce
tutto Giacomo (1,13-14): “Nessuno, quando è tentato, dica: Sono
tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno
al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria cupidigia che lo attrae e
lo seduce”. Dio non tenta, mai.
Dopo
averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale
disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: nella prima
ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo
inopportuno, anche in modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo
raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere,
tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso,
anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri
pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto.
Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà.
Con la
seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece
cosa significa avere Dio per padre.
Ogni
padre sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli
chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del
pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio,
che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa nuocerci, nulla che non sia
superabile. E sapere che Dio non ci riserverà mai nulla di male, anche nelle
prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha
un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo,
o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una
tragedia.
In
tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci
risponde, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci
risponde, anche se non sempre ci risponde come vogliamo; noi cerchiamo e Lui ci
fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e
Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le
strade che noi avremmo gradito. In ogni caso, però, siamo sempre sicuri che Lui
non ci ferisce, non ci vuol male. E allora, anche se noi non capiamo, possiamo tranquillamente
fidarci, perché, in realtà, noi non capiremo mai cosa sia meglio per noi. Un
vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, e questo mi basta”.
Amen.