«In verità vi dico: I
pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi
Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le
prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste
cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).
La
tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei,
anziani, sommi sacerdoti) è già altissima. Gesù, scagliandosi contro la loro
stupidità e ipocrisia, dirà cose tremende, inaccettabili per gente che faceva
parte del sinedrio, che si considerava pura, di buon esempio, pia, religiosa, intoccabile.
Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non
va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare
correttamente. È in tale contesto che si situa la parabola di oggi.
Un
racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c'è un padre con
due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va' a lavorare nella vigna”.
Il primo dice: “Sì” ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: gli dice subito di sì (mai
contraddire il padre, era la regola da seguire); ma poi, come se nulla fosse, fa
di testa sua.
Il
secondo invece, con stizza, maleducatamente, gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci,
si pente e obbedisce. Matteo usa qui il verbo metamélomai che vuol dire appunto pentirsi, cambiare idea. La sua prima reazione è: “No!”, ma poi cambia
idea e ci va.
È
chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, attenendosi
alle buone maniere per paura di deludere il padre, non è coerente con ciò che pensa
realmente in cuor suo - il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore - il
secondo invece non gli interessa di deludere il padre, è coerente con se
stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli nasce dentro: “nossignore!”;
ma subito dopo la sua coerenza gli fa cambiare idea, capisce che il suo dovere
è di rispettare la volontà del padre, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque
ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L'ultimo”.
E non
può che essere così: ma se guardiamo alle parole, alla gentilezza, al
comportamento esteriore, dobbiamo riconoscere che il primo merita un plauso, il
secondo invece, con i suoi modi diretti, altezzosi, è da condannare senza
attenuanti. Ma è subito chiaro quello che Gesù vuol dire con questa parabola:
non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze
esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello
che si fa nella vita reale di ogni giorno.
Ed è
altrettanto chiaro che Gesù intende colpire in maniera esplicita il
comportamento dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, che vendevano
soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore. Di loro
infatti aggiunge: “I pubblicani e le
prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per
quel tempo: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai
preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la
verità!).
Ma
Gesù non ce l'ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al
sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non
poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché
qualche giorno prima aveva avuto modo di constatare il pentimento di una di
loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”,
una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta
di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli
insegnamenti e la persona di Gesù. Eppure Egli vede nel comportamento riservatogli
in quell’occasione, un suo chiarissimo “sì” interiore, un’apertura a Dio, un
pentimento sincero, una grande decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava
mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente
questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con
le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze,
i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa
le arti del suo mestiere per dimostrare pentimento e amore. Quello che poteva
apparire sacrilego, un invito a peccare, diventa, nel suo pentimento interiore,
nel suo ripensamento, fede e riconoscenza per Gesù. Perché Egli non guarda all'apparenza
esteriore; egli guarda “dentro”, guarda il cuore, e le dirà: “La tua fede (=ciò
che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i
puri, gli impeccabili, i religiosi del tempo, la fede era ciò che l'uomo fa per
Dio: per Gesù, la fede è ciò che Dio fa per l'uomo. Gesù non vede una
prostituta; vede una donna, che ha bisogno d'amore, di accettazione e di
perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che, come può, ama, ha un cuore
che batte ed è viva. E questo gli basta.
Nei
farisei e nei religiosi del tempo Egli vedeva molto risentimento, falsità,
comportamenti malevoli. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché
approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, con buona
volontà, umilmente prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che
piange, che si dispera; gente cioè che non teme di mostrarsi per quello che è,
che non si vergogna, non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie,
i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato,
gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie, perché
solo chi ama, solo chi è innamorato può farle.
Sono i
gesti dell'amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali
gesti di amore, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima
cosa: abbiamo mai fatto caso che ogni volta che Gesù va in chiesa (in sinagoga)
nasce sempre un problema, al punto che - dopo che un giorno, pieno di rabbia, ha
buttato tutto all'aria - non ci va più? Perché? Perché il grande pericolo di
ogni chiesa, di ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo dottrine,
catechismi, proposizioni dogmatiche, belle prediche, regole e comportamenti, tralasciando
la cosa veramente importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di
far vivere, di far sentire Dio nei cuori di ciascuno. Le “regole” si fermano
all’esterno: ma lì non c’è vita. Gesù vive e sta là dove c'è vita: dove c'è il
dolore, la gioia, dove la gente si commuove, chiede scusa, si mostra per quello
che è senza vergognarsi e senza nascondersi, dove la gente non ha un'immagine
da sostenere e una maschera da portare. Gesù sta là dove c'è la vita, perché
Lui è la Vita, e non può che stare lì. Amen.
«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse
concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare
anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che
voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
La
parabola del vangelo di oggi ci presenta un proprietario terriero che assume
dei braccianti per la sua vigna. In Israele vi erano grandi latifondi e i
braccianti erano presi a giornata in base al lavoro da svolgere. Non c’era molto
da discutere: pur di assicurare il mantenimento della famiglia, accettavano immediatamente
qualsiasi lavoro.
La
vigna quel giorno richiedeva un lavoro importante e urgente, tant'è che lo
stesso padrone, e non il fattore, esce di casa all'alba per andare in piazza per
ingaggiare gli operai. La paga concordata con ciascuno è di un denaro per
l’intera giornata: una paga equa, che gli operai accettano volentieri.
Ovviamente il numero di operai ingaggiati è sufficiente a soddisfare il
fabbisogno dell'intera giornata.
Ma poi
succede qualcosa di imprevisto. Verso le nove del mattino il padrone esce di
nuovo in cerca di altri operai. Come mai? Perché lo fa? I primi infatti erano
già in numero sufficiente; perché allora ne chiama altri? Il padrone non lo fa
perché gli servono altre braccia per la vigna, ma perché si rende conto che ci
sono ancora molti disoccupati, senza lavoro (“li vide disoccupati”); e lui sapeva che essere senza lavoro equivaleva
a non mangiare. Il suo è quindi un gesto di pura bontà: lui non ne ha bisogno,
ma loro sì! E a questi operai promette di dare un compenso “giusto”.
Ma non
è finita. A metà giornata l'uomo torna nuovamente in piazza e assolda altri
operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Di operai nella vigna ora ce ne
sono più del necessario, ma il padrone continua a chiamare. È chiaro che egli non
è affatto preoccupato per la sua vigna, ma per quei poveretti che sono ancora senza
lavoro. Va contro i suoi interessi, eppure lo fa! L'accordo con questi è: “Vi
darò quello che è giusto”. Lo stesso succede anche alle cinque del pomeriggio,
quando manca appena un’ora al termine della giornata: va in piazza, prende
tutti quelli che sono rimasti, e li manda a lavorare. Il padrone continua a dimostrare
una grande generosità, è un uomo dal cuore grande, perché non pensa a sé ma a tutta
quella gente senza alcuna prospettiva per sfamarsi; e con questi ultimi non
parla neppure di retribuzione, ma sarà lui stesso a decidere il quanto.
A fine
giornata, giunto il momento della paga, egli inizia partendo proprio dagli ultimi
arrivati, e a ciascuno di essi consegna un denaro, lo stesso importo promesso a
quelli assunti all’alba: è quindi naturale che questi, fatto velocemente il
confronto tra l’ora lavorata dagli ultimi e il loro impegno di un’intera
giornata, si aspettino quantomeno una somma tre volte superiore. Quando però tocca
a loro, e contro ogni aspettativa vengono retribuiti anch’essi con un denaro
(d'altronde avevano accettato queste condizioni), sfogano la loro delusione e
il loro malumore accusando il padrone di comportamento ingiusto; e - dice il
vangelo - mormorano: non esprimono cioè
apertamente il loro disappunto, ma parlano di nascosto, senza esporsi. È tipico
di chi, non volendo compromettersi, sostiene le proprie ragioni muovendosi nell’ombra,
magari ricorrendo spesso alla calunnia e alla maldicenza.
Gesù non
si cura di questi, ma avvicinando il più esagitato, gli dice con grande calma: “Amico,
perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo
concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa
vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello
che è mio?”.
Ineccepibile,
chiuso il discorso. Un comportamento quello del padrone, pur se oggi qualcuno
potrebbe definirlo “anti-sindacale”, assolutamente giusto per i primi, e per gli
altri generoso, caritatevole, misericordioso. Egli non toglie nulla a nessuno:
vuole soltanto dare a tutti lo stesso salario. Un comportamento da “padrone
buono”, spiega Gesù: identico a quello tenuto da Dio, suo Padre.
Dio infatti
non dà in base al merito, ma secondo le nostre necessità: egli non dispensa il
suo aiuto amoroso come se fosse un premio dovuto, ma lo offre gratuitamente a
tutti: egli infatti vuole soddisfare quel bisogno di felicità che ogni uomo
porta innato nel suo cuore. Dio quindi non fa preferenze, ma ama tutti indistintamente.
Gesù, con
questa parabola, vuole dimostrare proprio questo: e lo fa cogliendo l’occasione
offertagli da Pietro che,interpretando il pensiero anche degli altri, gli dice
esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro,
famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr.
Mt 19,27).
Pietro
ragiona secondo la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi.
Essi sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), e quindi egli
rivendica per sé e per gli altri un trattamento di favore: “siamo sempre con
te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora
più di loro?”. Gesù però non ha mai pronunciato alcuna parola che potesse anche
solo far pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che
è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi
nessuna pretesa per chi lo segue, per chi lavora per lui nella sua vigna, di
ottenere particolari riconoscimenti: e questo indistintamente sia che lo faccia
dalla prima ora che dall’ultima: del resto l’amore che Dio riserva a tutti i
suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque aspettativa: li soddisfa a tal
punto da escludere in essi l’insorgere di qualsiasi altro desiderio.
Una
parabola, quella di oggi, che contiene pertanto due messaggi, entrambi forti e chiari.
Il
primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente
“seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano,
stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”.
“Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore,
amare il suo messaggio. Per seguire
Gesù non basta avere un comportamento esteriore ineccepibile: è il
comportamento interiore, è il nostro cuore che deve adeguarsi ai consigli
evangelici. L’esterno semmai è solo il riflesso di una autentica conversione
interiore.
Si
racconta in proposito di un santo abate che guidava diverse centinaia di monaci,
sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quanti fossero
in totale i suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”. Troppa
gente purtroppo “accompagna” semplicemente
Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo,
non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano come
instancabili lavoratori, assidui frequentatori del sacro, ma è come se non avessero
mai lavorato: in realtà non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela,
fosse pure quella dell’ultima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto doppiamente
improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del
Padre, non certo dalle loro presunzioni.
Il secondo
messaggio, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce il primo: Dio ama
tutti, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, che quelli che
rispondono alla chiamata della sera. I primi non devono aspettarsi un
trattamento preferenziale: non è la durata o la difficoltà del servizio che
aumenta i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè
non premia secondo i nostri calcoli, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza
o coerenza. La ricompensa finale del suo amore eterno è destinata, in ugual
misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è
un’unica condizione essenziale per accedere alla ricompensa: essere “lavoratori”
di “qualità”, non di “quantità”.
È un principio
che ho sottolineato più volte, in quanto per noi è molto indigesto. “Tutti gli
animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, scriveva Orwell;
ed è una grande verità: è in pratica quello che pensiamo anche noi “battezzati”:
Dio ama tutti, è vero; ma sicuramente i “segnati” li ama più degli altri. Niente
di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani
(i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Accettiamola umilmente
questa verità. Invece anche oggi tanti cristiani, pii e religiosi, non sanno
capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte,
all’ultimo momento, dopo una vita passata nel peccato, riceva lo stesso nostro
trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo “faticato” tutta la nostra
sacrosanta vita!”
Purtroppo
è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io
ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho
fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quanti non hanno
fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama
anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia,
significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è
anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in
guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia:
non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita
forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno
“sceglie” un altro al posto nostro? Non capita a noi di arrabbiarci perché
altri sono più fortunati di noi? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha
invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? E in questi casi, non
capita puntualmente proprio a noi di pensare: “È veramente un ingrato: come ha
fatto a non tener conto di tutto quello che io ho fatto per lui?”.
Ecco, anche
noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre
i primi, i preferiti, gli unici. L’invidia, con tutto il suo malessere, nasce quando,
confrontandoci con gli altri, constatiamo che qualcuno è migliore di noi. A
questo punto il nostro comportamento è triplice: o lo abbassiamo al nostro
livello, ricorrendo magari anche alla calunnia, alla maldicenza, pur di
“smontare” la sua superiorità; oppure cerchiamo di alzare noi stessi: facciamo
cioè l’impossibile per raggiungere, almeno in apparenza, lo stesso livello dell’altro.
Non importa poi se lo siamo realmente, l’importante è che gli altri ci vedano così.
Quante persone infatti buttano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili,
pur di sentirsi ammirati, di passare per qualcuno “che conta”? Purtroppo non arriveranno
mai all’assoluto, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre qualcuno
o qualcosa con cui continuare a confrontarsi. Il nostro terzo comportamento è infine
quello di fare buon viso a cattiva sorte, di fare cioè i disinvolti, ostentando
all’esterno un disinteresse, un distacco che non abbiamo; praticamente fingiamo
con noi stessi, perché sotto sotto sappiamo di non poter competere, di non
avere alcuna chance. Riviviamo in
qualche modo la famosa storiella della volpe e dell'uva.
Quello
che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere
come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci consideriamo
un nulla, che non abbiamo alcun valore. Dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande
valore. Non dobbiamo confrontarci con nessuno: perché se lo facciamo ci sarà sempre
un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore, e questo creerà
tensioni. Noi siamo noi: sviluppiamo quello che siamo; valorizziamo le nostre
doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno
tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli
altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le
persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di
meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e
benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che
significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come
vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi perché pensiamo che Lui ami gli altri più di noi?
Un
bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo
amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì
su di un gradino più in alto e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo
rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il
prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico
perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio
e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io
sono Dio!”.
Se ci
riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo
tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire
sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima
o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato
tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle
bellezze meravigliose e dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.
«Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto,
ma abbia la vita eterna» (Gv 3,13-17).
Giovanni,
con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto
nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come
potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione
della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita.
Il
testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo.
Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un
profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte
una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di oltre.
È un uomo che non si accontenta, che vuole capire, che vuole vivere più in
profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi
rinascere”.
Sostanzialmente
gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo
tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per
davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe
entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore,
di vita vera come il suo.
Gesù è
uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le
convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Gesù è
davvero affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo,
meraviglioso, da “mozzare il fiato”, intenso. Gesù è per anime grandi. Gesù non
si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo
cabotaggio: guardiamo per esempio la vita dei santi o degli apostoli. Chi vuol
vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci stare.
Perché Gesù coinvolge, sconvolge, esattamente come l’amore: prende tutto,
possiede, afferra. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo
mai. Gesù è come l’acqua: o ci immergiamo in Lui o non lo conosceremo mai. Gesù
è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre a bordo strada.
A
Nicodemo in pratica dice: “Se vuoi capire chi sono io, lascia stare la tua
Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far
morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone
maniere, e riaprire gli occhi alla realtà”.
E cita
come esempio la piaga dei serpenti velenosi inflitta da Dio al popolo che
durante l’esodo gli si era ribellato: chiunque fosse stato morso, avrebbe
potuto guarire guardando il serpente bronzeo posto da Mosè alla sommità di un’asta:
il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, diventa in
quel momento segno di vita. Esattamente come la croce, segno di paura, di
morte, di terrore, di fallimento, di sofferenza: con Cristo diventa segno di
vita. Questo in pratica Gesù ci invita a fare: “Non aver paura di quello che ti
angoscia: fidati di me: attraverso la croce ti ho riscattato!”.
Gesù
si è fidato di Dio, è andato fino in fondo e può quindi testimoniarlo
personalmente: Dio non abbandona mai. Egli ha guardato in faccia tutte le sue
paure: la morte, il fallimento, la fine, la croce, l’aver sbagliato tutto. Bisognava
che affrontasse tutto questo, che andasse fino in fondo nella sua vita, ad ogni
costo, anche salendo sulla croce, per dimostrare a tutti noi che Dio non
abbandona; che di Dio ci possiamo fidare; che di Dio non dobbiamo aver paura;
che l’amore di Dio è più forte di tutte le morti.
Guardiamo
allora in faccia tutto ciò che temiamo! La paura più grande è la paura di
morire. “Guardala in faccia. Non sottrarti”. Guardare in faccia la tragedia
della nostra vita è la nostra salvezza o la nostra disperazione. La grande
verità è che noi moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri
figli, i nostri cari, la nostra casa. Vivere con tale prospettiva ci fa paura,
ci rende scettici, pessimisti: “A che serve fare, combattere, lasciarsi
coinvolgere, se poi tutto finisce?”. Vivere così ci aliena: “Meglio non
pensarci, altrimenti impazziamo!”. Vivere così ci rende insensibili, vuoti:
“Godiamoci la vita, accumuliamo benessere, prendiamoci tutto quello che possiamo!”.
Però qualunque cosa tentiamo di fare, una verità ci informa puntualmente: “tu morirai,
lascerai tutto e tutti”. Possiamo scappare da questa verità. Possiamo vivere
come se niente fosse. Evitarla, non pensarci. Ma la paura della morte ci
impedisce comunque di vivere, ci fa male; è un pensiero tremendo, doloroso,
lacerante, angosciante.
Ma questa
non è la fine in assoluto: dall’altro lato del tunnel buio c’è sempre una luce.
Nel fondo dell’angoscia brilla la Vita. Nel fondo della morte risplende la Resurrezione.
Nel fondo della paura c’è la Fiducia. Se ci fidiamo di andare fino in fondo, di
affrontare le tragedie della vita, della nostra vita, ebbene, proprio lì,
troveremo il senso e la bellezza della vita stessa. E, dopo di ciò, non saremo
mai più quelli di prima. Non saremo mai più gli stessi.
Ecco:
questo, per Giovanni, vuol dire “credere”. Credere è quando noi nel bel mezzo
del buio troviamo la Luce; nel bel mezzo della morte troviamo la Vita; nel bel
mezzo della disperazione troviamo la Forza. Credere è quando noi non ci
sottraiamo alla vita e alle sue tragedie, ma ci passiamo dentro, in mezzo, le
affrontiamo, fidandoci di Dio. Questa discesa ci fa rinascere, ci rende nuovi, ci
cambia completamente vita. Perché guardare in faccia ciò che temiamo, ci fa
nascere in una nuova visione della realtà.
Se noi
smettessimo di voler “razionalizzare” ogni cosa, di voler cercare sempre risposte
convincenti, di voler trovare il filo conduttore di tutto, di pensare e
ripensare, di discutere, di concettualizzare tutto, di stabilire sempre cosa è
bene e cosa è male, e ci aprissimo, invece, al nostro profondo bisogno d’amore,
alla ricchezza delle emozioni che vivono nel nostro cuore, senza reprimere,
senza eliminare, senza paura di affrontare la dipendenza, la rabbia, ma
guardandole in faccia. Se useremo, contro le nostre paure ed emozioni angosciose, tenerezza, comprensione,
misericordia, allora inizieremo veramente a sentirci degni di vivere sul serio;
allora ci sentiremo veramente figli di Dio. Allora capiremo che ai suoi occhi
noi siamo grandi (siamo stati creati da Lui); è Lui che ci vuole grandi, e anche
noi finalmente ci sentiremo tali.
Questa
è la realtà: e per questo dobbiamo smettere di inseguire ideali di vita
distruttivi: le ricchezze, il buon nome, la carriera, il successo, il nostro
apparire esteriore. Non possiamo continuare a vivere così; guardiamoci invece
negli occhi, scrutiamoci nel silenzio dell’anima; prendiamoci l’un l’altro per
mano e diciamoci le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri desideri e tutto
il nostro bisogno di amore; guardiamo i volti delle persone e ammiriamone la
misteriosa bellezza che celano; guardiamo il cielo, sentiamolo “dentro” di noi;
guardiamo gli uccelli e sentiamoci liberi come loro nella nostra anima; guardiamo
il sole e viviamolo nel nostro cuore; facciamo anche solo silenzio, e sentiremo
che c’è qualcosa che ci accomuna con gli altri, che ci rende fratelli: solo
così noi potremo sentire, vivere e percepire il meraviglioso, inebriante e
stupendo fremito che si chiama vita. Chi crede,
vive così. Chi vive, crede così. Amen.
«Se il tuo fratello commetterà
una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà,
avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
La catechesi
del vangelo di oggi - tratta dal “ discorso ecclesiale”, uno dei cinque grandi
discorsi di cui si compone il vangelo di Matteo - intende trasmettere alla nascente
comunità cristiana di allora delle regole ben precise, delle norme, dei
consigli, con i quali tradurre in pratica, in comportamenti di vita, la grande novità
della predicazione di Gesù. Parole che ovviamente noi oggi non dobbiamo
prendere alla lettera, poiché sono state scritte per uomini di oltre duemila
anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, in una determinata cultura
molto diversa dalla nostra.
L’importante
infatti per noi non è tanto rimanere fedeli a delle “regole” contingenti che
mutano nel tempo, ma di fare nostro lo spirito di Gesù, che è quello che rimane
fermo nei secoli.
Cosa
ci rivela allora “lo spirito”, il senso profondo del testo di oggi? Che
dobbiamo riservare agli altri un comportamento di umiltà, di sollecitudine, di attenzione,
di discrezione. Il fatto che Dio sia presente in noi, che abiti nel nostro cuore,
non lo dimostriamo certo attraverso una grande quantità di preghiere o dal
numero di volte che invochiamo il suo nome, ma da come ci relazioniamo, da come
ci comportiamo con le persone, da come stiamo con gli altri.
Così
anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto con il
nostro prossimo, non dobbiamo mai dimenticare, soprattutto in quei momenti, che
il nostro dovere è quello di amare: può succedere infatti che, pur non litigando
mai con nessuno, non arriviamo ad amare nessuno, oppure che, litigando continuamente,
lo facciamo per amore. Tutto dipende se riusciamo ad imparare dalle nostre
esperienze, se facciamo tesoro di quanto esse ci insegnao. Quante persone
litigano per anni e anni sempre per lo stesso futile motivo? Vuol dire che non
hanno mai imparato dalla loro esperienza, non si sono mai domandati il perché del
loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nel loro litigare non
serve, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; non vogliono imparare, non
vogliono crescere. La loro è una lotta tra sordi.
Il
comportamento che dobbiamo pertanto ricavare dalle parole del vangelo, non è tanto
quello della denuncia, del creare uno scandalo a tutti i costi, dello stendere in
piazza i panni sporchi del fratello, bensì quello della carità, dell’amore, del
rispetto che gli dobbiamo: perché se nostro fratello sbaglia, se ha dei
problemi, è esattamente in questi momenti che ha maggior bisogno di noi, del nostro
amore, della nostra amicizia: è soprattutto in questi frangenti che dobbiamo usargli
ancor più delicatezza, gentilezza, attenzione, rispetto.
Questo
infatti ci raccomandano le prime parole del testo: “Se c’è una questione irrisolta fra te e lui... va di persona da lui, incontralo
da solo, a quattrocchi”. Quindi è d’obbligo la massima discrezione: un atteggiamento
completamente nuovo, rivoluzionario, rispetto all’antica legge israelitica che al
contrario imponeva l’obbligo del ricorso immediato alla pubblica denuncia.
Pertanto:
c’è qualcosa che non condividiamo nel comportamento di qualcuno? Notiamo in lui
qualcosa di stonato, qualcosa che riteniamo sconveniente, deplorevole? Andiamo da
lui e parliamone: se non altro andandoci, ascolteremo la sua versione, le ragioni
del suo agire, e forse ci ricrederemo; forse capiremo che le cose non stanno poi
come noi pensavamo. Andiamo e constatiamo sempre di persona: non prendiamo mai
per buono quello che dice la gente. Non comportiamoci in maniera infantile: non
isoliamo, non scherniamo, non mettiamo alla berlina, non crocifiggiamo nessuno a priori. Spesso i comportamenti che noi
condanniamo sono imposti da situazioni, o da cause di forza maggiore, che noi neppure
immaginiamo. Dobbiamo tener presente, inoltre, che molto spesso le persone
agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza e non per cattiveria.
Pertanto,
dobbiamo soprattutto imparare ad “ascoltare” il prossimo. Dobbiamo dargli
credito, dobbiamo dargli fiducia. Per ben quattro volte Matteo insiste sul
verbo “ascoltare”: “Se ti ascolterà...
se non ti ascolterà vai con una, due
persone... se non ti ascolterà, dillo
all’assemblea..., se non ti ascolterà...”.
L’ascolto, il colloquio, il chiarire fraternamente e privatamente qualunque
malinteso con i fratelli, sono le basi per un corretto relazionarsi, sono le
vie maestre della “carità” cristiana: perché la calunnia, la diffamazione, lo
screditare subdolamente gli altri, dire male del prossimo, sono azioni di
chiara provenienza satanica: solo Satana infatti male-dice, soltanto lui è una male-dizione
per il mondo intero; al contrario mettere in luce il bene, incoraggiare,
valorizzare, vedere sempre in positivo, dire bene del prossimo sono cose che
vengono da Dio: egli infatti bene-dice
tutti.
Per
questo dobbiamo fare molta attenzione alle parole che escono dalla nostra bocca:
perché esse rivelano sempre ciò che segretamente coltiviamo nel nostro cuore: se
il nostro cuore è pieno di rabbia, di invidia, di risentimento, di dolore,
dalla nostra bocca non potranno uscire che pregiudizi, maldicenze,
insinuazioni. Se il nostro cuore invece è pieno di Dio, dalla nostra bocca non
potrà uscire altro che espressioni di perdono, di misericordia, di carità, di
amore.
Saper “ascoltare” i fratelli, assume quindi un’importanza
fondamentale. Ma nella realtà, nelle nostre giornate passate con gli altri, come
lo “viviamo” questo ascoltare?
Ascoltiamo veramente o fingiamo di ascoltare? Ascoltiamo quello che gli altri
ci dicono, oppure ascoltiamo soltanto ciò che vogliamo sentire? Riusciamo ad ascoltare
le motivazioni dell’altro anche se dentro di noi abbiamo già deciso che ha
sbagliato? Riusciamo ad ascoltare l’altro anche se noi per principio non cambiamo
mai parere, se non vogliamo mai accettare punti di vista diversi dai nostri? Oppure
lo ascoltiamo se mentre lui parla noi stiamo già pensando a come contraddirlo?
Se abbiamo sempre le risposte pronte per tutte le domande, credendoci
altrettanti Dio? Se siamo più preoccupati di cosa dirà la gente piuttosto che
di lui e di quanto deve dirci?
Certo,
tutto questo non è ascoltare: e se noi
non ascoltiamo gli altri, come facciamo
a dire loro che li amiamo?
La
comunità di Matteo non era perfetta: c’erano sicuramente dei conflitti, delle
incomprensioni, delle liti tra i vari componenti. Per questo egli qui sente il
bisogno di ribadire: “In tutte le
situazioni, ci sia fra di voi l’amore”.
Del
resto non esiste comunità, non esiste famiglia, in cui non vi siano tensioni,
conflitti, scontri: la normalità sta proprio nella con-flittualità: si hanno pareri diversi, discordanti, si hanno
esperienze diverse, ci sono problemi, crisi, difficoltà diverse. Ma non sempre litigare,
entrare in conflitto, equivale a non
amarsi: vuol dire soltanto che c’è diversità di vedute, di opinioni, che ci
sono caratteri con sensibilità magari opposte, nient’altro. È un fatto naturale
e inevitabile, che comunque non deve essere considerato un problema. Semmai il problema
c’è quando due persone non litigano mai: vuol dire che una delle due si è
conformata all’altra, si è spogliata della propria personalità. E non è certo arrivando
a tanto che dimostriamo di amare veramente: ma l’amore in una famiglia, in una comunità,
traspare solo dal modo con cui vengono affrontati e risolti questi conflitti,
queste divergenze.
Il “modo”
è un fattore determinante e decisivo: perché le tensioni e i conflitti sono
ambivalenti: possono cioè essere causa di comunione ma anche di divisione, di
unione o di rottura, di crescita o di separazione. Se infatti partiamo dal
presupposto che in casa nostra deve sempre regnare l’armonia e la pace, se
evitiamo d’autorità l’insorgere di qualunque parere contrario, è difficile, per
non dire impossibile, crescere.
Ci
sono infatti persone che pretendono di vedere sempre tutto roseo intorno a loro:
persone che negano nella loro convivenza l’esistenza di qualunque
conflittualità, pensano insomma che la loro comunità sia esente da qualunque
problema… e questo è già di per sé un notevole problema! Altre persone invece sono
così fragili, hanno un’identità così debole, che vedono in un semplice
contrasto, in una salutare litigata, la fine stessa di un rapporto, un disastro
universale, la prospettiva tragica di rimanere completamente sole. Ma entrambe
le posizioni non rappresentano la normalità della vita.
Non
spaventiamoci allora delle divergenze, delle lotte, dei conflitti. Semplicemente
parliamone con gli altri, discutiamone; accettiamo di essere messi in
discussione. Non è importante chi alla fine vince, anche se lo scopo primo di
ogni nostro intervento e sempre quello di aver ragione. È naturale per noi
essere portati a dominare l’altro, a dimostrare che noi siamo “più” in tutto,
che abbiamo sempre ragione: questo è vero. Ma stiamo bene attenti: perché dove
c’è uno che vince, c’è sempre uno che perde, ed è altrettanto naturale che chi
perde si senta umiliato, sconfitto, messo all’angolo: e questo non è mai
positivo, non produce mai aggregazione, unione.
Per
questo è fondamentale, lo ripeto, ascoltarci:
mettiamoci nei panni degli altri, mettiamoci dal loro punto di vista, usiamo nei
loro confronti grande em-patia,
grande sim-patia; spogliamoci delle nostre
manie, perché se rimaniamo in esse non arriveremo mai ad ascoltare nessuno.
La
maturità del nostro amore non si vede dal fatto che non creiamo mai screzi, che
facciamo tutto insieme con il nostro partner; ma dal confrontarci in maniera
sana nei momenti difficili. È il confronto che ci fa crescere, che matura il
nostro amore.
Di
conseguenza è altrettanto fondamentale imparare a difenderci quando ci
attaccano, a mettere dei paletti quando oltrepassano il limite, ma anche
imparare ad aprirci totalmente quando è possibile e quando troviamo fiducia; imparare
a collaborare senza voler essere superiori agli altri, come pure ad esprimere
quello che abbiamo dentro senza sentirci inferiori a nessuno.
Non c’è
una scuola per tutto questo. C’è una scuola per tutto, ma non per imparare a convivere.
E così le coppie scoppiano (stare in due è già gruppo), le famiglie vivono
malesseri profondi, e le persone che hanno amicizie vere, forti e profonde,
sono sempre meno.
Matteo
per questo ci propone una frase bellissima di Gesù: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere
qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Notare il “mettersi
d’accordo: “ac-cor-darsi”, vuol dire in
pratica avere i cuori che battono tutti alla stessa frequenza; in greco è sin-fonia. L’accordo musicale infatti è
formato da note diverse: ogni nota ha un suono diverso, ma messe insieme
formano l’ac-cordo, la bellezza di
una sinfonia. L’unità è quindi l’accordarsi, è cantare all’unisono con la
stessa melodia, è quando i nostri cuori sono uniti, quando le nostre entità si fondono
nell’intimità, nel segreto della nostra vita. E quando ciò avviene, ci dice il
vangelo, sperimentiamo la presenza di una forza irresistibile, sperimentiamo tangibilmente
la presenza di Dio in mezzo a noi.
L’unione
di due persone non sta tanto nello sposarsi, nel quanto tempo stanno insieme,
nel quante cose fanno insieme, ma nella profondità
del loro stare insieme.
Di
alcuni santi si dice che durante il loro parlare intimo, il loro colloquiare profondo
con l’altro, giunsero ad una unione talmente con-sonante, da perdere completamente la cognizione del tempo:
pensiamo per esempio a san Benedetto con santa Scolastica, a san Francesco con santa
Chiara. Come mai noi nel nostro continuo parlare difficilmente creiamo unione?
Semplice: perché noi non sperimentiamo la forza intima dell’amore, perché i
nostri cuori non vibrano mai in profondità. Parlare del più e del meno, di quello
che si è fatto in giornata, parlare del tempo, del vicino di casa, del lavoro, non
crea unione, non ci guarisce, non ci sana, non ci fa incontrare dentro. Ciò che
ci rende uniti, che ci salva, è quando ci offriamo all’altro completamente, in
maniera totale e disarmante, nella nostra vulnerabilità, nelle nostre paure,
nelle nostre imperfezioni. L’unione nasce infatti dal “metterci a nudo”, dal
farci vedere per quello che siamo realmente, dal donarci vicendevolmente l’anima.
Dobbiamo avere il coraggio di farlo e la fiducia di non essere traditi.
Si racconta
di un giovane monaco che chiedeva all’abate: “Per quanto tempo dovrò aver cura
di mio fratello?”. E l’abate rispose con quattro domande: “Quanto tempo ci
vuole per fare una casa?”. Il discepolo rispose: “Un anno”. “Quanto tempo ci
vuole per fare un albero?”. “Cinque anni”. “Quanto tempo ci vuole per poter fare
un figlio?”. “Almeno quindici anni”. “E quanto tempo ci vuole per distruggere
tutto questo?”. “Un attimo!”. “Ebbene: ci vuole tanto tempo per costruire, ma basta
un attimo per distruggere. Fa in modo che questo attimo non avvenga mai tra te
e tuo fratello”.
Quando
parliamo, quando ci relazioniamo con gli altri, teniamo sempre presente questa
regola e stiamo attenti a quell’attimo, in particolare a quello che diciamo; perché
le parole possono essere come delle bombe: una volta innescate, scoppiano in un
attimo. Amen.
«Va’ dietro a me, Satana! Tu mi
sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt
16,21-27).
Gesù oggi,
per la prima volta, annuncia la sua morte. Egli vuole cambiare il mondo, vuole
cambiare la religione del suo tempo, vuole fare un mondo nuovo: ma per fare questo
deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; egli deve andare là, anche se conosce
perfettamente la situazione: egli sa che dovrà operare in un clima molto diverso
rispetto a quello della Galilea, regione attuale della sua predicazione. Gesù sa
che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui
è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad
ogni costo.
Così,
quando Gesù paventa la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro,
mortale, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Questo non ti
accadrà mai!”.
E qui
scade il Pietro “beato” di domenica scorsa. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù
sta andando nella sua direzione, a Gerusalemme. Deve compiere la sua missione:
e Pietro che fa? lo “trae in disparte”,
lo distoglie, cerca di tirarlo fuori dalla sua strada, lo “tenta”; gli dice: “No,
non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa
quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il
verbo “epi-timao” significa proprio questo.
Praticamente
Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la sua vita, vuol
dirgli cosa deve o non deve fare, e gli grida: “Tu Gesù non capisci, ti sbagli,
non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia
strada”. E in questo momento Pietro è satana.
Gesù
si serve qui della stessa espressione: “Vattene,
satana” che usa col tentatore, col diavolo nel deserto (Mt 4,10). E quel
Pietro che era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”,
ora improvvisamente qui è il demonio. Pietro qui è il diavolo, satana, il
tentatore.
Esattamente
come siamo noi quando ci ostiniamo, ci mettiamo contro, ostacoliamo, resistiamo
al piano di Dio.
Satana
nella Bibbia non è mai nemico di Dio ma degli uomini. È un ostacolo forte nella
strada che conduce a Dio: “satana” (l’avversario),
oppure il “diavolo” (colui che divide),
è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma non è un’entità separata
dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, sono
una nostra proiezione, la nostra longa
manus!
Certo,
il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma
sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono
perché noi li vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, di quando non ci evolviamo
nell’Amore divino; di quando cioè nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e
veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; di quando i nostri
impulsi prendono il sopravvento; di quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima
e ci dominano. Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità
esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto
ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella
nostra vita non riusciamo a spiegarci: sarebbe molto più comodo, piuttosto che
accettare la realtà che tutti noi, e solo noi, possiamo essere “satana”, gli
artefici del male.
Pietro,
per esempio, nel momento in cui oggi si rivolge a Gesù, fa la parte di satana: è
lo stesso, identico demonio con cui Gesù si è confrontato nelle tentazioni dopo
il battesimo. Lì il demonio, con la sua voce interiore, cercava di distrarlo
dalla sua missione; qui il demonio, con la voce di Pietro, fa esattamente la
stessa cosa.
Dopo
la lavata di testa a Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua”. Un invito perentorio, le cui parole cruciali meritano di
essere approfondite.
Prima
di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”;
letteralmente: “dica di no a se
stesso”. Un’espressione che in passato ha fatto pensare che per raggiungere la
perfezione fosse indispensabile rinnegare se stessi, perdere se stessi, ignorarsi;
spendersi, esaurirsi completamente per gli altri, piuttosto che coltivare in
noi quel seme personalissimo di vita che Dio ha posto in noi: per cui esaudire,
ascoltare i bisogni del proprio cuore, appagare i propri desideri, cercare di realizzare
i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, in contrasto con la
fedele sequela di Cristo.
Ebbene,
niente di tutto ciò: quel rinnegare,
quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre
parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a
qualunque cosa ci è d’inciampo sulla strada
che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con
quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe,
alle tentazioni del nostro io-satana
che ci tormenta in continuazione!
Questa
è la nostra croce: la croce- come
dice Gesù – che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti,
indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso.
Gesù
ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è
stato tanto il suo patibolo, la morte in
croce: questo è stato il modo finale, la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha
coraggiosamente portato, è stata quella di essere, lui Dio, fedele alla sua
umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere
del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia
fatta la tua volontà).
E
questa è anche la nostra vera croce:
l’essere anche noi fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre,
senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una
croce pesantissima, in quanto causa di scontri, opposizioni, rifiuto, odio. Ci
saranno giorni in cui le nostre scelte, non allineate con le ideologie di
massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, creeranno intorno a
noi commiserazione, risentimento, odio.
La
nostra croce, insomma, come per Gesù,
è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo alla nostra vocazione,
alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa
non sottrarci alle possibili contrarietà, non ascoltare la voce della paura e del
compromesso.
Poi
Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria
vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”.
La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si
può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste
un’assicurazione-vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive
così, non vive, perché tutta la sua vita è concentrato a conservare qualcosa,
invece che mettere a frutto e sviluppare questo qualcosa.
Prima
o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora
spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di
meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo
che la nostra esistenza ha un senso. Il “suo” senso. Ha prodotto cioè quei
frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è
stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente
Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti
avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”.
Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare
l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo.
Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la
parte di noi interna, spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto,
allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni;
altrimenti no. Possiamo infatti dare tutto ai nostri figli, ma se non offriamo
loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore,
li perdiamo comunque in partenza. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del
mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di
sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia
faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione,
onori, agli occhi degli altri; possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati
da tutti, ma se dentro la nostra anima ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti,
depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci
cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza,
la gioia che viene da un’anima fedele a Dio, riconosciamolo, a che ci serve
tutto il resto?
E Gesù
conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo
verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita
raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce
sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono,
spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così
ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente
all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete indispensabili
per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo
mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci
sentiamo così aridi, così inutili. Se non ci diamo tempo e spazio per stare con
i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se non
comunichiamo interiormente con loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo
così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra
mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se
non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non
capiamo più il mondo, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi o
fuori posto. Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i
nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al
nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è
inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli
le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il
cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso
contare unicamente sulla bontà divina, buttando alle spalle qualunque richiamo
della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di operare? Non vale
forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per sapere almeno riconoscerla quel
giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.
«Disse loro: Ma voi, chi dite
che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»
(Mt 16,13-20).
I discepoli
che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno
potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita,
ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tanta gente cambiare vita, perché egli era
seguito e amato dalle folle; hanno ascoltato da lui parole forti, vive, parole che
svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di
amare, di donarsi, di slanciarsi nella vita.
Nonostante
ciò, nel loro intimo, non riescono a staccarsi dai loro vecchi schemi: sono
ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente
degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle
variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per
questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette di fronte ad una
prova, fa loro una domanda a bruciapelo, per vedere cos’hanno capito di lui: “Va
bene: questo è quello che gli altri pensano di me: Ma voi chi dite che io sia?”.
A questo punto l’imbarazzo, la risposta è desolante, la loro confusione è
totale: ciascuno pensa qualcosa di diverso, c’è un guazzabuglio di idee;
nessuno, in ogni caso, coglie esattamente chi è Gesù.
Gli apostoli
non vedono Gesù per quello che è; lo vedono secondo i loro “vecchi schemi”: come
tutti, vedono in lui un profeta, un personaggio importante della Bibbia. Sono
bei paragoni, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto
Gesù è completamente diverso da tutti, da tutti quelli venuti prima e che
verranno dopo. Gesù non è uno dei tanti profeti: Gesù è il Profeta, è il figlio
di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come
Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una
totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza
e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La
sua è una “proposta” di vita: chi vuole
la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che
trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come
Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro,
rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità,
una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha
sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha
“bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12)
solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente
essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così.
Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse le cose sia dal punto
di vista religioso che sociale, con o senza la forza, una volta per tutte. Ma
Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopruso in Lui.
Gli
apostoli insomma vedevano in Gesù quel particolare personaggio che ciascuno in
cuor suo sognava, quel “profeta” che ammirava, ma non vedevano Gesù.
Gesù
non è profeta secondo il modello del tempo. Gesù è profeta perché mostra il
Padre.
L’autorità
religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed
obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in
regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era uno da temere, da tenersi
buono, perché non si sa mai, magari ci
manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il
proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo
voleva dire sentire in maniera
diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire.
Il Dio
di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di
esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero
autonomo, libero e personale.
Del
resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è
eseguire ciò che uno vuole, ciò che ci comanda, perché questa è schiavitù; obbedire,
in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro (Dio);
obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire
è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire agli altri (e non a Lui) è
farlo morire, lasciarlo sepolto.
Obbedire
insomma vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, ascoltare Dio e
non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla
situazione, seguire la corrente evitando conflitti e contrasti a volte dolorosi.
Sicuramente
gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie
categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il
silenzio che ne segue è perché proprio non lo sanno chi Egli sia veramente, non
l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo
Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro: “No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote
così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In
realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito
cosa volesse dire “Figlio di Dio”. La
novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta
identificativa; quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu
sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù
gli dice: “Beato te, Simone figlio di
Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che
sta nei cieli”. Perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”?
Giona
è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di
quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la
conversione, lui era andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è come Giona (“bar”, suo figlio), sanguigno, testardo come lui; anch’egli andrà
contro il Signore, lo rinnegherà, ma alla fine si convertirà.
E Gesù
conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha
insegnate o te le ha ordinate (carne e
sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima
che pulsa, solo se Dio può parlare liberamente dentro di te (“te l’hanno rivelato il Padre mio che è nei
cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro
di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e
non possono sapere”.
Solo
su questa pietra, pertanto, solo su
questa certezza (che Lui è il
Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun
potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa
è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. Regno dei cieli,
nel vangelo, non significa tanto un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio
vive e si fa vedere, dove si rende visibile.
La
chiave della vera Vita (il Regno di Dio),
è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che
abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita
vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. È in questo modo che i legami di
vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di
ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera nell’Amore
per sempre.
Le
relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo,
incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, ma non l’amore. “A-more” (alfa privativo e mors, mortis) vuol dire infatti “non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore,
vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi
abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione
dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate, perché
è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a
noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci
fa vivere in eterno.
Gli
apostoli, una volta liberi dai loro schemi religiosi, capiscono finalmente chi è
Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui
ci fa vivere! Lui è la Vita! Lui è vivo!”.
E
concludo: nella vita non dobbiamo mai perdere di vista Dio-Amore: deve essere
Lui il nostro vero obiettivo, Colui che merita tutta la nostra attenzione, i
nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere, la nostra
messa domenicale, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a
Lui: anche se efficaci e fondamentali, rimangono pur sempre dei mezzi; e se
questi mezzi non ci fanno vivere, se non
riescono ad andare oltre i semplici “riti”,
se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente
inutili. Non servono a nulla!
Così
quando entriamo in chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per
fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per
consentire alla Vita di scorrere più forte e più viva dentro di noi; perché è
lì, ascoltando le sue parole, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a
scoprire nuovi spazi di vita per noi e per il mondo. Perché, in questo modo,
una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare
la vita: è qui fuori, infatti, nel mondo, nella società e non in chiesa, che siamo
chiamati a tradurre l’Amore in gesti concreti a beneficio dei fratelli. Dio è
Vita e Amore: ed Egli vive ed è presente esattamente dove noi esprimiamo Vita e
Amore. Amen.
«Ed ecco una donna Cananèa, che
veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di
Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse
neppure una parola» (Mt 15,21-28).
Dopo l’attraversata
del lago di Genezareth, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone costituiscono
infatti la “regione pagana” per eccellenza, e Gesù si porta in quei luoghi affinché
anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) si sentano invitati alla tavola del
suo regno.
Ed è
là che incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe
al potere; e anche se i Giudei li consideravano gente inferiore, in realtà erano
superiori ad essi in ricchezza e benessere. Gesù quindi, dando retta ad una
non-ebrea, ascoltandola e curandola, ha voluto dimostrare di essere il medico indistintamente
di tutti ed è venuto per tutti, ebrei e non ebrei.
La
donna dunque si rivolge a Gesù: “Mia figlia è tormentata crudelmente da un
demonio”. Un approccio iniziale piuttosto perentorio, che implica una soluzione
immediata da parte sua. Per questo Gesù finge di non sentirla, non le rivolge
parola! Anzi di fronte alla sua richiesta si mostra indifferente, quasi crudele.
In pratica le dice: “Non mi interessi; non è un problema mio! Non mi seccare!”.
Un atteggiamento, quello di Gesù, che a prima vista potrebbe sembrare negativo:
non ce lo saremmo aspettato, non risponde all’immagine che ci siamo fatti di lui
(sempre buono, disponibile, solerte guaritore di tutti, ecc.).
La
risposta di Gesù, secca e rifiutante, va però letta più in profondità: egli
vuole, cioè, indicarci una delle regole comportamentali che dobbiamo sempre adottare
nel nostro relazionarci col Padre: l’umiltà. Le parole della donna infatti lasciano
supporre in lei la pretesa di un immediato intervento risolutore di Gesù: “se è
coerente con la sua normale prassi di guarire indistintamente tutti i bisognosi,
egli “deve” farlo anche nel mio caso; pretenderlo è un mio diritto”.
Niente
di più sbagliato: nessun diritto da vantare, nessuna pretesa, devono insinuarsi
nella mente di chi si accinge a rivolgere a Dio una preghiera, una richiesta di
aiuto. Questo ci sottolinea Gesù; e questo egli sembra dire alla donna: “Guarda
che le cose non stanno come tu pensi; non è questo il modo di comportarsi: Io non
sono qui per obbedire ai tuoi ordini!”.
Andando
poi ancor più in profondità nella nostra lettura, possiamo ricavare altre
considerazioni interessanti: per esempio, la donna va da Gesù per chiedere la
guarigione della figlia; ma forse è un controsenso, perché l’ammalata sembra
essere più lei che la figlia; è lei che Gesù deve guarire, perché è lei che
deve cambiare il suo atteggiamento “malato” nei confronti della figlia.
Gesù
infatti, con la sua indifferenza, sembra confermarle esattamente ciò: “Tua
figlia non è posseduta dai demoni come tu sostieni: se tua figlia è ammalata è
perché fra te e lei c’è un problema di relazione. Sei tu che devi lavorare e
guarire a questo proposito; non pretendere da me una soluzione magica”. E per
scuoterla, Gesù arriva addirittura a offenderla: “Non è bene prendere il pane
dei figli per gettarlo ai cagnolini”; in altre parole: “Tu sei un cane e niente
pane ai cani!”. Anche qui i soliti benpensanti vedono una grave offesa di Gesù,
che paragona ad un “cane” una donna che dimostra un grande carico di
sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.
Ma
invece di scandalizzarci, dobbiamo chiederci: perché Gesù è così rigido, duro, “cattivo”,
spietato? È proprio necessario? Ebbene sì; in certe situazioni, bisogna essere
tremendamente “ruvidi”, poiché le semplici esortazioni non servono a nulla. San
Benedetto raccomanda all’Abate: “percute
filium tuum virga, et liberabis animam eius a perditione! – picchia tuo figlio col
bastone e gli salverai l’anima” (Regula).
In certe casi la situazione è talmente radicata, fossilizzata,
sclerotizzata che solo un violento strattone può cambiare qualcosa. In certi
casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità
da vedere è così sconvolgente, che non si può andare “con le buone”, poiché per
affrontare certe verità bisogna essere profondamente scossi e motivati.
Se di
fronte a gravi inadempienze non reagiamo positivamente, se rimaniamo indifferenti
e buoni solo perché abbiamo paura di ferire l’altro oppure perché temiamo di
perdere il suo amore, allora la nostra non è “bontà”, ma solo paura,
indecisione, incapacità di educare. Se amiamo veramente, sapremo affrontare per
amore anche quelle situazioni più scabrose, che magari portano a conseguenze che
non vorremmo ci succedessero mai.
Per
sua fortuna la donna cananea capisce il comportamento di Gesù: non si ferma al “no”,
né alla durezza della sua risposta. Avrebbe potuto dire: “Beh, se mi rispondi
così, vuol dire che non sei il maestro generoso che tutti osannano. Un maestro caritatevole
non risponderebbe così, non si permetterebbe mai di trattare i bisognosi in
questo modo”. Lei insomma non fa l’offesa, capisce la lezione; e questo la
salva: “È vero Signore, il pane dei figli non va gettato ai cagnolini, ma anche
i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
Improvvisamente la sua presunzione cade: lei è pagana, ricca, ha cibo e pane in
abbondanza, contrariamente ai Giudei che soffrono la fame; essi però dispongono
di un “altro” pane, hanno la Salvezza, hanno Gesù dalla loro; e lei, ricca, no.
Per questo anche lei, come un cagnolino, aspira ad avere da Gesù almeno le
briciole, di poter anche lei aspirare alla salvezza, esattamente come loro. Lei
soffre per la mancanza “di questo pane”; è una necessità che finalmente la pone
allo stesso umile livello di tanti altri “affamati”. A questo punto la donna non
vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio
disagio, ma si accorge che anche altri, forse proprio a causa sua, soffrono e
stanno male.
Questo
vangelo ci deve aiutare a non assolutizzare il nostro male, il nostro dolore, i
nostri problemi, per non essere come quella donna che vede solo il suo dolore,
e non vede quello degli altri, quello di chi giornalmente è trattato con ingiustizia.
Dobbiamo imparare a guardare a tutte le sopraffazioni che capitano nel mondo, senza
fermarci solamente su quelle che capitano a noi.
C’è poi
ancora qualcosa che deve farci veramente riflettere. La figlia della donna è
malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca nemmeno, non si
comporta come in tutte le altre guarigioni, addirittura neppure la vede. Ammalata
è la figlia, ma lui guarisce la madre.
“Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si
realizzi in te ciò che tu desideri nel profondo del tuo cuore; tu conosci la
verità; sei tu che soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo
qualcosa che tu, in tutta sincerità e umiltà, speri avvenga”. Parole che ci
confermano che la “malattia” della figlia è la madre: è lei che, con il suo
modo di rapportarsi con la figlia, l’ha resa invalida, l’ha resa in condizioni precarie.
E Gesù, che aveva capito il problema, con le sue parole fa pensare all’esistenza
di una situazione familiare ben più complessa. Ovviamente non siamo in grado di
conoscere le vere problematiche di questa famiglia; possiamo però risalire ad alcune
eventualità.
Prima
di tutto il testo non fa riferimento all’esistenza di un padre. Il padre, nella
famiglia, ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei
primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è
accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e
per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che
gradualmente stacca il figlio da questo legame “unico” madre-figlio, in modo da
consentirgli di fare la propria vita, di intraprendere la propria strada. Ma
qui il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non
c’è, il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il
richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall’altra sente il dolore
della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il padre, questi
potrebbe sostenere la propria madre, ma non c’è. Se ci fosse, il papà potrebbe
insegnargli l’autonomia, l’andare nel mondo. Ma non c’è.
Ciò
che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la
madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti nostro Signore non ci
avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno. Quello che un genitore non fa,
non può essere fatto dall’altro. Il padre dona l’energia e i valori maschili
(se li ha!) e la madre l’energia e i valori femminili. Ogni mancanza non può
essere compensata dall’altro. Ci si prova, ma con risultati sempre
insufficienti. Ogni mancanza crea inesorabilmente uno squilibrio, checché se ne
strombazzi oggi con tanta squallida sicumera (sedicenti “famiglie” composte da due
madri, da due patri ecc.!)
Quindi,
tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, allora potremmo
pensare che si tratti di una donna che ha investito tutta la sua esistenza
sulla figlia; una donna che ha cercato di supplire chi non c’è; una donna che
non vive neppure la propria vita, tanto è presa dalla figlia. Il “demonio” che
opprime la figlia, allora, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente
solo in funzione della figlia: troppo amore è infatti talvolta fatale quanto e
forse più della mancanza d’amore.
Altro
particolare: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine
possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che sua figlia
è il prolungamento di se stessa, la sente sua, sente che la figlia continuerà o
farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e quindi rimette in lei tutte le sue
più intime aspettative, i sogni che non sono mai diventati realtà. Usa la
figlia per sé, per dimostrare la sua rivincita nei confronti della società.
Più
sotto infatti viene chiarito questo concetto: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. È
chiaro: la madre non nutre la figlia come dovrebbe, come ne avrebbe bisogno. Siamo
nella situazione opposta alla precedente. La “malattia” della figlia non è
nient’altro che la sua protesta per la “fame” d’amore che la tormenta. La madre
ha altri “cagnolini” a cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé,
dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, e non rifornisce sufficientemente
la figlia di amore autentico.
La
madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi, ha bisogno dello shopping, di
trovare degli svaghi, delle compensazioni, perché non trova soddisfazione dall’essere
madre. Ha bisogno forse di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente.
In ogni caso, toglie il pane dell’amore alla figlia che ne rimane senza. Per
questo la figlia protesta: ha fame d’amore. Tutto qui.
Ciò
che è chiaro in entrambi i casi è che la figlia soffre perché la madre non la
nutre secondo il suo bisogno. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché
la madre si rapporta con lei in maniera non sana.
Per
risolvere la situazione Gesù, infatti, non cura la figlia ma la madre. Quando
la madre è curata, la figlia guarisce: “Da
quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò
che è meraviglioso in questo è che la donna riconosce la verità: “Sì, è vero,
tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i
cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato mia figlia”.
A
volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci dei genitori perfetti. Un figlio
è la cosa più cara che abbiamo (il nostro mito e il nostro modello) e tutti noi
vorremmo che ci dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno
dato tutto e non hanno sbagliato in niente”.
In
realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la
vita è per se stessa imperfetta. Quando ci accorgiamo che i nostri figli
soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e dentro di noi neghiamo decisamente
questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. Se accettassimo che diamo già
un sacco d’amore ai nostri figli, che facciamo tutto quello che possiamo,
quello di cui siamo capaci, quello che siamo in grado di fare, allora potremmo anche
accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave.
Potremmo
accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni,
certi comunque che possiamo cambiare, e che comunque sono figli della Vita.
Potremmo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l’importante
è esserne consapevoli. Potremmo accettare che il nostro amore non è sempre
amore, e lo dobbiamo pertanto elevare.
Per tutto questo dobbiamo
guardare con profondo rispetto e stima a questa donna, perché ha saputo
riconoscere il proprio errore: e per questa sua umiltà la figlia è stata
salvata, e lei stessa è guarita. Ecco: dobbiamo imparare da lei. Amen.