Pasqua è il centro focale della nostra fede cattolico-cristiana: Cristo è risorto dai morti.
In genere però le persone non capiscono molto questa festa. Il Natale è più semplice: un bambino che nasce lo capiscono tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama di più.
La Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia: la crocifissione e la morte di Gesù, e dopo tre giorni la sua vittoria sulla morte. Per quanto esaltante, ci lascia abbastanza freddi e indifferenti.
Ma vediamo prima di tutto cosa significa la parola resurrezione: è una parola che deriva dal latino “resurrectio” i cui componenti concorrono a darci un significato completo: “dirigersi di nuovo da sotto verso fuori”, ossia “andare in senso contrario, da dentro a fuori, dal buio alla luce”. Resurrezione, significa allora, che mentre si andava in un senso, improvvisamente dal di dentro succede qualcosa che ci fa andare in direzione opposta. È un cambiamento di senso, di direzione (dalla morte alla vita) che avviene dentro (sub). Vuol dire che fuori le cose possono anche rimanere uguali a prima (infatti Gesù non è più ritornato in vita), ma dentro tutto è diverso (prima era morto e poi non più), i suoi lo sentono vivo, in maniera forte e chiara.
Storicamente, cos’è successo? Quando Gesù venne arrestato, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in Galilea, alle loro case. Solo alcune discepole (le donne!) trovarono il coraggio di assisterlo da lontano.
I discepoli vissero un fallimento totale: si sentirono finiti, morti dentro e presi in giro da tutti coloro che li avevano messi in guardia da Gesù: “Come fate a fidarvi di un pazzo? Di un eretico? Di un senza-Dio ?”. E messi di fronte a ciò che era successo, essi convennero: “Avevano proprio ragione!”.
Ma poi successe il vero miracolo della resurrezione: quel Gesù che credevano morto, finito per davvero, davvero sepolto; quella loro esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquistò tutta la sua attualità: essi cominciarono a sentire dentro di loro proprio quello stesso Gesù, morto sulla croce: e lo sentivano vivo, potente, presente nuovamente nella loro vita in maniera inequivocabile, indiscutibile. Era così presente che “lo videro” chiaramente: non c’era nessuna possibilità di errore. I discepoli che il venerdì santo erano disperati ed erano tutti fuggiti via in preda alla paura e al terrore più totale, alcune settimane dopo, a Pentecoste, erano pronti ad annunciare Gesù risorto, vivo, Signore del mondo. Per lui andavano in prigione, per lui venivano derisi, umiliati, percossi, ma nulla li fermava più. Per lui potevano anche morire e molti di loro furono davvero giustiziati: ma nulla poteva fermarli. C’era in loro un fuoco che non si spegneva mai.
Tutto questo è successo e ne siamo certi: non si può spiegare come quei discepoli abbiamo potuto cambiare in maniera così radicale, profonda, decisiva, fedele, in così breve tempo, se non con l’irruzione in loro di una forza divina. O erano tutti impazziti o ciò che dicevano era vero: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi e con noi”.
Possiamo pertanto convenire che la resurrezione è stata una esperienza inaspettata e incredibile, fatta personalmente dagli apostoli. La cosa viene ben descritta nel vangelo.
Pietro
e Giovanni, la mattina di quella domenica, si fanno una bella corsa. Giovanni
descrive con scrupolosità come sono andate le cose: egli, più giovane, arriva per
primo ma non entra; è Pietro, giunto subito dopo di lui, che entra per primo. Nonostante
ciò Pietro non vede: chi vede è Giovanni. È chiaro che qui “vedere” equivale a “credere”. Pietro, infatti, nel vangelo è colui che vuol capire con
la testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”,
è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Sia la mente che il cuore crederanno: ma la mente cerca di controllare il sentimento,
cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un’onda d’urto travolgente. La
mente ci serve per capire, per spiegare, per interpretare. Ma l’organo della
vita è il cuore: l’anima, l’amore, la vitalità, lo stupore, la fede, la
conoscenza di Dio, si percepiscono, si “sentono”, si sperimentano: poi la mente
spiega cos’è successo.
Di
fronte ad un dolce la mente cerca di individuarne i componenti, per capire se è
più o meno buono: il cuore al contrario lo assaggia, lo gusta e ne sente subito
la bontà. Siamo Pietro, la mente, la durezza, quando non vogliamo fare spazio alla vita che c’è in noi: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché quello che vediamo non ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, l’interiorità, il sentimento profondo, quando non solo vediamo, ma anche “capiamo” immediatamente.
Quando parliamo con una persona cara, guardiamola negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto cosa ci dice, ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua meraviglia, il suo amore. Quando la abbracciamo, “sentiamola”, chiudiamo gli occhi e riconosciamola dalla fragranza della sua pelle, dal profumo del suo corpo. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte ogni pensiero e ascoltiamo il battito del nostro cuore: allora potremo percepire forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi.
Ogni tanto fermiamoci e ascoltiamoci. All’inizio magari usciranno da dentro di noi demoni e mostri. Ma se avremo pazienza, con calma, nel silenzio, nel tempo, scopriremo dentro di noi una presenza soprannaturale, sorgente inesauribile di vita e di luce.
Resurrezione è poter cogliere l’invisibile nel visibile. Ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che varcano la soglia della materia, riuscendo a cogliere la vera realtà delle cose. Con la resurrezione di Gesù, noi affermiamo: Dio è qui. Dobbiamo solo cercarlo, dobbiamo solo scoprirlo, dobbiamo solo conoscerlo.
Il
testo del vangelo ci dice che Maria di Magdala si recò di buon mattino quand’era ancora
buio. Sono due momenti temporali completamente diversi: “di buon mattino” vuol dire luce, giorno;
“quand’era ancora buio” vuol dire
buio, notte. Apparentemente sono una contraddizione. In realtà esprimono i due
aspetti di un unico evento: nel cuore di quella donna e dei discepoli, tutto
era finito, e per questo era davvero buio, anzi di più, era notte. Ma stava per
accadere qualcosa di unico: stava venendo fuori la luce, la Vita, la vitalità.
Ogni
volta che diciamo: “È tutto finito”, dobbiamo sapere che, in qualche modo, sta
nascendo qualcosa. Un qualcosa che ci pone su un altro livello, che ci chiede
di fare un salto dinamico, un salto di crescita, un salto evolutivo. Questa
cosa si chiama fede. Avere fede significa poterci fidare, perché in tutto ciò
che ci succede, c’è sempre Dio che tenta di plasmarci, di forgiarci, di
purificarci. Tutto ciò che ci succede è bene per noi: certo, a volte è
doloroso, duro, per niente piacevole, ma è necessario, perché tenta di farci
andare nella giusta direzione.Se rimaniamo a livello di storia, come è successo per gli apostoli, diciamo: “Che disastro! È tutto finito! Gesù è morto”. Ma se compiamo il “salto” di fede, diciamo: “Tutto ha un senso! Ora capisco, Dio sia lodato per tutto ciò che fa!”. Da un punto di visto storico, una crisi è sempre buio pesto, è sempre difficile, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è profondamente destabilizzante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici, è davvero deludente. Ma da un altro punto di vista, se facciamo il salto di qualità, di fede, di evoluzione, allora tutto è resurrezione, è vita. Ogni fatto grave, per quanto grave sia, per quanto ci costringa nel buio più totale, se riusciamo a fare il nostro salto, diventa “luce”, diventa vita, diventa resurrezione.
Tutto ciò che ci succede sarà sempre buio, notte, morte, se rimaniamo allo stadio iniziale, senza fare alcun salto. Tutto ciò che ci succede sarà prezioso, grazia, benedizione, gratitudine, se compiamo quel salto. Un salto che nessuno può fare al nostro posto; solo noi possiamo farlo.
Molti sono perennemente infuriati, rabbiosi, perché nel mondo succedono le peggiori cose; perché attorno a loro tutto va storto: la moglie, il marito, ha fatto una cosa; il collega, l’amico, ne ha fatta un’altra; il figlio non si comporta come deve; insomma il mondo intero gira nella direzione sbagliata. Ma vivere così non serve. È necessario fare un salto di resurrezione, un salto che ci trasferisce dalla materia allo spirito. E dobbiamo farlo personalmente.
Ma in che cosa consiste questo “nostro” salto interiore, evolutivo, che dobbiamo fare? Prima di tutto non dobbiamo accusare il mondo, gli altri: il mondo in se stesso non ha nulla di male, gli altri sono comunque figli dello stesso Padre; sono soltanto diversi da noi, non sono noi: seguono vie diverse, hanno tempi di crescita diversi: forse noi siamo chiamati a lavorare fin dalla prima ora, loro magari all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci davanti allo stesso Signore della vigna. Le accuse non servono, ci pongono in un ruolo che non è il nostro. Dobbiamo invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta luce. Perché se leggiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, allora ci accorgiamo che tutto acquista la sua autenticità, tutto ha un senso, il suo lato buono; il male assoluto, nella sua ineluttabilità, si trasforma all’istante in un bene concreto, possibile: tutto diventa recuperabile, riscattabile; tutto diventa positivo; magari non riusciamo subito a capire come, ma sicuramente tutto acquista una nuova prospettiva. È vero: dobbiamo vivere tutti i nostri giorni da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative sempre nuove; ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Noi dobbiamo imparare a guardare oltre il mondo; dobbiamo imparare a guardare il “nostro” mondo, perché è su questo che dobbiamo lavorare, è questo che dobbiamo cambiare. Prima o poi verrà un giorno in cui la morte si presenterà alla nostra porta, e ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro: è il normale ciclo della vita: inutile abbandonarci alla disperazione. Inutile opporsi: “No, non voglio. Ho ancora tanto da fare qui. Ora non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi: non abbiamo appigli o avvocati a sui appellarci. Allora capiremo che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo avuto soltanto in “concessione” “in uso”; niente e nessuno ci appartiene, niente e nessuno può intervenire per noi: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli. Soltanto se siamo abituati a guardare con gli occhi della fede, potremo sentirci sorretti dall’Amore: grazie a quella minuscola scintilla d’amore che abbiamo riservato ai fratelli, potremo avviarci con fiducia, con gioia, verso la Luce, cantando: “Si torna a casa! Si va verso la Vita! Eccomi!”. Amen.
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