Il vangelo di oggi ci ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, la festa del Corpo e Sangue di Cristo.
E ci sottolinea quanto sia importante la condivisione, quanto sia fondamentale partecipare tutti e continuamente allo stesso banchetto del Corpo di Cristo, il fare cioè “comunione” con i fratelli: è la festa di tutti noi, la festa per tutti, la festa che ci ricorda l’importanza di essere Chiesa. Ogni volta che partecipiamo all’Eucarestia assumiamo tutti lo stesso unico pane: è la festa comune, la festa di tutti.
Una delle grandi rivoluzioni che Gesù ha portato nelle usanze dell’epoca, è stata la sua abitudine di condividere il cibo con la gente, di sedersi a tavola e mangiare con tutti: lo faceva con gli esattori delle tasse, con i pubblicani e i peccatori, con i farisei e gli uomini di legge; mangiava perfino con i lebbrosi, e durante uno dei suoi pasti accolse pure delle donne di cattiva fama. Gesù non si è mai posto problemi, mangiava ogni giorno e in compagnia di chiunque si trovasse con lui.
E proprio per questa sua abitudine era accusato apertamente dai suoi nemici: gli rinfacciavano di mangiare continuamente, di essere un beone e un crapulone; di mangiare anche nei giorni proibiti (come di sabato) e di non rispettare le regole religiose che riguardavano il cibo, come per esempio non fare le abluzioni obbligatorie prima di mangiare.
Questo succedeva al tempo di Gesù. Chi non osservava tutte le norme, chi non si sottoponeva a tutte le prescrizioni della legge, era automaticamente escluso dalla religione, era un pubblico peccatore. Data ovviamente l’esistenza di una enorme quantità di obblighi, la cui osservanza puntuale era praticamente impossibile, ne conseguiva che la maggior parte della gente non poteva che essere peccatrice: ma peccatrice per cosa? se tutti quei poveretti non riuscivano neppure a sopravvivere, come potevano pagare le decime, digiunare, non lavorare di sabato, evitare di fare lavori impuri? Come potevano seguire tutte le norme di purificazione, i codici degli obblighi e delle purità? Era insomma materialmente impossibile venir considerato tra i “puri”.
Ma Gesù sconvolge questo sistema: la sua missione non è quella di fondare un’elite di puri, di salvati, di uomini “in grazia”; ma di abbattere qualunque forma di emarginazione per tutti i feriti nel cuore e nella vita, per tutti gli esclusi, per tutti i reietti.
Per chi infatti Egli ha lasciato in eredità il suo Corpo e il suo Sangue? Per chi ha istituito l’Eucarestia? Per tutti quelli che si sentono deboli, sofferenti, bisognosi, vulnerabili. Noi tutti andiamo da Gesù non perché siamo in regola o puri, ma perché abbiamo bisogno del suo amore.
Abbiamo bisogno di sentirlo materialmente vicino, abbiamo bisogno di mangiare il “Suo” cibo.
E Gesù mangia con noi: anche se siamo disonesti come Zaccheo. Tutti noi rubiamo, tutti noi facciamo i nostri calcoli e scegliamo sempre ciò che ci è più utile; in amore per esempio: chiediamo tanto agli altri, pretendiamo dai nostri figli obbedienza e rispetto, dai nostri mariti o mogli massima tenerezza e disponibilità; ma noi diamo molto poco. Spendiamo molto poco, spesso addirittura proprio niente. Gesù mangia con noi anche se siamo come l’esattore Levi, anche se condividiamo la sua stessa mentalità: “Io ti do, solo se tu mi dai”. Quel poco di bene che facciamo è addirittura oggetto di contrattazione: “Tu cosa mi dai in cambio? Io non faccio nulla per niente”
Gesù mangia con noi anche se siamo esattamente come, o forse peggio, le “donne facili”. All’esterno facciamo finta di nulla, ma nella nostra coscienza sappiamo bene quali vergogne e a quali imbarazzanti compromessi ci siamo abbassati per ottenere in cambio un bene inutile ed effimero. Anche Lui conosce bene queste nostre infamie; ma Lui viene lo stesso.
Gesù mangia con noi anche se siamo dei Giuda, anche se continuiamo a tradirlo, a venderlo vergognosamente ai suoi carnefici; mangia con noi anche se siamo dei fuorilegge, dei delinquenti, degli approfittatori, dei malviventi: gli altri possono a ragion veduta anche evitarci, rifiutarci, detestarci, odiarci; ma Lui no, Lui non ci rifiuta, non ci odia. Gesù mangia con noi
Ecco allora che ogni volta che andiamo all’Eucarestia, Lui ci offre l’opportunità di lavare le nostre mani sporche e impure. Perché le nostre mani sono realmente sporche e impure. Se non ci fosse Lui, noi saremmo dei condannati, dei reietti, degli emarginati. Ma Lui viene comunque, si posa comunque sulle nostre mani e sul nostro cuore, non perché lo meritiamo ma perché ne abbiamo assoluto bisogno. E allora sentiamo nel nostro cuore di essere ancora degni di vivere; sentiamo di poter ripartire; sentiamo di poter girare pagina; sentiamo che il suo amore è molto più grande dei nostri errori; sentiamo che ciò che il mondo non può perdonarci, Lui ce lo perdona: sempre. Per questo partecipare all’Eucarestia è una festa: è la nostra festa, la festa non dei giusti ma degli amati!
Ogni volta che, purificati dal suo perdono, ci accostiamo al banchetto eucaristico, stendiamo queste nostre misere mani e Lui, nonostante tutto, nonostante il nostro passato burrascoso, il nostro misero presente, accetta di poggiarsi su di esse; apriamo la nostra bocca, e assumiamo questo “pane” angelico, che prima di trasformarsi in noi, ci ripete: “Io ti amo comunque. Ti voglio bene sul serio; tu sei troppo importante per me; io accetto di diventare te, accetto di immedesimarmi con te, anche se tu non mi ami, anche se tu mi hai voltato le spalle”.
Ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, il sacerdote ci dice: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”. Sappiamo che parla di Gesù: Lui, in quel pane, viene da noi; quel pane è Lui.
Ma quelle parole non devono rimanere “parole” e basta: devono diventare le nostre parole, le parole che diciamo agli amici, a coloro che amiamo, al nostro compagno di vita, al mondo intero: “Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue”. È il nostro donarci ai fratelli. È il nostro donarci alla vita. È un po’ il nostro matrimonio col mondo intero. Ricordate il senso della formula matrimoniale? Lo sposo dice alla sposa: “Questo è il corpo che tu ami, il corpo su cui ti appoggi, il corpo che ti rende sicura, che ti tranquillizza, il corpo che lavora, il corpo che si prenderà cura di te, della tua casa, dei tuoi figli. Prendilo così com’è, mia sposa, con i suoi limiti e le sue difficoltà, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella sofferenza”. E lei dice a lui: “Prendi, mio sposo: questo è il mio corpo. Questo è il corpo che tu accarezzi, che tu stringi, che tu baci; è il corpo dell’amore, è il corpo che ha bisogno di te, che ti sta vicino; che a volte si arrabbia e si isola; è il corpo che tu hai scelto, che tu conosci. È il corpo che ti darà dei figli, è il corpo della persona con la quale tu hai scelto di condividere la tua vita, ogni giorno, ogni ora, l’oggi, il domani, sempre; è il corpo che stirerà, che laverà, che ti preparerà da mangiare, è il corpo di cui tu dovrai farti carico. Prendilo così com’è, compagno mio, con i suoi limiti e le sue difficoltà, con i suoi alti e i suoi bassi”. Lui dice a lei: “Prendi questo è il mio sangue, la passione, l’ardore, la forza, il coraggio, la stabilità. Questo è anche il mio dolore, la mia sofferenza, il mio pianto, la mia fatica: prendi e bevi anche questo, accoglilo, accettalo, amalo”. E lei dice a lui: “Prendi questo è il mio sangue, il sangue di ogni mese, la mia vita, il sangue di tuo figlio, la gioia di vivere, di conoscere, di amare. Questo è anche il mio dolore, è la mia sofferenza, il mio pianto, la mia fatica: prendi e bevi anche questo, accoglilo, accettalo, amalo”. Questo è lo spirito che ci deve animare dopo ogni Eucaristia.
Allora ogni volta che sentiamo le parole del vangelo: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”, sappiamo che non è solo il donarsi di Gesù a noi, ma anche il donare noi stessi ai nostri cari, a nostro marito, a nostra moglie, ai nostri amici, al mondo intero.
Vivere una vita eucaristica, non vuol dire andare in chiesa tutti i giorni. Vuol dire vivere facendo della propria vita un dono d’amore: “mangiate, bevete, riposate, guarite nel mio corpo, nella mia anima; disponete pure di tutto me stesso”.
Se non riusciamo a ripetere al nostro prossimo: “Questo è il mio corpo per te”, che vita sarebbe la nostra? Se non facciamo della nostra vita un dono, la nostra vita è inutile. Se non possiamo dire a nessuno: “Questo è il mio sangue per te”, la nostra fatica, la nostra lotta, la nostra passione, il nostro amore non servono a nulla. Se non possiamo donare, esprimere, dare ciò che abbiamo di più profondo, di più intimo, di assolutamente “nostro”, a che serve vivere?
Il pane è fatto per essere mangiato. Tenuto in un cassetto diventa duro, fa la muffa, e non serve più a nessuno. Il vino è fatto per essere bevuto e assaporato. Lasciato in disparte, si ossida, perde il suo gusto, diventa vecchio, diventa aceto, non serve a nessuno. La vita è fatta per essere vissuta, investita, spesa, impegnata, donata, altrimenti è inutile. La felicità non è donare ma donarsi: felicità è poter dire anche noi con Gesù: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue: mangiatene e bevetene”. Amen.