mercoledì 13 gennaio 2016

17 Gennaio 2016 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché effettivamente Gesù era un uomo che viveva, che banchettava, che festeggiava: non era un’asceta, un eremita, una persona scostante: ma era uno che condivideva volentieri con la sua gente i momenti belli della vita. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, del piacere, dell’ebbrezza della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio. Dio vuole per ogni uomo gioia e felicità. Dio ci vuole felici. Perché allora farne un Dio serio, severo, che pretende da noi solo penitenza, sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nelle formalità, nel trattenerci, nel chiuderci, nel rinunciare a tutto per non peccare. Egli è il Dio della vita, delle persone appassionate, di coloro che osano e vivono intensamente.
A questo matrimonio di Cana c’era anche la madre: in Giovanni la madre di Gesù compare qui, all’inizio del suo ministero, e alla fine della sua vita pubblica, sotto la croce. La vita di Gesù fu, per Giovanni, lontano dalla madre: si staccò da lei, visse la sua vita e fece le sue esperienze. Maria però pur nell’assenza rimase sempre presente; la ritroviamo infatti ai piedi della croce. Sembra essere questo il ruolo di ogni genitore: non immischiarsi nella vita del figlio, lasciarlo andare, ma essere sempre presente nel momento del bisogno, della necessità. Il figlio sa che lui, il genitore, c’è e ci sarà. Per lui è un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un luogo dove sarà sempre accolto. In questo sta il vero amore genitoriale: un amore maturo, di chi ama senza pretendere un ritorno immediato d’amore da parte del figlio, di chi ama in maniera incondizionata, di chi ama cioè senza l’aspettativa di essere corrisposto.
Durante questa festa di nozze, improvvisamente, viene a mancare il vino. È Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima l’imbarazzo dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”: parole semplici che, lasciando trasparire la preoccupazione di evitare l’imbarazzo degli sposi, sottendono un intervento immediato di Gesù.
Sensibilità di madre, che si ripete anche in quella festa di nozze alla quale Dio invita singolarmente l’umanità intera: è sempre Maria che si pone come intermediaria tra Dio e la nostra situazione deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare queste nozze, ma non possiamo. Siamo “vuoti”, non abbiamo più il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Non c’è più gioia nella nostra vita, non c’è più sapore nelle nostre giornate. Così, quando incontriamo certi volti segnati dalla tensione e dalle rughe della chiusura interiore, dobbiamo purtroppo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”. Quando ascoltiamo certe prediche su Dio, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, passione, energia dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando la chiesa è impegnata solo a difendere, a porre limiti su cosa non bisogna fare, a limitare la creatività, quando soffoca le sue voci trasmettendo paura e ansia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando vediamo certe coppie che trascinano nella routine il loro matrimonio, senza alcuno slancio ma con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone non provano più nessuna commozione, non si stupiscono più, quando sono diventate ciniche su tutto, abituate a tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. In tal caso, dobbiamo ascoltare la voce della Madre, che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. E noi facciamolo veramente, fidiamoci di Lei e delle Parole di Gesù.
Anche i servi di Cana si sono fidati: hanno fatto una cosa stranissima, pazzesca per quel tempo, hanno riempito dei contenitori con circa 600 litri d’acqua! Un’enormità! Nella vita dobbiamo fidarci e af-fidarci a qualcuno: noi abbiamo i nostri avvocati celesti; facciamo bene tutto quello che ci dicono, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano.
A volte non capiamo ciò che la vita ci propone; anzi capiamo benissimo, ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta là dove non vogliamo andare, e poiché non ne capiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che è insensato scalare certe montagne, quando possiamo stare tranquillamente in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte la vita ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché la salvezza sta nel fidarsi, la Vita non sbaglia mai. Fidiamoci una buona volta, e lasciamoci portare: e finché andiamo, gustiamoci il viaggio, sicuri di essere al sicuro.
Del resto le giare “di pietra” significano una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata; una vita che si è sclerotizzata nei soliti rituali, che manca di un respiro più ampio, diverso, che va oltre; è come quando un uomo trascorre giornate prive di gioia, di gusto, di sapore: vive, ma senza senso. Le giare “di pietra” rappresentano l’irrigidimento delle nostre devozioni, delle nostre regole religiose; indicano le nostre abitudini ormai desuete, le nostre vecchie consuetudini, con il gusto dell’acqua stagnante, imbevibile; indicano certe pratiche religiose, stantie e ripetitive, che non trasmettono più nessuna vitalità, nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Le ripetiamo solo per abitudine, perché solo ciò che conosciamo non ci fa paura.
Purtroppo la routine, la quotidianità, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l’amore. Se non c’è uno slancio più grande, se non c’è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c’è la ricerca del nuovo per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. E noi moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e rimaniamo sempre gli stessi. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l’amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, non frequentiamo nessun incontro dal respiro più ampio, dagli orizzonti più grandi, che ci faccia toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere, di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo, perché ci costa un po’ di fatica o un po’ di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente davanti alla tv, al bar a fare i soliti quattro discorsi da osteria, tra gli amici, nella ripetitività dell’agire e delle chiacchiere. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci delle “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, che vorrebbe riempirci della vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo infame, a questa società depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto, perché crediamo come abbiamo sempre creduto.
È una morte che arriva lentamente e inesorabilmente, non all’improvviso. Alcune persone vive, sono già morte; altre sono in fin di vita; altre presentano serie malattie di morte; l’anima soffre e piange, ma pochi se ne accorgono. Per morire basta non far nulla, trascinarsi, rinunciare.
Ogni giorno, ogni mattina, quando ci alziamo, dobbiamo decidere se vivere o se, lentamente ma inesorabilmente, lasciarci morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, possa ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere deve essere una dimensione del nostro vivere. La vita non deve essere altro che un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione.
In noi, nella nostra anima, può esserci di tutto: ogni cosa ha un suo significato profondo, niente è male in sé, perché tutto può essere trasformato. Nulla deve essere eliminato o nascosto, anche se apparentemente è oscuro, cattivo, debole, infermo, perché tutto ha un senso e la possibilità di venire trasformato. Nulla deve essere eliminato: qualunque cosa di negativo ci sia successa, non dobbiamo tenerla nascosta, non dobbiamo vergognarcene, perché abbiamo la grande possibilità di trasformarla in bene. Non esiste nulla che sia male in assoluto, perché tutto può essere trasformato in qualcosa di unico, di prezioso, di vitale. Se guardiamo alle nostre ferite, alle nostre fragilità, ai nostri legami malsani, ai nostri limiti, scopriamo che, se trasformati, possono diventare la nostra ricchezza e la nostra forza. L’eucarestia stessa è una trasformazione: un po’ di pane e di vino vengono trasformati nel corpo e sangue di Cristo. Perché allora crediamo a questo, e dubitiamo invece del fatto di poter trasformare la nostra vita, o l’ambiente in cui viviamo?
“Cana” ci invita a cercare più in profondità dentro di noi, su altri livelli, a penetrare all’interno del nostro vivere quotidiano, spesso vuoto e insipido. La trasformazione dell’acqua in vino, ci invita a trovare un’ebbrezza nuova, una gioia, un’estasi profonda. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa che dia un nuovo sapore a tutte le cose.
Possiamo però vivere in questa prospettiva soltanto se siamo capaci di passare da un orizzonte ad un altro: dall’orizzonte del materiale a quello dello spirito; dall’orizzonte della carne a quello dell’anima; dalla superficie alla profondità, dal fuori al dentro.
La coppia nuziale di Cana ci rivela, in conclusione, il segreto di ogni rapporto e di ogni unione: l’essere cioè capaci di cambiare, di modificarci, di evolvere. Se un matrimonio avrà questa capacità e questa elasticità, se saprà non fossilizzarsi su posizioni statiche, se avrà la forza del nuovo e della crescita, diventerà un paradiso d’amore; altrimenti sarà l’inferno dell’amore. Amen.



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