mercoledì 30 dicembre 2015

3 Gennaio 2016 – II Domenica dopo Natale

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1-18).

Il vangelo che la Liturgia ci propone questa Domenica, è il brano più profondo e difficile di tutti i Vangeli. Alcuni studiosi hanno passato la loro vita a studiarlo; S. Giovanni Crisostomo o anche Sant’Agostino hanno detto che è un vangelo che va al di là della comprensione umana.
In principio c’era il Verbo: in greco Logos, un termine che ha due significati: Progetto e Parola. Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”. Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni afferma che Dio, prima di creare ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, un’idea. Questo significa che noi non siamo qui per caso; siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi; pensate: noi, creature insignificanti, facciamo parte del Progetto di Dio. Se così non fosse, noi neppure esisteremmo. Ma ci siamo, e siamo qui per un motivo ben preciso... e visto che Dio ci ha creati, il motivo deve essere davvero importante. In altre parole Dio ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori neppure ci volevano... magari la gente ci rifiuta e ci respinge... magari noi stessi non ci vogliamo, non ci piacciamo, ci facciamo schifo... ma Dio ci ha voluto, e continua a volerci, perché gli serviamo per attuare il suo Progetto. Che aspettiamo allora a dargli una mano?
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi facciamo a Dio è quello di vivere. Lui vuole questo da noi. “Io sono venuto, perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”. In pratica dobbiamo vivere, rischiare, metterci in gioco: chi espone le proprie idee, rischia di mostrare a tutti i propri sentimenti, il proprio io intimo; chi ama, corre il rischio di non essere corrisposto; chi vive corre il rischio di morire; chi spera, corre il rischio della disperazione, chi tenta corre il rischio di fallire. Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è quello di non rischiare nulla. Colui che non rischia nulla, è un nulla e non diventerà mai che un nulla. Può evitare la sofferenza e l’angoscia, ma non può imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è uno schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita, come ho detto, è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta è il nostro dono a Lui: una vita sprecata è il più grande peccato. Cosa aspettiamo allora a vivere? Non diamo anni alla vita, ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo luce che risplende nelle tenebre. L’uomo che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, è vita, è luce; non dice luce che lotta, ma semplicemente luce che splende, luce cioè che brilla, libera, senza subire costrizioni e senza costringere nessuno.
Ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5). Naturalmente le tenebre odiano la luce, non la vogliono: qui Giovanni allude alle autorità religiose. Infatti esse “sono dei morti” che vivono, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Avrebbero dovuto portare la luce e invece...
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 19,9). La luce vera, Gesù, il verbo incarnato, è venuto nel mondo. “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita”.
Gesù-Vita è quindi la vera luce che illumina ogni uomo: facciamo però attenzione a non prendere abbagli, perché il potere (orgoglio, superiorità, mancanza d’amore, rigidità, ecc) non può conoscere Dio.
Anche coloro che si lasciano incantare da altre luci, diverse dalla Luce vera, sono comunque “divini”, sono cioè fatti, impregnati di Dio; ma poi si sono, come dire, dimenticati di chi sono veramente, si sono dimenticati che hanno l’impronta di Dio nel loro cuore e vivono non riconoscendolo e non riconoscendosi più. Che tristezza: essere dei re e vivere come degli schiavi!
“A quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.
Ecco, questo è il progetto originario di Dio per ognuno di noi: che noi diventassimo suoi figli.
Noi abbiamo imparato che l’uomo è fatto per servire Dio, che Dio è sopra e l’uomo è sotto, è il suo servitore, che è meglio ubbidirgli perché Dio è potente e se non stiamo attenti ci punisce con l’inferno o con qualche castigo.
In realtà non è così: noi non siamo i servi di Dio ma siamo i serviti da Dio. Vi ricordate la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20)? È Dio che serve l’uomo e non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, sacrifici per lui: è Lui che è venuto a portare il suo servizio e l’amore a noi. La fede non è più quello che noi facciamo per Lui, ma quello che Lui fa per noi.
Noi non siamo figli di Dio per nascita, ma lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). I figli di Dio sono pertanto quelli che sono stati generati nell’amore e vivono nell’amore. Non con preghiere, digiuni o sacrifici, lo ripeto, ma con l’amore. Amore: questo, e questo solo, Lui ci chiede.
Questa di Giovanni è una teologia “trasgressiva”: Dio non è più nelle chiese, in un posto prestabilito, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”. Dio non è più fermo, fisso in un luogo, come lo era nel Tempio, ma in cammino, in un continuo cammino insieme alla gente. Dio non è più un luogo (tempio), ma un tempo (kairòs): perché nell’istante stesso in cui c’è l’amore, lì c’è Dio.
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). “Nessun uomo può vedere Dio!”, era la convinzione degli antichi israeliti; a Mosè, che ad un certo punto chiede al Signore: “Mostrami la tua Gloria”, Dio gli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18-20). Ma con Gesù questo non è più vero: Dio non è invisibile; Gesù stesso dirà: “Dio si vede... Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui.
Sulla vetta di un’alta montagna delle Dolomiti, ricordo un cartello che diceva: “Non cercare Dio, ci sei immerso”. Lui infatti era lì... bastava guardarsi attorno!
In Gesù, “unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi non è Gesù che è come Dio, ma è Dio che è come Gesù. E allora, se vogliamo sapere chi è Dio, guardiamo, imitiamo, diventiamo, come Gesù. Tutto ciò che Gesù non è, non viene da Dio. La caratteristica di Dio, invece, è quella di essere “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): una forma che si può tradurre con “pieno di amore e di verità” oppure con “pieno di amore vero”. Perché Dio è così: Egli ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi ce ne andiamo o lo tradiamo.
Ancora oggi molte persone temono di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile per Dio, di essere indegni di Lui...: ma Lui non è così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre! “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Ricordiamolo in questo giubileo della Misericordia: l’amore di Dio non tradisce mai, non viene mai meno, neppure di fronte alle nostre più oscure cadute. Amen.



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