«In quei giorni Maria si alzò e
andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).
Siamo
alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica prima del Natale.
Il
vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due
donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per quanto sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze impossibili; l’una e l’altra
hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno figli “particolari”; l’una e l’altra
sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria
quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud
della Giudea.
Facciamo
mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna a quel tempo, se da sola
(!), era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla
Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare
attraverso la Samaria, secolare nemica dei Giudei. Insomma, una impresa impensabile.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di umiltà, di
silenzio, di riservatezza: una donna dimessa che ubbidisce sempre e se ne sta zitta, nella sua stanzetta, una madre tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del
resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi
a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere vista come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il
vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però
che arrivata da Elisabetta, entra “nella
casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. Ha cioè così tanta fretta da
dimenticarsi di salutare Zaccaria, il padrone di casa? Forse che durante il viaggio è diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro,
un qualcosa successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era rimasto
muto (e sordo!) perché era stato refrattario all’annuncio di Dio: egli,
sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio
di Dio.
Maria
ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di
una profondità che Zaccaria non può avere.
In
pratica Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è
innamorato può capire l’amore; solo chi ha la gioia può capire certi gesti. Zaccaria
non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa
stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha
quel cuore che queste donne hanno. Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il
cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di
Dio, ed ha fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire
perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle
logiche finanziarie, della paura.
Osserviamo poi cosa dice il vangelo in proposito: “Appena Elisabetta
ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò in grembo. Elisabetta fu
piena di Spirito Santo” (1,41). Il Battista, già dal ventre di Elisabetta
riconosce Gesù nel ventre di Maria. Non per niente il Battista dirà di Gesù: “Costui vi battezzerà in Spirito Santo” (Lc
3,16). In pratica il Battista riconoscerà l’attività di Gesù come quella di
colui che immerge le persone non più nell’acqua, come lui, ma nello Spirito.
Luca qui sta facendo teologia e non storia: vuol dirci cioè che il Battista
riconosce fin dall’inizio l’opera e l’operato di Gesù: riconosce cioè in Lui proprio
Colui che deve venire.
Inoltre,
il saluto di Maria, che è piena di Spirito Santo, trasmette ad
Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che
possiede, ciò che ha. Maria è piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno passa quello che ha, quello che è. Il loro saluto cioè è uno scambio, una comunicazione di
percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È quell’incontro in cui,
al di là dei discorsi, i cuori e le anime si sfiorano e si toccano.
Le loro parole sono piene di significato, sono “pesanti”, profonde.
Noi, invece, parliamo tanto, proprio perché comunichiamo poco. Riempiamo con le
parole il vuoto di senso del nostro parlare.
“Elisabetta fu piena
di Spirito Santo”: lo Spirito non possiede il sacerdote
(Zaccaria) ma soltanto chi accoglie Dio (Elisabetta). Maria è quindi la prima profetessa;
Elisabetta la seconda.
Poi
Elisabetta dice: “A che debbo che la
madre del mio Signore venga a me?”. Lo Spirito che è in lei, le fa
cambiare anche il modo di vedere: ora Maria non è più tanto una sua “parente”, ma la “madre
del suo Signore”, cioè la Madre del Messia atteso. Per chi ha fede i legami dell’anima sono
più importanti dei legami di sangue. E conclude: “beata colei che ha creduto
nell’adempimento delle parole del Signore”.
La lode a Maria è una evidente disapprovazione
nei confronti di Zaccaria suo marito. Egli, che doveva essere profeta, è muto;
Maria, invece, che non era nessuno, è piena di Spirito; Maria è beata, ossia “graziata”,
perché ha creduto alla parola del Signore; Zaccaria è “disgraziato” (=senza
grazia) perché non ha creduto. Maria ha creduto a qualcosa che non era mai
accaduto nella storia di Israele e si è fidata. Zaccaria invece, il sacerdote,
non ha creduto a qualcosa che era successo e capitato tante altre volte (la
nascita di figli da donne sterili, come Sara o Rebecca). È la prima beatitudine
del vangelo:“Beata colei che ha creduto”; una beatitudine che esalta non tanto
la maternità di Maria ma la sua fede. Maria per il vangelo è grande non tanto
per la maternità ma per la fede che ha avuto: ha creduto dove nessun altro lo
ha fatto.
Questo
vangelo ci dice appunto una cosa molto importante: ciò in cui noi crediamo davvero, con tutto il cuore, ci trasforma completamente, e passa da noi agli altri trasformando anche loro.
Maria crede fermamente che suo figlio è “divino”:
e suo figlio sarà il Messia, il Figlio di Dio. Elisabetta crede che suo figlio
è “divino”: e suo figlio diventerà l’Annunciatore di Dio. Maria ed Elisabetta
credono alla grandezza dei loro figli ancor prima che nascessero; e i bambini,
appena concepiti, già percepiscono questa fede, questa fiducia, questa
grandezza, questo valore, nel pensiero delle loro madri: e poi realizzeranno in pieno, quel valore che esse avevano da subito accreditato loro.
E noi?
Ci pensiamo come esseri divini? Abbiamo nei confronti nostri e di chi ci sta
vicino quello stesso atteggiamento che Maria ed Elisabetta hanno avuto per i
loro figli: stima, consapevolezza, meraviglia, fiducia, amore? Tutti noi siamo
destinati ad essere “divini”: ma solo se avremo una grande fede, come la loro, saremo convinti e potremo diventarlo veramente. Se invece, come Zaccaria, ci
lasciamo vincere dalla paura, rimarremo degli essere incompiuti, infelici, incompleti;
non aprendo il nostro cuore alla fede, perderemo la grande possibilità di
diventare Amore nell’Amore. Infatti, solo credendo profondamente ci convinceremo della nostra “divinità”, e faremo di tutto per tornare ad essere come siamo stati pensati. Amen.
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