mercoledì 22 aprile 2015

26 Aprile 2015 – IV Domenica di Pasqua

«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11-18).

Del buon pastore il vangelo tratteggia alcune caratteristiche fondamentali.
Buon pastore è colui che segue le pecore, colui che si prende cura di loro: le conosce per nome, una per una, le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le trova; egli ama talmente le sue pecore, da dare per loro la propria vita. È agli antipodi rispetto al mercenario: questo lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per avere un tornaconto. Al mercenario non interessano le pecore, ma ciò che può ricavare da esse. Le utilizza per se stesso.
È esattamente quello che succede troppo spesso nella vita. Invece di prodigarci per i fratelli, invece di aiutarli, noi li usiamo per noi stessi; approfittiamo di loro per controbilanciare le nostre carenze. Abbiamo esempi continui di gente che usa e abusa del prossimo: datori di lavoro, politici, amici, colleghi: “pastori” che dimostrano un certo interessamento nei confronti delle loro “pecore”, solo se esse la pensano come loro, solo se eseguono i loro ordini, solo se non creano problemi, solo se sono produttive. E poi? Il nulla. Non sono “buoni” pastori: non nutrono amore, sono dei tiranni, degli egocentrici, mossi soltanto dalla sete di crescita personale.
Noi tutti abbiamo bisogno di trovare dei pastori: persone che ci siano; persone che ci diano fiducia, sicurezza di essere sempre accolti, accettati, voluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se anche tutto andrà male tu ci sarai sempre, non mi abbandonerai, sarai sempre con me, nella buona e nella cattiva sorte”. Persone che ci rassicurano: “Tranquillo, non ti dirò sempre sì, ma per te ci sarò sempre”: in una parola, persone che traboccano di amore.
Questi sono i veri pastori; questi sono i pastori che a nostra volta noi dobbiamo imitare: perché prima o poi, in un modo o nell’altro, tutti siamo pastori. Tutti, indistintamente, abbiamo dei ruoli di guida, di gestione, di responsabilità. Come il prete guida i suoi fedeli, così il genitore guida i suoi figli, il dirigente, i suoi dipendenti; l’amico, un altro amico; il maestro, i suoi allievi. L’immagine del pastore evangelico, ci invita prima di tutto a porre attenzione alle nostre pecore personali. Sì, noi siamo i pastori di noi stessi: il recinto è la nostra vita e dentro ci sono le nostre pecore, ossia ciò che noi abbiamo dentro di noi, le nostre emozioni, le nostre paure, i nostri bisogni. Cosa vogliamo farne di queste pecore? Il buon pastore le ama, le conosce, le sente sue. Non importa cos’hanno queste pecore; sono sue e lui le ama, lui farebbe qualunque cosa per loro. Mai gli verrebbe in mente di non prendersene cura o di disinteressarsi di loro. Sono le sue pecore, sono le sue emozioni, le sue paure. E anche se ne ha novantanove nel suo recinto ma una non c’è, lui va da quella. È quella che ha bisogno di lui.
Essere dei “buoni pastori” in questo senso, vuol dire non essere duri con se stessi, aver pazienza quando sbagliamo, cercarci e ritrovarci quando ci perdiamo, saper aspettare quando qualcosa di noi zoppica, non va.
Tutto ciò che vive in noi ha bisogno di cura, di amore, di protezione, di dedizione; e non ogni tanto, ma ogni giorno. Il nostro crescere, il nostro diventare migliori, ha bisogno di molto tempo, di applicazione, di costanza. “Per quanto? Quanto tempo ci vorrà?” È la classica domanda che tutti, prima o poi, ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo: ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Già, perché noi vorremmo risolvere tutto velocemente. Il più in fretta possibile. Il che, praticamente, equivale a non affrontare per nulla il problema, o quantomeno cercare una soluzione, un rimedio, una risposta, che non ci coinvolga dentro più di tanto.
Poi, dobbiamo essere i buoni pastori del nostro prossimo. Dobbiamo cioè stare molto attenti a quelle pecore che appartengono al nostro gregge, che ci sono più vicine, a quelle, in pratica, che abbiamo davanti tutti i giorni, con le quali dobbiamo relazionarci più frequentemente: non dobbiamo umiliarle, non dobbiamo gestirle, non dobbiamo usarle, perché come pastori, come guide, come maestri, come genitori, come leader, dobbiamo averne il massimo rispetto, la massima cura: sono le “pecore” affidate a noi, sono le nostre compagne di percorso, sono il nostro capitale umano.
Allora, essere “buon pastore”, vuol dire in pratica non scaricare su di esse i nostri sbalzi d’umore. Quanti dipendenti vivono succubi degli sbalzi d’umore del loro capo! Quanti devono fare i conti con la luna giornaliera dei loro superiori! Questo non va assolutamente bene, perché genera ansia, insicurezza. Non permette di creare fiducia reciproca, nessun clima di serenità.
Essere “buon pastore” vuol dire credere nelle proprie pecore. Credere che in ogni persona c’è un fondamento buono. Significa avere e trasmettere stima. “Io credo in te perché sento che tu sei importante, perché ai miei occhi tu vali”. Se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo ascoltare per primi. Al contrario molti abusano della loro autorità: fanno pesare i loro ordini, considerano le persone degli oggetti, degli strumenti, una forza lavoro e basta. Li privano della loro dignità.
Credere nelle proprie pecore, conoscerle, vuol dire valorizzarle. Nessuna è uguale all’altra. Dirigere, guidare delle persone, significa stimolarle, incoraggiarle, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse, quello che hanno dentro, che possono dare, spronandole ad essere creative.
Essere “buon pastore” vuol dire soprattutto amare le proprie pecore. E amare vuol dire servire: mettersi cioè al servizio delle loro potenzialità, di ciò che esse sono, di ciò che possono fare, del loro bene. Servire infatti non significa conformare gli altri a noi stessi: ma chiederci: “Cosa è meglio per loro? Per la loro persona?”. Vuol dire mettersi in ascolto, mettersi a servizio del loro mondo, di ciò che essi desiderano, mettendo in secondo piano ciò che invece vorremmo noi.
Attenzione però: questa importante “apertura”, questa sensibilità, non va assolutizzata: non deve cioè “condizionare”, sempre e comunque, il pastore: non deve influenzare senza discernimento le sue valutazioni. Egli deve in ogni caso conservare sempre intatta la sua libertà: chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni eventuale richiesta velleitaria, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure, ai figli, ai dipendenti. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una pecora finita fuori strada, va fatto, senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono dei genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere una posizione ferma. Padre e madre finiscono per mettersi l’uno contro l’altra per assecondare i figli: in genere l’una passa per buona, l’altro per cattivo; una, la madre, disponibile a dire sempre di “sì”; l’altro, il padre, a dire sempre di “no”. Entrambi hanno paura di perdere l’amore dei figli: per questo ognuno difende la propria posizione, scendendo anche ad opposti compromessi con se stessi. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla vinta e di comportarsi come vuole. E diventerà ben presto un tiranno, un despota, un narcisista di se stesso; non avrà rispetto di niente e di nessuno, convinto di poter fare sempre ciò che vuole. È fondamentale capire invece che se il pastore non impara a dire “no” quando serve, dall’altra parte non ci sarà mai alcun apprezzamento per il suo “sì”.
Una volta illustrata e discussa la cosa, se obiettivamente non è fattibile, dobbiamo dire di “no”; dobbiamo essere inflessibili, anche se l’altro reagisce male, batte i piedi, minaccia ritorsioni.
Molti pastori hanno paura di dire un “no” deciso: hanno paura di offendere, di ferire, di oltraggiare gli altri. Soprattutto pensano che deludere le loro aspettative, i loro desiderata, equivalga ad averli in odio, ad essere crudeli con loro. Invece non è vero: il dispiacere, la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono decisamente positivi, costruttivi, obbligano a fare un passaggio altamente educativo, poiché fa capire che nella vita non tutto è permesso e lecito; che sulla nostra strada ci sono dei limiti, dei paletti da rispettare; che la convivenza, la morale, la coscienza, impongono delle restrizioni che ci precludono la possibilità di fare tutto ciò che vogliamo.
Di contro però, i pastori non devono neppure “maramaldeggiare”: non possono cioè infierire sui loro sottomessi, per principio, per partito preso, opponendo sistematicamente, sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è sbagliato, ancorché fossero pienamente nel giusto; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché pur trovandosi nella verità, colui che comanda senza l’amore, senza la carità, non è nessuno e non approda a nulla.
Il buon pastore sta sempre davanti: in greco hegeomai, significa, appunto precedere, condurre, guidare. Chi guida, pertanto, deve precedere gli altri: deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi i percorsi più agevoli e sicuri.
Le regole che valgono per le pecore, per i sottomessi, per i figli, valgono anche per i pastori, per le guide, per i genitori. Le regole che valgono per i dipendenti, valgono anche per i capi. Se vogliamo che gli altri ci ascoltino, dobbiamo noi per primi ascoltare gli altri. Se desideriamo che ci parlino apertamente dei loro problemi, della loro giornata, noi per primi dobbiamo aprirci, parlare della nostra. Se vogliamo che le regole del convivere siano rispettate da tutti, noi per primi dobbiamo rispettarle. Chi pretende dagli altri quelle cose che lui stesso non fa, perde ogni autorevolezza, si scredita irrimediabilmente di fronte a tutti.
Star davanti alle pecore significa quindi esporsi per difenderle, non tirarsi mai indietro se qualcuna si trova in pericolo, viene irretita, o discriminata; significa difenderla, proteggerla ad ogni costo. Scappare davanti al pericolo, non curarsi del suo benessere, è il comportamento dei mercenari, non del buon pastore. E noi tutti siamo chiamati ad essere dei “buoni pastori”, sull'esempio di Gesù. Amen.


 

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