«Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio
a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù
con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Leggendo
il vangelo ci imbattiamo spesso in feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve
meravigliare, perché effettivamente Gesù era un uomo che viveva, che
banchettava, che festeggiava: non era un’asceta, un eremita, una persona scostante:
ma era uno che condivideva volentieri con la sua gente i momenti belli della
vita. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, del piacere, dell’ebbrezza
della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima
questo Dio. Dio vuole per ogni uomo gioia e felicità. Dio ci vuole felici. Perché
allora farne un Dio serio, severo, che pretende da noi solo penitenza, sacrifici
e offerte? Dio non è nella noia, nelle formalità, nel trattenerci, nel chiuderci,
nel rinunciare a tutto per non peccare. Egli è il Dio della vita, delle persone
appassionate, di coloro che osano e vivono intensamente.
A
questo matrimonio di Cana c’era anche la madre: in Giovanni la madre di Gesù compare
qui, all’inizio del suo ministero, e alla fine della sua vita pubblica, sotto
la croce. La vita di Gesù fu, per Giovanni, lontano dalla madre: si staccò da
lei, visse la sua vita e fece le sue esperienze. Maria però pur nell’assenza rimase
sempre presente; la ritroviamo infatti ai piedi della croce. Sembra essere questo
il ruolo di ogni genitore: non immischiarsi nella vita del figlio, lasciarlo
andare, ma essere sempre presente nel momento del bisogno, della necessità. Il
figlio sa che lui, il genitore, c’è e ci sarà. Per lui è un porto sicuro, una
casa con la porta sempre aperta, un luogo dove sarà sempre accolto. In questo
sta il vero amore genitoriale: un amore maturo, di chi ama senza pretendere un ritorno
immediato d’amore da parte del figlio, di chi ama in maniera incondizionata, di
chi ama cioè senza l’aspettativa di essere corrisposto.
Durante
questa festa di nozze, improvvisamente, viene a mancare il vino. È Maria, la
madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima l’imbarazzo dei
padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”: parole semplici che, lasciando trasparire la preoccupazione
di evitare l’imbarazzo degli sposi, sottendono un intervento immediato di Gesù.
Sensibilità
di madre, che si ripete anche in quella festa di nozze alla quale Dio invita singolarmente
l’umanità intera: è sempre Maria che si pone come intermediaria tra Dio e la nostra
situazione deficitaria: “Non hanno più
vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare queste nozze, ma non
possiamo. Siamo “vuoti”, non abbiamo più il vino dell’amore, non sappiamo più
amare, non sappiamo più vivere. Non c’è più gioia nella nostra vita, non c’è
più sapore nelle nostre giornate. Così, quando incontriamo certi volti segnati dalla
tensione e dalle rughe della chiusura interiore, dobbiamo purtroppo constatare amaramente:
“Qui non c’è più vino”. Quando ascoltiamo certe prediche su Dio, certi discorsi
religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, passione,
energia dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando la
chiesa è impegnata solo a difendere, a porre limiti su cosa non bisogna fare, a
limitare la creatività, quando soffoca le sue voci trasmettendo paura e ansia,
dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando vediamo certe
coppie che trascinano nella routine il loro matrimonio, senza alcuno slancio ma
con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente
constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone non provano più nessuna
commozione, non si stupiscono più, quando sono diventate ciniche su tutto,
abituate a tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”.
Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di
vivere, senza sussulti, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”.
In tal caso, dobbiamo ascoltare la voce della Madre, che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. E noi facciamolo
veramente, fidiamoci di Lei e delle Parole di Gesù.
Anche i
servi di Cana si sono fidati: hanno fatto una cosa stranissima, pazzesca per
quel tempo, hanno riempito dei contenitori con circa 600 litri d’acqua! Un’enormità!
Nella vita dobbiamo fidarci e af-fidarci a qualcuno: noi abbiamo i nostri
avvocati celesti; facciamo bene tutto quello che ci dicono, anche se non lo
capiamo, anche se lo troviamo strano.
A
volte non capiamo ciò che la vita ci propone; anzi capiamo benissimo, ma ci
sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate
quello che vi dirà”. A volte ci porta là dove non vogliamo andare, e poiché
non ne capiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci
diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che è insensato scalare certe
montagne, quando possiamo stare tranquillamente in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte la
vita ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di
rifiuto, di non-senso: “Fate quello che
vi dirà”. Perché la salvezza sta nel fidarsi, la Vita non sbaglia mai. Fidiamoci
una buona volta, e lasciamoci portare: e finché andiamo, gustiamoci il viaggio,
sicuri di essere al sicuro.
Del
resto le giare “di pietra” significano
una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata; una vita che si è sclerotizzata
nei soliti rituali, che manca di un respiro più ampio, diverso, che va oltre; è
come quando un uomo trascorre giornate prive di gioia, di gusto, di sapore:
vive, ma senza senso. Le giare “di pietra”
rappresentano l’irrigidimento delle nostre devozioni, delle nostre regole
religiose; indicano le nostre abitudini ormai desuete, le nostre vecchie consuetudini,
con il gusto dell’acqua stagnante, imbevibile; indicano certe pratiche religiose,
stantie e ripetitive, che non trasmettono più nessuna vitalità, nessuno
slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Le
ripetiamo solo per abitudine, perché solo ciò che conosciamo non ci fa paura.
Purtroppo
la routine, la quotidianità, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i
sentimenti, anche l’amore. Se non c’è uno slancio più grande, se non c’è il desiderio
di qualcosa di oltre, se non c’è la ricerca del nuovo per uscire dalla
monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. E noi moriamo
lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa
di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando per paura
rinunciamo ad uscire dagli schemi e rimaniamo sempre gli stessi. Moriamo
lentamente ma inesorabilmente quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci
vogliamo, tutto l’amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo
lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, non frequentiamo
nessun incontro dal respiro più ampio, dagli orizzonti più grandi, che ci
faccia toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere, di quello che
siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a
quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo, perché ci costa un po’ di
fatica o un po’ di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente davanti alla
tv, al bar a fare i soliti quattro discorsi da osteria, tra gli amici, nella
ripetitività dell’agire e delle chiacchiere. Moriamo lentamente ma
inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci
guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci delle “balle” (come
se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre
facciate, alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura,
per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo
solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, che
vorrebbe riempirci della vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo
le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo infame, a questa società
depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando andiamo a messa perché
ci siamo sempre andati, quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto, perché
crediamo come abbiamo sempre creduto.
È una
morte che arriva lentamente e inesorabilmente, non all’improvviso. Alcune
persone vive, sono già morte; altre sono in fin di vita; altre presentano serie
malattie di morte; l’anima soffre e piange, ma pochi se ne accorgono. Per
morire basta non far nulla, trascinarsi, rinunciare.
Ogni
giorno, ogni mattina, quando ci alziamo, dobbiamo decidere se vivere o se,
lentamente ma inesorabilmente, lasciarci morire.
Il
segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, possa
ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire,
evolvere deve essere una dimensione del nostro vivere. La vita non deve essere altro
che un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione.
In noi,
nella nostra anima, può esserci di tutto: ogni cosa ha un suo significato profondo,
niente è male in sé, perché tutto può essere trasformato. Nulla deve essere
eliminato o nascosto, anche se apparentemente è oscuro, cattivo, debole,
infermo, perché tutto ha un senso e la possibilità di venire trasformato. Nulla
deve essere eliminato: qualunque cosa di negativo ci sia successa, non dobbiamo
tenerla nascosta, non dobbiamo vergognarcene, perché abbiamo la grande
possibilità di trasformarla in bene. Non esiste nulla che sia male in assoluto,
perché tutto può essere trasformato in qualcosa di unico, di prezioso, di
vitale. Se guardiamo alle nostre ferite, alle nostre fragilità, ai nostri
legami malsani, ai nostri limiti, scopriamo che, se trasformati, possono
diventare la nostra ricchezza e la nostra forza. L’eucarestia stessa è una
trasformazione: un po’ di pane e di vino vengono trasformati nel corpo e sangue
di Cristo. Perché allora crediamo a questo, e dubitiamo invece del fatto di
poter trasformare la nostra vita, o l’ambiente in cui viviamo?
“Cana”
ci invita a cercare più in profondità dentro di noi, su altri livelli, a
penetrare all’interno del nostro vivere quotidiano, spesso vuoto e insipido. La
trasformazione dell’acqua in vino, ci invita a trovare un’ebbrezza nuova, una
gioia, un’estasi profonda. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa che dia un nuovo
sapore a tutte le cose.
Possiamo
però vivere in questa prospettiva soltanto se siamo capaci di passare da un
orizzonte ad un altro: dall’orizzonte del materiale a quello dello spirito;
dall’orizzonte della carne a quello dell’anima; dalla superficie alla
profondità, dal fuori al dentro.
La
coppia nuziale di Cana ci rivela, in conclusione, il segreto di ogni rapporto e
di ogni unione: l’essere cioè capaci di cambiare, di modificarci, di evolvere.
Se un matrimonio avrà questa capacità e questa elasticità, se saprà non
fossilizzarsi su posizioni statiche, se avrà la forza del nuovo e della
crescita, diventerà un paradiso d’amore; altrimenti sarà l’inferno dell’amore.
Amen.