«Rendete dunque a Cesare quello
che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,15-21).
È
chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra
nelle simpatie di Gesù. I personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani
del popolo, se ne approfittano per compiere liberamente i loro loschi affari.
Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, indicata come meno
degna dei pubblicani e delle prostitute, lo ritiene ormai come il suo più
acerrimo nemico da combattere: Gesù è un uomo pericoloso, uno che deve essere
fermato ad ogni costo, poiché non solo non rispetta le istituzioni religiose, ma
addirittura le scredita apertamente! Pertanto i farisei si riuniscono per
decidere il da farsi: “tennero consiglio
per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta.
Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i
farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da
sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti si abbassano a
chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune, e “chiunque odia il
mio nemico, diventa mio amico”!
Essi
dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a
tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, volutamente adulatorio,
un incensamento ostentato: “Maestro,
sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai
soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si
scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Perché mi tentate?”. Li paragona apertamente
a satana, il tentatore: usa infatti le stesse parole che ritroviamo nel
racconto delle tentazioni. Finiti i convenevoli, scoprono immediatamente le
loro carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto
spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare
il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora,
ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque
risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; infatti, dicendo “sì”, si dichiara
favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore”
del popolo, incorre nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli
ebrei devono riconoscere e servire (Dt
6,4-13); se invece dice “no” al pagamento delle tasse, si mette automaticamente
contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e
sicura.
Gesù dunque
è incastrato. Se accetta di esprimere un suo parere, ogni risposta è perdente. Deve
necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente: ignora la provocazione
e sposta i termini del discorso su un altro piano, facendo a sua volta una richiesta:
se essi accettano, egli esprimerà il suo pensiero su quanto gli era stato
chiesto: “Mostratemi la moneta del
tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in
argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava
la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove
arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore.
Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa
immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete
a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa vuol
dire? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare
devono essere restituite al loro padrone. Ma la risposta non si esaurisce qui: “Rendete
a Dio quello che è di Dio”. I doveri sono due: uno nei confronti del potere
politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. In sostanza
Gesù non perde l’occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In pratica,
piuttosto risentito, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col
popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del
tempio, dovete restituire a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che
Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla
vostra guida. Voi però cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore
con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo a voi
predicando un Dio, che non è il vero Dio. Subordinate Dio alle vostre teorie,
al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è
un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è di ricondurlo
a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande
attualità.
Il
racconto ci offre pertanto due spunti di meditazione distinti, costituiti dalla
domanda e dalla risposta di Gesù. Scendiamo più nel particolare.
Primo
spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine richiama la persona,
esprime ciò che gli appartiene: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene
da lui e gli appartiene. Ma a noi deve interessare soprattutto un’altra immagine:
nella Bibbia infatti sta scritto che l’uomo è stato creato a “immagine e
somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi
apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà. Dimenticare, perdere, trascurare questa
nostra autentica e indelebile appartenenza a Dio Vita, significa vivere una non
vita, significa cadere in un dramma incalcolabile. Infatti, qualunque nostro
attaccamento, qualunque legame ad altre realtà che non siano Dio, a persone, a
cose, al mondo intero, svilisce, deturpa la nostra somiglianza divina, ci rende
schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremo mai completamente liberi,
tremendamente liberi, come prima. Dobbiamo pensare più spesso alla nostra
somiglianza con Dio. Ci capita mai guardando il cielo stellato, di ammirare la
meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo,
di sentirci quasi in comunione con tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia
di casa, la nostalgia di cose grandi, immense? O siamo morti dentro? Ci capita
mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli
occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una
inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente
il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, chi è la nostra vera madre
(la Vita) e chi è il nostre vero padre (l’Altissimo).
Non
dimentichiamo mai chi siamo veramente: la più grande tragedia che ci possa
capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e
dimenticarci la maschera addosso quando abbiamo finito e usciamo di scena. È
importante ripeterci continuamente, nel nostro cuore, nella nostra anima: “Io
sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, e un giorno tornerò a
Lui!”
Secondo
spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a
Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa
risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato,
quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo
essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo
i nostri dipendenti, se noi accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se
creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai
divorziati: di contro, nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia si è
mai posto il problema per quelli che “si sono mangiati” i risparmi di una vita
di onesti lavoratori, per quelli che fanno fallire le aziende per interessi
personali, per quelli che colludono con la mafia a beneficio della propria
ascesa al potere, per quelli che si portano a casa milioni di euro in tangenti
alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e
tranquillamente può accostarsi alla comunione.
Ma la
risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità
più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo cioè restituire alle
persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene
loro: valore, importanza, dignità. Tutto e tutti hanno le loro qualità: sta a
noi riconoscerle, apprezzarle, restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò
che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Tra i doni che Dio ci ha
concesso in uso, ai quali dobbiamo riconoscere massimo rispetto e cura, ce n’è
uno che è il più prezioso in assoluto: la nostra vita! Più gli scienziati
studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la
cosa più grande di questo mondo: il poter dire: “Sono vivo”.
Purtroppo
per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano,
non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione,
e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi dobbiamo
riconoscere e onorare questo dono gratuito che è la vita: la vita non ci è “dovuta”,
è un dono; e verrà un giorno in cui dovremo riconsegnare nelle sue mani questo
dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare
al tempo perso. Quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola
dunque seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: disponiamo
di questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione,
per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci
condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità,
da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti:
chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire
l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo;
voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi,
correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e
abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore
della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per
un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha
un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo
a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo,
saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la
vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si
sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La
gente impreca e si lamenta quando le cose finiscono; ma non sa ringraziare e
viverle quando ci sono. Non capisce che all’amore si risponde con l’amore: per
amore riceviamo, per amore dobbiamo restituire. Amen.
«Perché molti sono chiamati, ma
pochi eletti» (Mt 22,1-14).
Per
capire bene cosa vuol dirci il testo evangelico di oggi, dobbiamo tener
presente che in genere ogni evangelista, nel descrivere vita e insegnamenti di
Gesù, insiste soprattutto in quei particolari “teologici” che egli ritiene più significativi
per la propria comunità: ogni comunità, ogni ambiente, viveva infatti il
messaggio cristiano in situazioni e con necessità molto diverse tra loro. Questo
discorso vale in maniera particolare, per la pagina di Matteo che la liturgia
ci propone in questa domenica. La parabola di oggi infatti è una potente allegoria.
C’è all’origine un messaggio di Gesù, che Matteo elabora, per trasmettere alla
sua comunità un segnale particolarmente chiaro e importante. È la stessa
parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24),
come pure nel vangelo apocrifo di Tommaso, ma decisamente con toni molto diversi,
meno accesi e categorici: l’uomo di Luca, per esempio, in Matteo diventa un re
(la figura del re richiama il giudizio finale alla fine dei tempi); la grande
cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re
(il Figlio, per Matteo, è Gesù e la grande cena diventa il giudizio per tutti
quelli che hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per
invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte
Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano). In Luca gli invitati si
giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi
del re. A questo punto ci si chiede: perché sottolineare tanta intransigenza?
Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze,
ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, visto che
i primi invitati rifiutano, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad
altri; ma in Matteo c’è un’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a
cena (già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere quegli
assassini e per bruciare la loro città. E ripeto: che senso ha compiere tutto
questo immediatamente, prima di cena? Ovviamente nessuno: ma Matteo lo fa, perché
vuole riferirsi proprio alla storia di Israele, vuole identificare nei
messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: loro erano stati mandati da Dio e
hanno fatto esattamente quella fine. La punizione doveva essere immediata,
prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La
città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare
per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel
70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto
da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto
questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro
chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il
pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete
accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del
Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di
Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora
Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne, eretici, senza-Dio, e
loro lo hanno accolto.
Non è
difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i
cristiani di oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche
noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima giustificazione
per rifiutare il messaggio di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo
stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso!; prego già tanto
per conto mio!”. Ma la vera domanda da porci è: “Lo vogliamo o non vogliamo
questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente ad
un “non ne ho voglia”.
Il
vangelo ci spiega quanto Dio fa per noi. Egli vuole amarci, perdonarci, starci
accanto, essere la nostra forza, non farci sentire soli, darci sostegno; in una
parola, farci felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a
dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli, prendili!” e noi che facciamo? li rifiutiamo!
Ma perché? Perché siamo orgogliosi, perché pensiamo che sia tutto un inganno
(Dio, preti, chiesa ecc.) un falso; e noi non crediamo, non ci fidiamo!
Eppure,
quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla apertamente come di un padre
misericordioso, dal cuore enorme, e ci riempie di esempi: è come un padre, che se
anche suo figlio gli sbatte la porta in faccia, e passa i giorni dissipando la
sua vita, tutti i suoi beni, lui comunque rispetta la sua libertà, attende fiducioso
e trepidante il suo ritorno, perché lo ama in maniera struggente.
Ma noi
non lo vogliamo capire: non vogliamo che Dio ci ami, che sia misericordioso con
noi. Preferiamo quasi che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca,
che ci tiri pure delle sberle, ma che se ne stia per conto suo; non vogliamo
ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, comporterebbe una
rivoluzione totale della nostra vita. Vogliamo essere “liberi”, indipendenti, salvo
poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a
pretendere da lui un sollecito aiuto, quasi ricattandolo, appellandoci al suo
immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente
amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché rifiutarlo? Perché siamo
orgogliosi; perché non crediamo alla gratuità del suo amore; perché temiamo
ritorsioni; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non
possa essere autentico; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti,
di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato.
Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si
conquista: soltanto eseguendo per bene la volontà di papà e mamma, infatti, il
bambino si sente amato. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare
il papà!; non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed
emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che sei amato
solo se fai quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza:
per guadagnarselo occorre faticare, rinunciare ai propri desideri, ai propri
progetti di vita. Il bambino poi, ormai adulto, è convinto che questo principio
valga anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto
i meritevoli, quelli che soffrono, faticano, si impegnano, si sacrificano per
lui. Troppo difficile! E quando sente le parole del vangelo: “Dio ama
gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crede: “Non è vero;
sono certo del contrario; so per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco,
vedi come sono diventato bravo, come sono praticante, come sono perfetto? Ora puoi
amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha
un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare
allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli
insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono totale in Lui, lasciare
che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i
nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo
di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo terribile, un nemico,
un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per
anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si
è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha
amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la
nostra salvezza. E se vuole qualche minima cosa da noi, la vuole esclusivamente
per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue,
intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Abbiamo
poi sentito che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina
ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti
alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni”. Lo fa per amore: vuole
tutti con sé, li ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora
come mai, quando questo re entra e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una
reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi quel malcapitato e ordina che venga
buttato fuori dalla sala del banchetto, nelle tenebre e nel dolore. Ma non
aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo
attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa
scena negli ultimi tempi, nell’eskaton,
Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente essere “chiesa”, appartenere
ad una comunità di credenti, trovarsi tra i “chiamati”: ciò non offre alcuna
garanzia o diritto di rimanere nel “regno”; l’unica condizione è che tutti devono
indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla equivale ad aver risposto
alla chiamata di Dio solo formalmente, perché così fanno tutti, per interesse, per
moda, senza alcun personale riscontro al grande dono d’amore fatto del re: significa
avere un cuore arido; significa aver alimentato l’odio, avere l’anima completamente
inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver
indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
L’uomo
“indegno” del vangelo è purtroppo in buona compagnia: quanti di noi infatti si
professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato l’invito,
ma non si preoccupano di indossare la veste nuziale della coerenza e del
servizio! Facciamo bene attenzione, perché un giorno, alla chiamata finale, concluso
il “nostro tirocinio”, quando il re ci passerà in rassegna, ogni recriminazione
sarà tardiva, fuori tempo massimo: e capiremo da soli quanto siamo stati
stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i tantissimi inviti di Gesù,
i tantissimi suoi paterni suggerimenti. Ciò che ci capiterà allora non sarà per
caso, non sarà per colpa del “giusto giudice”, ma avremo la logica conseguenza
del nostro comportamento. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati,
ma non è servito a nulla. Noi, e solo noi, abbiamo voluto così. Ognuno ottiene ciò
che meritano le sue scelte. Non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà
fuori dal “regno eterno”: siamo noi che, vivendo rifiutando il vangelo (l’abito
nuziale), ci siamo già fin d’ora buttati fuori da Dio. Non per niente Matteo molto
amaramente conclude: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Amen.
«C’era un uomo che possedeva un
terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per
il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne
andò lontano».
C’è dunque un
padrone che decide di investire i suoi capitali in maniera proficua anche per
gli abitanti del luogo: “pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava
il frantoio, vi costruisce la torre” e poi l’affida ai vignaioli, a quelli cioè
che l’avrebbero coltivata. La cura che il padrone mette nel costruire le
infrastrutture ci dimostra quanto egli amasse questo suo terreno, questa sua
vigna. Arrivato il tempo della maturazione, egli manda ovviamente “i suoi servi
dai contadini a ritirare il raccolto”. E fin qui tutto è nella normalità, tutto
secondo le regole e usanze dell’epoca.
Ma poi
succede l’imprevisto. Cosa fanno i vignaioli? Hanno una reazione furiosa,
furibonda, esplosiva: prendono i servi e “uno lo bastonano, uno lo uccidono,
uno lo lapidano”. Come mai tanta violenza? che colpa ne hanno questi “colleghi”
anch’essi servi dello stesso padrone? Erano semplicemente degli incaricati, dei
rappresentanti, dei messaggeri. Ma è proprio l’essere gli “inviati”, le persone
che in quel momento rappresentano il padrone, che fa scattare l’ira nei
vignaioli, con un continuo crescendo di violenza, cha va dalle bastonate alla
morte.
Ciò che
risalta immediatamente in questo susseguirsi di eventi è il comportamento
illogico, paradossale, sia dei contadini che del padrone. È assurda la reazione
dei vignaioli, perché avrebbero dovuto pensare alla inevitabile replica repressiva
del padrone. Ma è assurdo anche il comportamento del padrone che continua
impassibile, nonostante la violenza subita dai suoi rappresentanti, ad inviarne
continuamente di nuovi, non risparmiando, alla fine, nemmeno il suo stesso
figlio. È chiaro comunque che se il comportamento finale del padrone è dettato
dalla logica dell’amore: “Avranno rispetto di mio figlio!”, il comportamento
dei vignaioli è dettato ancor più dall’ostilità e dall’odio: “Uccidiamolo e
avremo noi l’eredità”. Un ragionamento da stupidi, perché non hanno tenuto in
alcun conto l’immediata e altrettanto violenta rappresaglia del padre, una
volta messo di fronte all’uccisione del figlio.
A
questo punto Gesù, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo presenti, pone
una domanda a risposta scontata: “Secondo voi, che cosa farà il padrone della
vigna a quei vignaioli”. E loro danno l’unica risposta ovvia: “li farà morire
miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini”, sottoscrivendo così
la loro condanna.
Sì,
perché è chiaro che il contenuto della parabola riguarda proprio loro, è
diretto a Israele e ai suoi capi. A noi i particolari non dicono molto, ma
tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’oracolo di Isaia (Is 5,1-7) che dice inequivocabilmente: “La
vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda,
la sua piantagione preferita”. Israele era infatti l’orgoglio, il popolo
preferito, la vigna di Dio. E loro erano fieri di esserlo! Per cui chi doveva
capire, ha capito perfettamente: “I sommi sacerdoti e i farisei capirono che
parlava di loro” (Mt 21,43). E lo
capirono molto bene anche perché il testo della parabola affronta gli stessi
temi, usando le stesse parole, anticipati da Isaia: “siepe, frantoio, torre”.
La vigna è Israele; il padrone è Dio; i vignaioli sono i capi religiosi; i servi,
i profeti. Tutto è chiaro.
Dio (il
padrone) ha amato il suo popolo (la vigna) ma questo hai rinnegato il suo amore
e i suoi messaggi d’amore (i profeti): Isaia, Geremia, Ezechiele, e tutti i
profeti, non sono stati ascoltati. Erano dei messaggeri che richiamavano
Israele a convertirsi, a ritornare sulla retta strada, ma non furono ascoltati.
Anzi, spesso furono veramente uccisi o lapidati.
E il
figlio? Il figlio, è evidente, è Gesù. Dio manda ciò che ha di più caro, di più
prezioso: suo figlio. Come a dire: “Più di così, cosa posso fare per voi? Cosa
posso dirvi di più perché possiate cambiare?”. Più di così Dio non può niente:
Dio le tenta tutte, ma tutto è inutile, quando uno non vuol capire. E sono loro
stessi ad autocondannarsi: il padrone “farà morire miseramente quei malvagi e
darà ad altri la vigna”. E sarà proprio così: sarà loro tolto il regno di Dio e
sarà dato ad altri (ai pagani, alla Chiesa) e la pietra (Gesù) che voi avete
scartato, ucciso fuori da Gerusalemme (“fuori dalla vigna”) sarà invece la
pietra d’angolo, la pietra su cui poggerà l’intera nuova costruzione.
In
pratica cosa ci dice questo vangelo? Che ciò che “non serve”, ciò che ha perso
la sua autenticità, la sua “caratura” originale, viene inesorabilmente “scartato”,
accantonato, superato. Il popolo d’Israele non è stato fedele a Dio ed è stato “sostituito”
dal cristianesimo. Oggi però anche la Chiesa di Cristo sta attraversando un
momento difficile, sta gradualmente scomparendo dalle nostre nazioni, dalle
nostre città come pure da gran parte del mondo. Possiamo certo attribuire la
colpa a fattori esterni (consumismo, individualismo, relativismo, demoralizzazione,
ecc.) ma questo non ci giustifica: il vero motivo va invece ricercato al suo
interno, nella perdita dei valori cristiani da parte dei cattolici. La storia
ci insegna che quando Cristo e il suo Vangelo non è più vitale, significativo, fondamentale
per una comunità, questa è destinata nel tempo a scomparire dalla scena
religiosa, sociale, culturale. È stato così per Israele, è stato così per molte
comunità cristiane dei primi secoli; e sarà così anche per molte comunità
cristiane della nostra Europa, che di Cristo hanno conservato solo la radice nel
nome.
A
questo punto cosa dobbiamo fare? Il padrone fa sempre bene la sua parte:
pianta, circonda, scava, costruisce, affida: è la cura, l’interessamento, l’amore
di Dio. Gesù ce lo dice chiaramente: “Vi ho guariti, vi ho fatto resuscitare, vi
ho sfamati, perdonati, illuminati; vi ho provato quanto perdutamente vi amo;
cos’altro dovevo fare?”. E noi? Praticamente continuiamo a comportarci come i
vignaioli: “Abbiamo visto i tuoi miracoli, ma i nostri occhi non ti hanno
riconosciuto; abbiamo visto la tua vita ma la nostra vita non è cambiata, né si
è convertita; abbiamo sentito le tue parole ma il nostro cuore non si è
lasciato contagiare; abbiamo sperimentato le tue guarigioni, ma la nostra mente
si è chiusa in discussioni teologiche per ucciderti ed eliminarti finché eri
sulla terra, perché ci facevi troppa paura. Cos’altro dovevi fare, Gesù? Cos’altro
dovevi dimostrare? È chiaro che il problema non sei tu, ma siamo noi, è il
nostro cuore!
Noi
non vediamo le migliaia di gesti d’amore che le persone ci fanno in tuo nome; non
vediamo la bontà che c’è attorno a noi; non apprezziamo chi ci aiuta e ci
sostiene; non vediamo la bellezza che ci circonda e che ci illumina ogni
mattina quando apriamo gli occhi; non vediamo la vita e l’amore che pulsa
attorno a noi e che potrebbe stupire e rallegrare la nostra vita: ma continuiamo a recriminare, a prendercela
con te, lamentandoci per quello che ci manca e che non abbiamo.
Ascoltiamo
umilmente i messaggi che ci arrivano dalla vita. Noi infatti possiamo leggere
questo vangelo anche in chiave personale: la vigna è la vita, è l’esistenza: ed
è una vigna bellissima, meravigliosa! Il padrone, Dio, molto generosamente, ce
l’ha concessa gratuitamente in gestione; ci ha detto: “Attento che la vigna, la
vita, non è tua. Non essere così stupido da pensare il contrario. È solo un
dono. Lavoraci, usala bene, falla fruttificare, e soprattutto godi dei suoi
frutti. Ma ricorda: non è tua, è mia”. E poiché di tanto in tanto si accorge
che sbandiamo, che “usciamo” di strada, dal seminato, ci manda un preciso messaggio:
“Attento, così non va! Se vivi così, muori dentro, rovini le relazioni, lasci
morire il tuo cuore, la tua anima, ecc.”. E noi che facciamo? Ce ne infischiamo
allegramente dei suoi messaggi e continuiamo a vivere come prima.
Ma Dio
non desiste: ci manda un altro messaggio, un altro ancora, e poi tanti altri:
gli sta troppo a cuore che la “nostra” vigna sia rigogliosa, non vuole perderla;
ma noi ce la ridiamo, ci disinteressiamo, spensieratamente. Fino a quando, ci
dice il Vangelo, arriva il momento in cui è troppo tardi: i “vignaioli” si sono
talmente rinchiusi nelle loro idee, nella loro presunzione, nella loro
cattiveria, da diventare insensibili a tutto; a questo punto nessuno può fare
più niente per loro, neppure lo stesso suo Figlio, Gesù.
Quando
leggiamo questa parabola ci viene senz’altro spontaneo esclamare: “Ma come
hanno fatto quegli idioti a non capire? Come potevano pensare di farla franca,
evitando qualunque reazione?”. Ebbene: quei vignaioli che si comportano così
apertamente da stolti, da insensati, da sprovveduti, siamo proprio noi.
Dio con
noi è sempre buono: ci manda dei messaggi (angelo,
in greco significa messaggio), ci
manda cioè degli angeli, dei
consiglieri, delle guide, dei santi, che ci indicano la via, la condotta da
seguire. Dio non ci costringe, non ci forza, non ci toglie la libertà. Ci
invita, ma mai ci obbliga. I messaggi di Dio sono come una chiamata al telefono:
squilla, ma per sapere cosa vuol dirci chi chiama, dobbiamo alzare il
ricevitore! Altrimenti suona a vuoto, per nulla!
La vita
è piena di messaggi... dobbiamo semplicemente alzare il ricevitore! Certo non c’è
un manuale di decodifica: ogni messaggio è unico, ognuno lo sente in base al
suo vissuto. Ma Dio, la Vita, ci parla sempre: ci “in-vita” ogni giorno
all’amore, ci istruisce con dei piccoli-grandi annunci. Perciò qualunque cosa ci
accada, dobbiamo sempre chiederci: “Cosa mi vuol dire Dio questa volta? Cosa
devo ancora imparare?”. In questo modo ogni giornata che passa, diventa per noi
una lezione di vita; e finché vivremo, continueremo a formarci, a imparare.
Non c’è
maestro più grande della Vita per chi l’ascolta: è solo “vivendo la Vita” che
impareremo a vivere. Ma per chi non ascolta, per chi non accetta questa scuola,
l’esistenza diventa un peregrinare stupido, insignificante, senza senso e a
volte estremamente doloroso. Più che un amico, la vita è un nemico da cui
difendersi.
Dobbiamo
capire dunque che Dio è sempre presente in ogni momento della vita. Niente
succede all’infuori di Lui, a sua insaputa. Lui c’è sempre in ogni fatto che ci
riguarda, in ogni evento, in ogni malattia, in ogni situazione. Tutto ci parla
di Lui: pertanto, ciò che conta, è rimanere costantemente aperti, attenti,
vigili; e se qualcosa non la capiamo subito, non accantoniamola, non dimentichiamola,
non buttiamola, ma teniamola lì, in evidenza. A suo modo e a suo tempo anche
quel qualcosa ci parlerà. L’importante, ripeto, è assicurare sempre ai nostri angeli la giusta e dovuta attenzione.
C’è una
storiella che rende bene l’idea: durante una grande inondazione, l’acqua aveva
raggiunto il primo piano di una casa: il proprietario si rifugiò sul tetto. Arrivò
la protezione civile su di una barca per portarlo in salvo. Ma l’uomo disse: “Dio
mi ha detto: in ogni situazione io ti salverò”. E non ci fu verso di farlo scendere.
L’acqua arrivò al tetto e di nuovo la protezione civile venne per prenderlo. “Dio
mi salverà”, gridò ancora. L’acqua gli arrivò al collo. Venne nuovamente la
barca di salvataggio, ma lui fu irremovibile. La conclusione? Morì affogato.
Quando si presentò davanti a Dio, l’uomo indispettito si lamentò a gran voce con
Lui: “Ma come! Tu mi avevi detto di non preoccuparmi! Che qualunque cosa mi
fosse capitata tu mi avresti salvato: invece eccomi qui!”. E Dio gli rispose: “Amico,
io l’ho fatto: ti ho mandato ben tre barche per salvarti!!!”. Chiaro? Non diamo
la colpa a Dio della nostra ottusità! Amen.
«In verità vi dico: I
pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi
Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le
prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste
cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).
La
tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei,
anziani, sommi sacerdoti) è già altissima. Gesù, scagliandosi contro la loro
stupidità e ipocrisia, dirà cose tremende, inaccettabili per gente che faceva
parte del sinedrio, che si considerava pura, di buon esempio, pia, religiosa, intoccabile.
Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non
va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare
correttamente. È in tale contesto che si situa la parabola di oggi.
Un
racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c'è un padre con
due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va' a lavorare nella vigna”.
Il primo dice: “Sì” ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: gli dice subito di sì (mai
contraddire il padre, era la regola da seguire); ma poi, come se nulla fosse, fa
di testa sua.
Il
secondo invece, con stizza, maleducatamente, gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci,
si pente e obbedisce. Matteo usa qui il verbo metamélomai che vuol dire appunto pentirsi, cambiare idea. La sua prima reazione è: “No!”, ma poi cambia
idea e ci va.
È
chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, attenendosi
alle buone maniere per paura di deludere il padre, non è coerente con ciò che pensa
realmente in cuor suo - il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore - il
secondo invece non gli interessa di deludere il padre, è coerente con se
stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli nasce dentro: “nossignore!”;
ma subito dopo la sua coerenza gli fa cambiare idea, capisce che il suo dovere
è di rispettare la volontà del padre, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque
ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L'ultimo”.
E non
può che essere così: ma se guardiamo alle parole, alla gentilezza, al
comportamento esteriore, dobbiamo riconoscere che il primo merita un plauso, il
secondo invece, con i suoi modi diretti, altezzosi, è da condannare senza
attenuanti. Ma è subito chiaro quello che Gesù vuol dire con questa parabola:
non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze
esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello
che si fa nella vita reale di ogni giorno.
Ed è
altrettanto chiaro che Gesù intende colpire in maniera esplicita il
comportamento dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, che vendevano
soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore. Di loro
infatti aggiunge: “I pubblicani e le
prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per
quel tempo: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai
preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la
verità!).
Ma
Gesù non ce l'ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al
sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non
poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché
qualche giorno prima aveva avuto modo di constatare il pentimento di una di
loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”,
una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta
di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli
insegnamenti e la persona di Gesù. Eppure Egli vede nel comportamento riservatogli
in quell’occasione, un suo chiarissimo “sì” interiore, un’apertura a Dio, un
pentimento sincero, una grande decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava
mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente
questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con
le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze,
i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa
le arti del suo mestiere per dimostrare pentimento e amore. Quello che poteva
apparire sacrilego, un invito a peccare, diventa, nel suo pentimento interiore,
nel suo ripensamento, fede e riconoscenza per Gesù. Perché Egli non guarda all'apparenza
esteriore; egli guarda “dentro”, guarda il cuore, e le dirà: “La tua fede (=ciò
che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i
puri, gli impeccabili, i religiosi del tempo, la fede era ciò che l'uomo fa per
Dio: per Gesù, la fede è ciò che Dio fa per l'uomo. Gesù non vede una
prostituta; vede una donna, che ha bisogno d'amore, di accettazione e di
perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che, come può, ama, ha un cuore
che batte ed è viva. E questo gli basta.
Nei
farisei e nei religiosi del tempo Egli vedeva molto risentimento, falsità,
comportamenti malevoli. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché
approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, con buona
volontà, umilmente prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che
piange, che si dispera; gente cioè che non teme di mostrarsi per quello che è,
che non si vergogna, non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie,
i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato,
gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie, perché
solo chi ama, solo chi è innamorato può farle.
Sono i
gesti dell'amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali
gesti di amore, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima
cosa: abbiamo mai fatto caso che ogni volta che Gesù va in chiesa (in sinagoga)
nasce sempre un problema, al punto che - dopo che un giorno, pieno di rabbia, ha
buttato tutto all'aria - non ci va più? Perché? Perché il grande pericolo di
ogni chiesa, di ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo dottrine,
catechismi, proposizioni dogmatiche, belle prediche, regole e comportamenti, tralasciando
la cosa veramente importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di
far vivere, di far sentire Dio nei cuori di ciascuno. Le “regole” si fermano
all’esterno: ma lì non c’è vita. Gesù vive e sta là dove c'è vita: dove c'è il
dolore, la gioia, dove la gente si commuove, chiede scusa, si mostra per quello
che è senza vergognarsi e senza nascondersi, dove la gente non ha un'immagine
da sostenere e una maschera da portare. Gesù sta là dove c'è la vita, perché
Lui è la Vita, e non può che stare lì. Amen.
«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse
concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare
anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che
voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
La
parabola del vangelo di oggi ci presenta un proprietario terriero che assume
dei braccianti per la sua vigna. In Israele vi erano grandi latifondi e i
braccianti erano presi a giornata in base al lavoro da svolgere. Non c’era molto
da discutere: pur di assicurare il mantenimento della famiglia, accettavano immediatamente
qualsiasi lavoro.
La
vigna quel giorno richiedeva un lavoro importante e urgente, tant'è che lo
stesso padrone, e non il fattore, esce di casa all'alba per andare in piazza per
ingaggiare gli operai. La paga concordata con ciascuno è di un denaro per
l’intera giornata: una paga equa, che gli operai accettano volentieri.
Ovviamente il numero di operai ingaggiati è sufficiente a soddisfare il
fabbisogno dell'intera giornata.
Ma poi
succede qualcosa di imprevisto. Verso le nove del mattino il padrone esce di
nuovo in cerca di altri operai. Come mai? Perché lo fa? I primi infatti erano
già in numero sufficiente; perché allora ne chiama altri? Il padrone non lo fa
perché gli servono altre braccia per la vigna, ma perché si rende conto che ci
sono ancora molti disoccupati, senza lavoro (“li vide disoccupati”); e lui sapeva che essere senza lavoro equivaleva
a non mangiare. Il suo è quindi un gesto di pura bontà: lui non ne ha bisogno,
ma loro sì! E a questi operai promette di dare un compenso “giusto”.
Ma non
è finita. A metà giornata l'uomo torna nuovamente in piazza e assolda altri
operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Di operai nella vigna ora ce ne
sono più del necessario, ma il padrone continua a chiamare. È chiaro che egli non
è affatto preoccupato per la sua vigna, ma per quei poveretti che sono ancora senza
lavoro. Va contro i suoi interessi, eppure lo fa! L'accordo con questi è: “Vi
darò quello che è giusto”. Lo stesso succede anche alle cinque del pomeriggio,
quando manca appena un’ora al termine della giornata: va in piazza, prende
tutti quelli che sono rimasti, e li manda a lavorare. Il padrone continua a dimostrare
una grande generosità, è un uomo dal cuore grande, perché non pensa a sé ma a tutta
quella gente senza alcuna prospettiva per sfamarsi; e con questi ultimi non
parla neppure di retribuzione, ma sarà lui stesso a decidere il quanto.
A fine
giornata, giunto il momento della paga, egli inizia partendo proprio dagli ultimi
arrivati, e a ciascuno di essi consegna un denaro, lo stesso importo promesso a
quelli assunti all’alba: è quindi naturale che questi, fatto velocemente il
confronto tra l’ora lavorata dagli ultimi e il loro impegno di un’intera
giornata, si aspettino quantomeno una somma tre volte superiore. Quando però tocca
a loro, e contro ogni aspettativa vengono retribuiti anch’essi con un denaro
(d'altronde avevano accettato queste condizioni), sfogano la loro delusione e
il loro malumore accusando il padrone di comportamento ingiusto; e - dice il
vangelo - mormorano: non esprimono cioè
apertamente il loro disappunto, ma parlano di nascosto, senza esporsi. È tipico
di chi, non volendo compromettersi, sostiene le proprie ragioni muovendosi nell’ombra,
magari ricorrendo spesso alla calunnia e alla maldicenza.
Gesù non
si cura di questi, ma avvicinando il più esagitato, gli dice con grande calma: “Amico,
perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo
concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa
vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello
che è mio?”.
Ineccepibile,
chiuso il discorso. Un comportamento quello del padrone, pur se oggi qualcuno
potrebbe definirlo “anti-sindacale”, assolutamente giusto per i primi, e per gli
altri generoso, caritatevole, misericordioso. Egli non toglie nulla a nessuno:
vuole soltanto dare a tutti lo stesso salario. Un comportamento da “padrone
buono”, spiega Gesù: identico a quello tenuto da Dio, suo Padre.
Dio infatti
non dà in base al merito, ma secondo le nostre necessità: egli non dispensa il
suo aiuto amoroso come se fosse un premio dovuto, ma lo offre gratuitamente a
tutti: egli infatti vuole soddisfare quel bisogno di felicità che ogni uomo
porta innato nel suo cuore. Dio quindi non fa preferenze, ma ama tutti indistintamente.
Gesù, con
questa parabola, vuole dimostrare proprio questo: e lo fa cogliendo l’occasione
offertagli da Pietro che,interpretando il pensiero anche degli altri, gli dice
esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro,
famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr.
Mt 19,27).
Pietro
ragiona secondo la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi.
Essi sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), e quindi egli
rivendica per sé e per gli altri un trattamento di favore: “siamo sempre con
te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora
più di loro?”. Gesù però non ha mai pronunciato alcuna parola che potesse anche
solo far pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che
è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi
nessuna pretesa per chi lo segue, per chi lavora per lui nella sua vigna, di
ottenere particolari riconoscimenti: e questo indistintamente sia che lo faccia
dalla prima ora che dall’ultima: del resto l’amore che Dio riserva a tutti i
suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque aspettativa: li soddisfa a tal
punto da escludere in essi l’insorgere di qualsiasi altro desiderio.
Una
parabola, quella di oggi, che contiene pertanto due messaggi, entrambi forti e chiari.
Il
primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente
“seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano,
stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”.
“Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore,
amare il suo messaggio. Per seguire
Gesù non basta avere un comportamento esteriore ineccepibile: è il
comportamento interiore, è il nostro cuore che deve adeguarsi ai consigli
evangelici. L’esterno semmai è solo il riflesso di una autentica conversione
interiore.
Si
racconta in proposito di un santo abate che guidava diverse centinaia di monaci,
sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quanti fossero
in totale i suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”. Troppa
gente purtroppo “accompagna” semplicemente
Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo,
non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano come
instancabili lavoratori, assidui frequentatori del sacro, ma è come se non avessero
mai lavorato: in realtà non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela,
fosse pure quella dell’ultima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto doppiamente
improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del
Padre, non certo dalle loro presunzioni.
Il secondo
messaggio, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce il primo: Dio ama
tutti, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, che quelli che
rispondono alla chiamata della sera. I primi non devono aspettarsi un
trattamento preferenziale: non è la durata o la difficoltà del servizio che
aumenta i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè
non premia secondo i nostri calcoli, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza
o coerenza. La ricompensa finale del suo amore eterno è destinata, in ugual
misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è
un’unica condizione essenziale per accedere alla ricompensa: essere “lavoratori”
di “qualità”, non di “quantità”.
È un principio
che ho sottolineato più volte, in quanto per noi è molto indigesto. “Tutti gli
animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, scriveva Orwell;
ed è una grande verità: è in pratica quello che pensiamo anche noi “battezzati”:
Dio ama tutti, è vero; ma sicuramente i “segnati” li ama più degli altri. Niente
di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani
(i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Accettiamola umilmente
questa verità. Invece anche oggi tanti cristiani, pii e religiosi, non sanno
capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte,
all’ultimo momento, dopo una vita passata nel peccato, riceva lo stesso nostro
trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo “faticato” tutta la nostra
sacrosanta vita!”
Purtroppo
è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io
ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho
fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quanti non hanno
fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama
anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia,
significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è
anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in
guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia:
non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita
forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno
“sceglie” un altro al posto nostro? Non capita a noi di arrabbiarci perché
altri sono più fortunati di noi? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha
invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? E in questi casi, non
capita puntualmente proprio a noi di pensare: “È veramente un ingrato: come ha
fatto a non tener conto di tutto quello che io ho fatto per lui?”.
Ecco, anche
noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre
i primi, i preferiti, gli unici. L’invidia, con tutto il suo malessere, nasce quando,
confrontandoci con gli altri, constatiamo che qualcuno è migliore di noi. A
questo punto il nostro comportamento è triplice: o lo abbassiamo al nostro
livello, ricorrendo magari anche alla calunnia, alla maldicenza, pur di
“smontare” la sua superiorità; oppure cerchiamo di alzare noi stessi: facciamo
cioè l’impossibile per raggiungere, almeno in apparenza, lo stesso livello dell’altro.
Non importa poi se lo siamo realmente, l’importante è che gli altri ci vedano così.
Quante persone infatti buttano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili,
pur di sentirsi ammirati, di passare per qualcuno “che conta”? Purtroppo non arriveranno
mai all’assoluto, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre qualcuno
o qualcosa con cui continuare a confrontarsi. Il nostro terzo comportamento è infine
quello di fare buon viso a cattiva sorte, di fare cioè i disinvolti, ostentando
all’esterno un disinteresse, un distacco che non abbiamo; praticamente fingiamo
con noi stessi, perché sotto sotto sappiamo di non poter competere, di non
avere alcuna chance. Riviviamo in
qualche modo la famosa storiella della volpe e dell'uva.
Quello
che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere
come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci consideriamo
un nulla, che non abbiamo alcun valore. Dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande
valore. Non dobbiamo confrontarci con nessuno: perché se lo facciamo ci sarà sempre
un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore, e questo creerà
tensioni. Noi siamo noi: sviluppiamo quello che siamo; valorizziamo le nostre
doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno
tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli
altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le
persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di
meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e
benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che
significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come
vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi perché pensiamo che Lui ami gli altri più di noi?
Un
bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo
amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì
su di un gradino più in alto e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo
rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il
prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico
perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio
e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io
sono Dio!”.
Se ci
riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo
tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire
sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima
o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato
tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle
bellezze meravigliose e dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.
«Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto,
ma abbia la vita eterna» (Gv 3,13-17).
Giovanni,
con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto
nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come
potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione
della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita.
Il
testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo.
Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un
profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte
una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di oltre.
È un uomo che non si accontenta, che vuole capire, che vuole vivere più in
profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi
rinascere”.
Sostanzialmente
gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo
tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per
davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe
entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore,
di vita vera come il suo.
Gesù è
uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le
convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Gesù è
davvero affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo,
meraviglioso, da “mozzare il fiato”, intenso. Gesù è per anime grandi. Gesù non
si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo
cabotaggio: guardiamo per esempio la vita dei santi o degli apostoli. Chi vuol
vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci stare.
Perché Gesù coinvolge, sconvolge, esattamente come l’amore: prende tutto,
possiede, afferra. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo
mai. Gesù è come l’acqua: o ci immergiamo in Lui o non lo conosceremo mai. Gesù
è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre a bordo strada.
A
Nicodemo in pratica dice: “Se vuoi capire chi sono io, lascia stare la tua
Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far
morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone
maniere, e riaprire gli occhi alla realtà”.
E cita
come esempio la piaga dei serpenti velenosi inflitta da Dio al popolo che
durante l’esodo gli si era ribellato: chiunque fosse stato morso, avrebbe
potuto guarire guardando il serpente bronzeo posto da Mosè alla sommità di un’asta:
il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, diventa in
quel momento segno di vita. Esattamente come la croce, segno di paura, di
morte, di terrore, di fallimento, di sofferenza: con Cristo diventa segno di
vita. Questo in pratica Gesù ci invita a fare: “Non aver paura di quello che ti
angoscia: fidati di me: attraverso la croce ti ho riscattato!”.
Gesù
si è fidato di Dio, è andato fino in fondo e può quindi testimoniarlo
personalmente: Dio non abbandona mai. Egli ha guardato in faccia tutte le sue
paure: la morte, il fallimento, la fine, la croce, l’aver sbagliato tutto. Bisognava
che affrontasse tutto questo, che andasse fino in fondo nella sua vita, ad ogni
costo, anche salendo sulla croce, per dimostrare a tutti noi che Dio non
abbandona; che di Dio ci possiamo fidare; che di Dio non dobbiamo aver paura;
che l’amore di Dio è più forte di tutte le morti.
Guardiamo
allora in faccia tutto ciò che temiamo! La paura più grande è la paura di
morire. “Guardala in faccia. Non sottrarti”. Guardare in faccia la tragedia
della nostra vita è la nostra salvezza o la nostra disperazione. La grande
verità è che noi moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri
figli, i nostri cari, la nostra casa. Vivere con tale prospettiva ci fa paura,
ci rende scettici, pessimisti: “A che serve fare, combattere, lasciarsi
coinvolgere, se poi tutto finisce?”. Vivere così ci aliena: “Meglio non
pensarci, altrimenti impazziamo!”. Vivere così ci rende insensibili, vuoti:
“Godiamoci la vita, accumuliamo benessere, prendiamoci tutto quello che possiamo!”.
Però qualunque cosa tentiamo di fare, una verità ci informa puntualmente: “tu morirai,
lascerai tutto e tutti”. Possiamo scappare da questa verità. Possiamo vivere
come se niente fosse. Evitarla, non pensarci. Ma la paura della morte ci
impedisce comunque di vivere, ci fa male; è un pensiero tremendo, doloroso,
lacerante, angosciante.
Ma questa
non è la fine in assoluto: dall’altro lato del tunnel buio c’è sempre una luce.
Nel fondo dell’angoscia brilla la Vita. Nel fondo della morte risplende la Resurrezione.
Nel fondo della paura c’è la Fiducia. Se ci fidiamo di andare fino in fondo, di
affrontare le tragedie della vita, della nostra vita, ebbene, proprio lì,
troveremo il senso e la bellezza della vita stessa. E, dopo di ciò, non saremo
mai più quelli di prima. Non saremo mai più gli stessi.
Ecco:
questo, per Giovanni, vuol dire “credere”. Credere è quando noi nel bel mezzo
del buio troviamo la Luce; nel bel mezzo della morte troviamo la Vita; nel bel
mezzo della disperazione troviamo la Forza. Credere è quando noi non ci
sottraiamo alla vita e alle sue tragedie, ma ci passiamo dentro, in mezzo, le
affrontiamo, fidandoci di Dio. Questa discesa ci fa rinascere, ci rende nuovi, ci
cambia completamente vita. Perché guardare in faccia ciò che temiamo, ci fa
nascere in una nuova visione della realtà.
Se noi
smettessimo di voler “razionalizzare” ogni cosa, di voler cercare sempre risposte
convincenti, di voler trovare il filo conduttore di tutto, di pensare e
ripensare, di discutere, di concettualizzare tutto, di stabilire sempre cosa è
bene e cosa è male, e ci aprissimo, invece, al nostro profondo bisogno d’amore,
alla ricchezza delle emozioni che vivono nel nostro cuore, senza reprimere,
senza eliminare, senza paura di affrontare la dipendenza, la rabbia, ma
guardandole in faccia. Se useremo, contro le nostre paure ed emozioni angosciose, tenerezza, comprensione,
misericordia, allora inizieremo veramente a sentirci degni di vivere sul serio;
allora ci sentiremo veramente figli di Dio. Allora capiremo che ai suoi occhi
noi siamo grandi (siamo stati creati da Lui); è Lui che ci vuole grandi, e anche
noi finalmente ci sentiremo tali.
Questa
è la realtà: e per questo dobbiamo smettere di inseguire ideali di vita
distruttivi: le ricchezze, il buon nome, la carriera, il successo, il nostro
apparire esteriore. Non possiamo continuare a vivere così; guardiamoci invece
negli occhi, scrutiamoci nel silenzio dell’anima; prendiamoci l’un l’altro per
mano e diciamoci le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri desideri e tutto
il nostro bisogno di amore; guardiamo i volti delle persone e ammiriamone la
misteriosa bellezza che celano; guardiamo il cielo, sentiamolo “dentro” di noi;
guardiamo gli uccelli e sentiamoci liberi come loro nella nostra anima; guardiamo
il sole e viviamolo nel nostro cuore; facciamo anche solo silenzio, e sentiremo
che c’è qualcosa che ci accomuna con gli altri, che ci rende fratelli: solo
così noi potremo sentire, vivere e percepire il meraviglioso, inebriante e
stupendo fremito che si chiama vita. Chi crede,
vive così. Chi vive, crede così. Amen.
«Se il tuo fratello commetterà
una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà,
avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
La catechesi
del vangelo di oggi - tratta dal “ discorso ecclesiale”, uno dei cinque grandi
discorsi di cui si compone il vangelo di Matteo - intende trasmettere alla nascente
comunità cristiana di allora delle regole ben precise, delle norme, dei
consigli, con i quali tradurre in pratica, in comportamenti di vita, la grande novità
della predicazione di Gesù. Parole che ovviamente noi oggi non dobbiamo
prendere alla lettera, poiché sono state scritte per uomini di oltre duemila
anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, in una determinata cultura
molto diversa dalla nostra.
L’importante
infatti per noi non è tanto rimanere fedeli a delle “regole” contingenti che
mutano nel tempo, ma di fare nostro lo spirito di Gesù, che è quello che rimane
fermo nei secoli.
Cosa
ci rivela allora “lo spirito”, il senso profondo del testo di oggi? Che
dobbiamo riservare agli altri un comportamento di umiltà, di sollecitudine, di attenzione,
di discrezione. Il fatto che Dio sia presente in noi, che abiti nel nostro cuore,
non lo dimostriamo certo attraverso una grande quantità di preghiere o dal
numero di volte che invochiamo il suo nome, ma da come ci relazioniamo, da come
ci comportiamo con le persone, da come stiamo con gli altri.
Così
anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto con il
nostro prossimo, non dobbiamo mai dimenticare, soprattutto in quei momenti, che
il nostro dovere è quello di amare: può succedere infatti che, pur non litigando
mai con nessuno, non arriviamo ad amare nessuno, oppure che, litigando continuamente,
lo facciamo per amore. Tutto dipende se riusciamo ad imparare dalle nostre
esperienze, se facciamo tesoro di quanto esse ci insegnao. Quante persone
litigano per anni e anni sempre per lo stesso futile motivo? Vuol dire che non
hanno mai imparato dalla loro esperienza, non si sono mai domandati il perché del
loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nel loro litigare non
serve, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; non vogliono imparare, non
vogliono crescere. La loro è una lotta tra sordi.
Il
comportamento che dobbiamo pertanto ricavare dalle parole del vangelo, non è tanto
quello della denuncia, del creare uno scandalo a tutti i costi, dello stendere in
piazza i panni sporchi del fratello, bensì quello della carità, dell’amore, del
rispetto che gli dobbiamo: perché se nostro fratello sbaglia, se ha dei
problemi, è esattamente in questi momenti che ha maggior bisogno di noi, del nostro
amore, della nostra amicizia: è soprattutto in questi frangenti che dobbiamo usargli
ancor più delicatezza, gentilezza, attenzione, rispetto.
Questo
infatti ci raccomandano le prime parole del testo: “Se c’è una questione irrisolta fra te e lui... va di persona da lui, incontralo
da solo, a quattrocchi”. Quindi è d’obbligo la massima discrezione: un atteggiamento
completamente nuovo, rivoluzionario, rispetto all’antica legge israelitica che al
contrario imponeva l’obbligo del ricorso immediato alla pubblica denuncia.
Pertanto:
c’è qualcosa che non condividiamo nel comportamento di qualcuno? Notiamo in lui
qualcosa di stonato, qualcosa che riteniamo sconveniente, deplorevole? Andiamo da
lui e parliamone: se non altro andandoci, ascolteremo la sua versione, le ragioni
del suo agire, e forse ci ricrederemo; forse capiremo che le cose non stanno poi
come noi pensavamo. Andiamo e constatiamo sempre di persona: non prendiamo mai
per buono quello che dice la gente. Non comportiamoci in maniera infantile: non
isoliamo, non scherniamo, non mettiamo alla berlina, non crocifiggiamo nessuno a priori. Spesso i comportamenti che noi
condanniamo sono imposti da situazioni, o da cause di forza maggiore, che noi neppure
immaginiamo. Dobbiamo tener presente, inoltre, che molto spesso le persone
agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza e non per cattiveria.
Pertanto,
dobbiamo soprattutto imparare ad “ascoltare” il prossimo. Dobbiamo dargli
credito, dobbiamo dargli fiducia. Per ben quattro volte Matteo insiste sul
verbo “ascoltare”: “Se ti ascolterà...
se non ti ascolterà vai con una, due
persone... se non ti ascolterà, dillo
all’assemblea..., se non ti ascolterà...”.
L’ascolto, il colloquio, il chiarire fraternamente e privatamente qualunque
malinteso con i fratelli, sono le basi per un corretto relazionarsi, sono le
vie maestre della “carità” cristiana: perché la calunnia, la diffamazione, lo
screditare subdolamente gli altri, dire male del prossimo, sono azioni di
chiara provenienza satanica: solo Satana infatti male-dice, soltanto lui è una male-dizione
per il mondo intero; al contrario mettere in luce il bene, incoraggiare,
valorizzare, vedere sempre in positivo, dire bene del prossimo sono cose che
vengono da Dio: egli infatti bene-dice
tutti.
Per
questo dobbiamo fare molta attenzione alle parole che escono dalla nostra bocca:
perché esse rivelano sempre ciò che segretamente coltiviamo nel nostro cuore: se
il nostro cuore è pieno di rabbia, di invidia, di risentimento, di dolore,
dalla nostra bocca non potranno uscire che pregiudizi, maldicenze,
insinuazioni. Se il nostro cuore invece è pieno di Dio, dalla nostra bocca non
potrà uscire altro che espressioni di perdono, di misericordia, di carità, di
amore.
Saper “ascoltare” i fratelli, assume quindi un’importanza
fondamentale. Ma nella realtà, nelle nostre giornate passate con gli altri, come
lo “viviamo” questo ascoltare?
Ascoltiamo veramente o fingiamo di ascoltare? Ascoltiamo quello che gli altri
ci dicono, oppure ascoltiamo soltanto ciò che vogliamo sentire? Riusciamo ad ascoltare
le motivazioni dell’altro anche se dentro di noi abbiamo già deciso che ha
sbagliato? Riusciamo ad ascoltare l’altro anche se noi per principio non cambiamo
mai parere, se non vogliamo mai accettare punti di vista diversi dai nostri? Oppure
lo ascoltiamo se mentre lui parla noi stiamo già pensando a come contraddirlo?
Se abbiamo sempre le risposte pronte per tutte le domande, credendoci
altrettanti Dio? Se siamo più preoccupati di cosa dirà la gente piuttosto che
di lui e di quanto deve dirci?
Certo,
tutto questo non è ascoltare: e se noi
non ascoltiamo gli altri, come facciamo
a dire loro che li amiamo?
La
comunità di Matteo non era perfetta: c’erano sicuramente dei conflitti, delle
incomprensioni, delle liti tra i vari componenti. Per questo egli qui sente il
bisogno di ribadire: “In tutte le
situazioni, ci sia fra di voi l’amore”.
Del
resto non esiste comunità, non esiste famiglia, in cui non vi siano tensioni,
conflitti, scontri: la normalità sta proprio nella con-flittualità: si hanno pareri diversi, discordanti, si hanno
esperienze diverse, ci sono problemi, crisi, difficoltà diverse. Ma non sempre litigare,
entrare in conflitto, equivale a non
amarsi: vuol dire soltanto che c’è diversità di vedute, di opinioni, che ci
sono caratteri con sensibilità magari opposte, nient’altro. È un fatto naturale
e inevitabile, che comunque non deve essere considerato un problema. Semmai il problema
c’è quando due persone non litigano mai: vuol dire che una delle due si è
conformata all’altra, si è spogliata della propria personalità. E non è certo arrivando
a tanto che dimostriamo di amare veramente: ma l’amore in una famiglia, in una comunità,
traspare solo dal modo con cui vengono affrontati e risolti questi conflitti,
queste divergenze.
Il “modo”
è un fattore determinante e decisivo: perché le tensioni e i conflitti sono
ambivalenti: possono cioè essere causa di comunione ma anche di divisione, di
unione o di rottura, di crescita o di separazione. Se infatti partiamo dal
presupposto che in casa nostra deve sempre regnare l’armonia e la pace, se
evitiamo d’autorità l’insorgere di qualunque parere contrario, è difficile, per
non dire impossibile, crescere.
Ci
sono infatti persone che pretendono di vedere sempre tutto roseo intorno a loro:
persone che negano nella loro convivenza l’esistenza di qualunque
conflittualità, pensano insomma che la loro comunità sia esente da qualunque
problema… e questo è già di per sé un notevole problema! Altre persone invece sono
così fragili, hanno un’identità così debole, che vedono in un semplice
contrasto, in una salutare litigata, la fine stessa di un rapporto, un disastro
universale, la prospettiva tragica di rimanere completamente sole. Ma entrambe
le posizioni non rappresentano la normalità della vita.
Non
spaventiamoci allora delle divergenze, delle lotte, dei conflitti. Semplicemente
parliamone con gli altri, discutiamone; accettiamo di essere messi in
discussione. Non è importante chi alla fine vince, anche se lo scopo primo di
ogni nostro intervento e sempre quello di aver ragione. È naturale per noi
essere portati a dominare l’altro, a dimostrare che noi siamo “più” in tutto,
che abbiamo sempre ragione: questo è vero. Ma stiamo bene attenti: perché dove
c’è uno che vince, c’è sempre uno che perde, ed è altrettanto naturale che chi
perde si senta umiliato, sconfitto, messo all’angolo: e questo non è mai
positivo, non produce mai aggregazione, unione.
Per
questo è fondamentale, lo ripeto, ascoltarci:
mettiamoci nei panni degli altri, mettiamoci dal loro punto di vista, usiamo nei
loro confronti grande em-patia,
grande sim-patia; spogliamoci delle nostre
manie, perché se rimaniamo in esse non arriveremo mai ad ascoltare nessuno.
La
maturità del nostro amore non si vede dal fatto che non creiamo mai screzi, che
facciamo tutto insieme con il nostro partner; ma dal confrontarci in maniera
sana nei momenti difficili. È il confronto che ci fa crescere, che matura il
nostro amore.
Di
conseguenza è altrettanto fondamentale imparare a difenderci quando ci
attaccano, a mettere dei paletti quando oltrepassano il limite, ma anche
imparare ad aprirci totalmente quando è possibile e quando troviamo fiducia; imparare
a collaborare senza voler essere superiori agli altri, come pure ad esprimere
quello che abbiamo dentro senza sentirci inferiori a nessuno.
Non c’è
una scuola per tutto questo. C’è una scuola per tutto, ma non per imparare a convivere.
E così le coppie scoppiano (stare in due è già gruppo), le famiglie vivono
malesseri profondi, e le persone che hanno amicizie vere, forti e profonde,
sono sempre meno.
Matteo
per questo ci propone una frase bellissima di Gesù: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere
qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Notare il “mettersi
d’accordo: “ac-cor-darsi”, vuol dire in
pratica avere i cuori che battono tutti alla stessa frequenza; in greco è sin-fonia. L’accordo musicale infatti è
formato da note diverse: ogni nota ha un suono diverso, ma messe insieme
formano l’ac-cordo, la bellezza di
una sinfonia. L’unità è quindi l’accordarsi, è cantare all’unisono con la
stessa melodia, è quando i nostri cuori sono uniti, quando le nostre entità si fondono
nell’intimità, nel segreto della nostra vita. E quando ciò avviene, ci dice il
vangelo, sperimentiamo la presenza di una forza irresistibile, sperimentiamo tangibilmente
la presenza di Dio in mezzo a noi.
L’unione
di due persone non sta tanto nello sposarsi, nel quanto tempo stanno insieme,
nel quante cose fanno insieme, ma nella profondità
del loro stare insieme.
Di
alcuni santi si dice che durante il loro parlare intimo, il loro colloquiare profondo
con l’altro, giunsero ad una unione talmente con-sonante, da perdere completamente la cognizione del tempo:
pensiamo per esempio a san Benedetto con santa Scolastica, a san Francesco con santa
Chiara. Come mai noi nel nostro continuo parlare difficilmente creiamo unione?
Semplice: perché noi non sperimentiamo la forza intima dell’amore, perché i
nostri cuori non vibrano mai in profondità. Parlare del più e del meno, di quello
che si è fatto in giornata, parlare del tempo, del vicino di casa, del lavoro, non
crea unione, non ci guarisce, non ci sana, non ci fa incontrare dentro. Ciò che
ci rende uniti, che ci salva, è quando ci offriamo all’altro completamente, in
maniera totale e disarmante, nella nostra vulnerabilità, nelle nostre paure,
nelle nostre imperfezioni. L’unione nasce infatti dal “metterci a nudo”, dal
farci vedere per quello che siamo realmente, dal donarci vicendevolmente l’anima.
Dobbiamo avere il coraggio di farlo e la fiducia di non essere traditi.
Si racconta
di un giovane monaco che chiedeva all’abate: “Per quanto tempo dovrò aver cura
di mio fratello?”. E l’abate rispose con quattro domande: “Quanto tempo ci
vuole per fare una casa?”. Il discepolo rispose: “Un anno”. “Quanto tempo ci
vuole per fare un albero?”. “Cinque anni”. “Quanto tempo ci vuole per poter fare
un figlio?”. “Almeno quindici anni”. “E quanto tempo ci vuole per distruggere
tutto questo?”. “Un attimo!”. “Ebbene: ci vuole tanto tempo per costruire, ma basta
un attimo per distruggere. Fa in modo che questo attimo non avvenga mai tra te
e tuo fratello”.
Quando
parliamo, quando ci relazioniamo con gli altri, teniamo sempre presente questa
regola e stiamo attenti a quell’attimo, in particolare a quello che diciamo; perché
le parole possono essere come delle bombe: una volta innescate, scoppiano in un
attimo. Amen.