«Il regno dei cieli è simile a
un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di
gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è
simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla
di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-52).
Il
vangelo di oggi ci presenta tre piccole parabole: tesoro, perla e rete. La
prima e la seconda sono molto affini. Anche se Gesù le deve aver dette in
occasioni diverse, il tema è lo stesso: imbattersi in qualcosa di grande valore.
E su queste vorrei fissare l’attenzione.
L’uomo
della prima parabola è un contadino che un giorno, mentre ara un campo, trova un
tesoro prezioso, una grande fortuna: vende tutto quello che ha e compra quel
campo. La seconda parabola racconta invece di un commerciante alla ricerca di
perle preziose. Trovatane una particolarmente splendida, vende tutto pur di
comprarla
Il
primo uomo trova il tesoro casualmente; il secondo, la trova dopo una lunga e
accurata ricerca. Ciò che conta è che entrambi trovano qualcosa dal valore
assoluto, di fronte al quale tutto il resto svilisce. Non c’è prezzo per ciò
che trovano, non c’è niente che tenga di fronte alla scoperta, non c’è
confronto o paragone con nessun’altra cosa di fronte a quella perla e a quel
tesoro.
Entrambe
le parabole ci dicono in sostanza che Dio, il regno dei cieli, non è automaticamente
raggiungibile, è un tesoro che va comunque cercato, perché è un qualcosa di
meraviglioso, di incredibile, un qualcosa che non è paragonabile a niente: è talmente
importante che per ottenerlo è preferibile distaccarsi da tutto quello che
abbiamo. Insomma è una realtà talmente affascinante che ci assorbe e coinvolge completamente:
e quindi dobbiamo puntare e investire tutto in Lui.
Ma in
cosa consiste questo regno dei cieli?
È il Dio che ci abita dentro. Una volta che lo abbiamo incontrato, che lo
abbiamo sperimentato, sarà impossibile lasciarlo. Perché Lui ci stima, ci ama, ci
spinge ad osare, a diventare noi stessi, a realizzarci, a cercare. Ci fa sentire
vivi, vibranti; con Lui ritroviamo la nostra autonomia di vita e di pensiero,
diventiamo liberi, vinciamo le paure, ci incamminiamo nel sentiero dell’autenticità,
e sentiamo il fuoco della vita e dell’amore dentro di noi.
È
impossibile dimenticarlo, perché Dio imprime un segno indelebile dentro di noi.
Quando ci parlano di Lui, su come trovarlo e mantenerlo, sentiamo insistere
continuamente sulla necessità di preghiere, di riti, di liturgie appropriate: ma
Dio non è un qualcosa di statico, fermo, immobile, che aspetta le nostre
incensazioni. Dio è dinamismo, è un “incontro”. A volte casuale, a volte voluto
disperatamente. E, incontratolo, non è difficile seguirlo, non è affatto
impegnativo, non richiede da parte nostra un grande sacrificio: perché Lui con
la sua presenza ci riempie il cuore, la vita, ci inebria, ci fa innamorare, ci
dà ciò che nessun altro può darci. Lui è amore, è passione che travolge, è
necessità di vita. Perché gli apostoli lo seguivano? Perché lui era per loro come
l’aria, era la vita, era tutto.
Dio,
dunque, è il nostro tesoro nascosto: ma
noi? cosa cerchiamo noi? Lui è là che ci aspetta, ma a noi quanto importa? Certo,
se continuiamo a cercare soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, tranquillità, non
ci accorgeremo mai di Lui: il tesoro è lì vicino, ma non lo troveremo mai,
perché cerchiamo altro, siamo attratti da tante altre cose.
Scendiamo
nel concreto: chi o che cosa cerchiamo
noi in realtà? Meglio: dove cerchiamo?
Perché se pensiamo che la felicità risieda in qualche persona, o in qualcosa “fuori”
da noi, cercheremo invano, continueremo a cercare tutta la vita senza trovare nulla,
perché ciò che cerchiamo non è fuori
di noi ma dentro di noi. Il tesoro è nascosto
in noi; siamo noi stessi il tesoro: è
quell’immagine, quella somiglianza divina, impressaci da Dio fin
dalla nascita, che noi con la nostra vita dobbiamo scoprire e fare nostra ad
ogni costo. La perla siamo noi. Ecco perché dobbiamo cambiare metodo di
ricerca, ecco perché la nostra vita deve necessariamente cambiare. Anche se gli
altri ci deridono, anche se ci prendono per fuori di testa.
Anche
i due uomini del vangelo si comportano da folli, da pazzi, pur di entrare in
possesso del “tesoro”: lasciano il certo per l’incerto, vendono tutto quello
che hanno, si liberano di tutto, pur di arrivare a quel tesoro di cui ancora
non conoscono il valore. Cose da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, per i folli,
perché non ci chiede qualcosa, ma pretende
tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale,
lo vuole tutto, lo vuole completo.
Tutte
le cose che possiamo conquistare durante la nostra vita, hanno certamente un
valore, ma è un valore legato alla provvisorietà:
ci coinvolgono sul momento, per poi dimostrarsi effimere, e cadere nell’indifferenza,
nella dimenticanza, nella caducità; perdono insomma la loro attrattiva, il loro
interesse, il loro richiamo. Ci sono anche eventi molto importanti che ci
segnano per tutta vita, è vero; fatti che ci cambiano intimamente, in
profondità: come l’amore sincero del partner, un matrimonio felice, la nascita
dei figli; ma anche queste realtà così vitali sono destinate, prima o poi, a finire,
a concludersi: i figli stessi, pur coinvolgendo profondamente tutta la nostra vita,
non sono per sempre: un giorno anch’essi
se ne andranno. Ebbene, Dio è molto di più di tutte queste cose “transitorie”: più
coinvolgente di un figlio, più importante di un partner, più impegnativo di un
matrimonio. Egli non esclude dalla nostra vita niente di tutto questo; Egli ci
lascia godere di tante cose belle, essenziali per la nostra vita: ma ciò che oggi
dobbiamo capire dal vangelo, è che Lui è la “cosa” più bella in assoluto: che
Lui viene al primo posto nella scala dei valori, è più importante di tutto, al
di sopra di tutto, perché Lui va oltre i nostri limiti: non esiste per Lui un
“termine” temporale, dopo il quale verrà meno, sparirà, lasciandoci soli. Una
volta che l’avremo trovato – e per trovarlo dobbiamo rinunciare a tutto - Egli rimarrà
per sempre nostro, nostro in assoluto,
continuerà ad essere sempre per ciascuno di noi il “tesoro prezioso”, anche oltre il tempo, oltre i nostri giorni
terreni.
Dio infatti
non è un qualcosa di esterno, di altro
da noi; ripeto: Dio non è una preghiera o una professione di fede; non è un credo
o un sistema di riti. Dio è Qualcuno che ci prende totalmente, che ci
coinvolge, che ci vuole trasformare, cambiare, che non ci farà più essere quelli
di prima, che cambierà radicalmente il nostro modo di pensare, di sentire, di
vivere. Dio non vuole un’ora di preghiera al giorno; Dio non vuole una parte
(magari anche grande) della nostra vita: lui la vuole tutta. Lui vuole “sposarsi”
con noi, vuol fare alleanza con noi, vuole
rapirci, prenderci, assorbirci completamente.
Però
per trovare questo Tutto, e concludo,
dobbiamo essere disposti a giocarci il tutto.
Si narra in proposito che un giovane monaco facesse ogni giorno la stessa
domanda al suo maestro: “Come posso trovare Dio, il “tesoro” del vangelo?”. E
ogni giorno riceveva la stessa risposta: “Devi desiderarlo”. “Ma io lo desidero
con tutto il mio cuore, eppure non lo trovo!” insisteva il discepolo. Un giorno,
mentre entrambi si stavano lavando nel fiume, il maestro prese la testa del
giovane tra le mani, la spinse sott’acqua, e ve la tenne con forza mentre il
poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi. Il giorno dopo fu il
maestro a domandare: “Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la
testa sott’acqua?”. “Perché cercavo disperatamente l’aria!”, rispose. “Ebbene:
quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l’aria,
allora l’avrai trovato!”. È tutto chiaro, vero? Se lo cerchiamo anche noi in
questo modo, sicuramente lo troveremo. Amen.
«Il regno dei cieli è simile a
un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti
dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne
andò.» (Mt 13,24-43).
È la
parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i
discepoli non l’abbiano capita, ma perché non vogliono capirla così com’è, non
sono cioè d’accordo con Gesù. Infatti, è una parabola scomoda, per certi
aspetti irritante, perché prospetta una realtà di difficile gradimento.
C’è un
uomo che ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico di notte semina
la zizzania. La zizzania è una graminacea - molto simile al frumento e quindi impossibile
da distinguere finché non arriva a maturazione - i cui grani nerastri sono
tossici e hanno un effetto narcotizzante. Il riferimento al male è evidente. È
naturale che la prospettiva dei buoni (i discepoli) di dover convivere con i cattivi
(i “nemici”di Gesù) non è condivisa dai primi. Sarebbe preferibile metterli immediatamente
fuori causa. Ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania)
a priori, sul nascere, si corre il
grosso rischio di estirpare anche il grano,
poiché le radici di entrambi gli elementi sono strettamente intrecciate l’un
l’altra. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo
tenere l’uno e l’altro”; e soprattutto “Non
sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va coltivato e cosa no.
Praticamente,
con questa parabola, Gesù mette in guardia gli apostoli dalla tentazione,
sempre presente in ogni comunità religiosa, da che mondo è mondo, di sentirsi gli
autentici rappresentanti della buona novella, i soli protagonisti, cioè, in
grado di formare un gruppo di eletti,
di gente superiore, di elementi migliori,che pensano di essere i soli meritevoli
della “salvezza”. Dio però, dice Gesù, non fa queste differenze, non divide i
buoni dai cattivi; Egli “fa sorgere il
suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra
gli ingiusti”.
Per
tutta la sua vita Gesù ha infatti combattuto contro questa “presunzione”, contro
quelli che si ritenevano giusti, bravi, buoni e che condannavano tutti gli
altri come peccatori, come gente persa, sbagliata, da convertire o da
condannare. Farisei, scribi e maestri della Legge erano davvero maestri in
questo: ma la stessa tentazione iniziava ad insinuarsi anche fra gli apostoli, proprio
perché, seguendo il maestro da vicino, si ritenevano in qualche modo superiori
agli altri, più degli altri, e rischiavano di cadere nello stesso errore.
Un
errore, questo, una ideologia, che ha avuto grande seguito nei secoli
successivi, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, quanti “difensori”
della fede e di Dio hanno ucciso, condannato, fatto guerre per estirpare il
male, gli “eretici” del mondo? La fanatica volontà di fare il bene a tutti i
costi, di eliminare ogni male, ha creato guerre sante, rivoluzioni, epurazioni,
stermini razziali, camere a gas, inquisizioni, la caccia alle streghe e le
peggiori crudeltà. Una religione che si ritenga superiore alle altre è una
religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità crea inferiorità, crea
pregiudizi, condanne e divisioni: buoni e cattivi, gente salvata e gente
condannata. Ma Dio, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha mostrato un Dio come
questo; anzi Lui è venuto per tutti, per salvare tutti, proprio tutti.
Cosa suggerisce
allora, in particolare, questa parabola a noi, discepoli di oggi? Che quel campo siamo noi, e che nel nostro campo, nella nostra vita, convivono grano
e zizzania. È un dato di fatto. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di
essere soltanto grano scelto. Siamo purtroppo
anche zizzania, a volte della peggiore, e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci
e amarci anche nei nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di
non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo
predisporre la mietitura finale.
“Sei
grano e zizzania”, ci conferma Gesù. “Se vuoi essere solo grano ed estirpare tutto il non-bene che c’è in te, non ti rimarrà
niente di niente. Accettati con le tue potenzialità, con i tuoi doni, con le
tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Quindi,
non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in
assoluto”.
Gesù,
con questa parabola, vuole infatti rispondere a tutti i perfezionisti, a tutti coloro cioè che pretendono e cercano in loro
stessi il puro bene, il puro amore, la pura fede, la pura
preghiera: tutte cose che da sole, divise dal male, dalla debolezza, dalla
caducità umana, non esistono.
Per
questo motivo dobbiamo individuare bene in noi, quale tipo di perfezione stiamo cercando. È
importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la
volontà di Dio; un altro è mirare alla perfezione
(=“fare-per, fare-per-uno-scopo”) da
“perfezionista”, avendo cioè come
risultato, quello di soddisfare sempre più il nostro “ego”, aumentando a dismisura la nostra autostima, attraverso il
riconoscimento e l’ammirazione degli altri. Il perfezionista, peraltro, è monolitico: divide il mondo in buoni e
cattivi. Punto. Non ci sono mezze misure per lui. La sua vita è continuamente sotto
stress, in ansia; le sue vertiginose aspirazioni lo fanno sentire incompleto,
insoddisfatto, perché in ogni caso la sua ricerca è volta al finito, non all’infinito, a Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato solo all’esterno:
non si chiede mai cosa gli comanda la sua coscienza, cosa gli suggerisce il suo
cuore e, soprattutto, cosa gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
Perfezione, per noi cristiani, è dunque attuare,
concretizzare nella nostra vita, in semplicità e umiltà, quel progetto che Dio
ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma fatto a nostra
misura, che tiene conto di tutti i nostri difetti, di tutte le nostre miserie,
di tutte le nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio
da persone nient’affatto perfette: peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli
non teme i nostri errori; Egli teme invece
quando noi partiamo per la tangente e, insofferenti del nostro stato (un mix di
grano e zizzania), vogliamo diventare “perfetti” oltre ogni misura, pretendendo
di estirpare da subito la zizzania, stravolgendo la nostra “umanità”.
Un
santo monaco raccontava in proposito: «Un giorno anche il demonio volle provare
a creare un uomo. Disse: “Voglio creare un essere perfetto, bello, puro,
incontaminato dal male e dal negativo”. Ma dopo averlo creato lo guardò e
iniziò a dubitare. Aveva gli occhi e poteva vedere le nudità delle donne: “Oddio,
che pericolo”, disse tra sé. Così glieli tolse. Ma aveva anche le mani e
avrebbe potuto usarle per derubare i suoi simili, uccidere e ferire: “Oddio che
rischio”, e gliele tolse. Ma poi si accorse che aveva la mente: e la mente può
essere ancor più crudele, può ingannare, può essere menzognera, può organizzare
crudeltà immani. E così per sicurezza gliela tolse, e per essere sicuro e non
sbagliare gli tolse tutta la testa, “perché non si sa mai!”. Infine si accorse
che l’uomo aveva un cuore: “Oddio!”, questo era veramente il pericolo più
grande. “Un cuore!? Con il cuore può lasciarsi andare alle passioni, può
lasciarsi trasportare dall’ira, può innamorarsi di persone sbagliate, può amare
in modo perverso. È troppo pericoloso il cuore. Per il suo bene glielo devo
togliere”. E così glielo tolse, e dell’uomo non rimase nulla, proprio nulla.
Per salvarlo, l’aveva ucciso».
L’uomo
“perfetto” dunque non esiste: tutti noi siamo esposti ad ogni tipo di prova:
l’importante è superarle e trasformarle tutte in opere d’amore.
Dopo
la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò
le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli
sorrise, ma con un velo di tristezza gli disse: “È vero, ma sono anche vuote”.
Allora
non perdiamo tempo ad angustiarci per non essere puri, immacolati, senza ombra
alcuna. Accettiamo umilmente la nostra debolezza, la nostra imperfezione; concentriamoci
piuttosto sul nostro “grano” da coltivare
e far comunque crescere. Ecco, questo è l’importante; perché possiamo fare un
sacco di bene, possiamo mirare alla perfezione, anche se nella nostra vita, nel
nostro campo, c’è tanta, ma tanta “zizzania”!
Amen.
«Per questo a loro parlo con
parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…»
(Mt 13,1-23).
Siamo
nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Che succede
qui esattamente? Gesù parla in “parabole”, servendosi cioè di storielline
tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli
riusciva più facile (e gli riesce ancora oggi) far capire i suoi profondi
insegnamenti anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la
parabola infatti può essere giudicata puerile, un po’ stupida, da chi si
ritiene “superiore”, da chi la accantona a priori, non volendo lasciarsi coinvolgere;
ma è profondissima e comprensibilissima per chi vi entra dentro con il cuore; se
non la capiamo, vuol dire che il nostro cuore è chiuso, è ottuso: è perché non
la vogliamo capire. “Chi ha orecchi intenda”: c’è tanta luce per chi vuol
vedere, e tanto buio per chi non vuol vedere.
Per
ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo
dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci,
cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da
quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la
nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la
spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo
su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo
decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene:
la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge
sul terreno la semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la
strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai
venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo
è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente
una protezione per quella parte di seme che cade sulla poca terra che li ricopre; ma in fretta il seme inaridirà; in realtà i sassi rappresentano
i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria;
sono le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta
una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto
da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una
vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente
forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse
pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene
soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto
terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto
in tutta la sua potenzialità.
Bene:
noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di
esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per
esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a
finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che,
nonostante tutto quello che ho fatto, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante
volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato,
ma non è successo assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne
rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo
gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero
che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è
sempre una piccola parte che nasce, cresce, e col tempo matura. Quindi di
fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che
proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il
nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un
risultato consolante.
Possiamo
poi entrare nella stessa parabola mettendoci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo
chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno
sono nato? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno
su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà
destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi,
sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora:
“che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In che cosa devo crescere, cosa
devo far vivere, sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella che è
solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? Qual è il mio carisma?” È
molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo che non
si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, è la copia di un qualcosa
che già c’è: è quindi inutile.
Del
resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è
niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io
nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti
dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare,
presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un
seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo
nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una nostra risposta!
C’è
infine una terza possibilità nel leggere questa parabola: quella cioè di
metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porsi sono: “Che
terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso
di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme),
ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo
per esempio questo principio a tutti coloro che si avvicinano a questo “commento”:
è impossibile che esso produca per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni
sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente
pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il
vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti
in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima:
vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle
persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”.
Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora
saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle
adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo
forte e invadente: “Ma credi ancora a queste cose? Ma sì, è uno che parla tanto,
ma non tiene conto che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio
appena nato, morirà. È il terreno “con le
spine”.
Può
darsi infine che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito
di Dio, escano da questa pagina completamente rinnovati; in futuro non saranno
mai più come sono entrati. Il motivo? Perché hanno riconosciuto in queste povere
parole la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso
testo di commento, lo stesso passo del vangelo, hanno ottenuto risultati
diversi: perché sono le persone a non
essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma le credenze, le chiusure, i
blocchi, i pregiudizi delle persone no. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno.
Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del
terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se
noi riconoscessimo di essere insieme tutti e quattro i terreni di questa
parabola? Allora essa ci aiuterebbe comunque ad affrontare e ad accettare,
oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Non
dobbiamo pensare di essere dei falliti, guardando ai frutti negativi prodotti
dalla nostra vita; perché i pochi risultati positivi sono già sufficienti a
dare un senso a tutta una vita.
E
concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non portiamo frutto in ogni settore
della nostra vita. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente aridi.
Dobbiamo certo provare continuamente a migliorare, ad essere più accoglienti,
ma non pretendiamo la perfezione in assoluto: perché anche una piccola parte
sana, una piccolissima parte fertile e fruttifera della nostra anima, deve bastare
ad infonderci coraggio, a farci guardare avanti con fiducia e umiltà: non
deprimiamoci, non rinunciamo a combattere: perché la nostra vita ha comunque un
senso, ha comunque uno scopo, nonostante i nostri fallimenti, i nostri insuccessi,
le nostre aridità. Una piccola fecondità (un terreno su quattro) - ci insegna
il vangelo - è già di suo una grande fecondità. Amen.
«Ti rendo lode, Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti
e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua
benevolenza… Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò
ristoro… imparate da me, che sono mite e umile di cuore…» (Mt 11,25-30).
In
queste parole possiamo cogliere un’esplosione di gioia di Gesù, un momento di
commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore, di giubilo. Succede così quando, nel dubbio, nel buio, nell'oscurità interiore, tutto improvvisamente ci diventa chiaro. Fino a poco prima non riuscivamo a capire nulla; poi in un istante, all’improvviso, tutto diventa comprensibile, semplice, alla nostra portata.
Il
contesto da cui è tratto il testo di oggi, ci dice che Gesù è triste, si trova in un momento di profonda delusione
per la diffidenza di chi gli stava vicino: fa trasparire il volto umano di
Gesù, che, come succede spesso a tutti noi, non capisce e non si dà spiegazione di certi
comportamenti.
Egli fa
il bene ovunque si trova, insegna ad amare, a non giudicare, porta accoglienza
e dignità soprattutto dove non sono mai state sperimentate, guarisce, libera,
aiuta ciascuno a ritrovare il proprio volto deturpato dalle ferite della vita,
a ritrovare il senso di una strada persa o mai trovata, a ritrovare la gioia, l’emozione
di vivere: e come risposta la gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo
attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Del
resto, ripeto, è una situazione molto comune, una situazione in cui viene naturale anche
a noi chiederci: “Cos’ho fatto di male?”. In realtà, nulla.
Ma è
proprio in tale situazione che a noi umani è richiesto un primo salto di qualità nel nostro cammino spirituale: dobbiamo
cioè passare dal fare ciò che facciamo, aspettandoci il riconoscimento degli
altri, al farlo come risposta ad una specifica chiamata di Dio, il cui campo di
esecuzione avviene nella riservatezza e nell’umile nascondimento del proprio io.
Consapevoli
di operare per la sola gloria di Dio, non dobbiamo dimenticare le parole che
Madre Teresa diceva a questo proposito: “Quando fai il bene, gli altri diranno
che lo fai per motivi egoistici, per secondi fini, ma tu continua a farlo.
Quando hai successo nel bene, ti fai dei falsi amici e dei veri nemici, ma tu
continua ad averlo. La sincerità e la franchezza ti rendono vulnerabile, ma tu
continua ad essere sincero e franco. Quel che hai costruito in anni di lavoro
può andare distrutto in una notte, ma tu continua a costruire. Del tuo aiuto c’è
realmente bisogno, anche se la gente ti attacca proprio quando l’aiuti; tu
però, aiutala ugualmente. Da’ al mondo il meglio di te; ti tratteranno a pesci
in faccia, ma tu continua a dare il meglio di te”.
Purtroppo,
al contrario, quando non abbiamo un motivo valido per vivere, quando sentiamo
che la nostra vita è inutile o quando, semplicemente, non siamo in grado di
reggere le difficoltà del cercare la verità, del trovarla di persona, succede
che ci vendiamo a qualche ideologia; troviamo cioè motivazioni pseudo religiose
che ci esaltano a livello umano, portandoci a condurre una vita che pensiamo
sia meritoria, nobile, retta e santa. E non ci accorgiamo che così facendo, gratifichiamo
soltanto il nostro amor proprio. S. Teresa d’Avila diceva: “Dio ci liberi da
quelli che vivono in un certo modo credendo di essere dei santi; se quei tizi non
fossero così fermamente convinti di essere santi, sarebbe molto più facile
convincerli del contrario!”.
Ciò
che stupisce nel vangelo di oggi è la reazione di Gesù: in una situazione di profonda
delusione, di scoraggiamento, lui – invece di recriminare - innalza un inno
alla vita e si lascia stupire da ciò che il Padre fa. Egli non cade nella
trappola del negativismo: vede il male, vede l’ottusità e l’oscurità della gente,
ma sa vedere soprattutto il bene e la meraviglia che comunque c’è nel mondo.
C’è il
male nel mondo? Certo, e più cerchiamo, più ne troviamo. C’è il bene nel mondo?
Certo, e più cerchiamo, più ne troviamo. C’è negatività nel mondo? Oh sì
tantissima, e più la cerchiamo, più la troviamo. C’è positività nel mondo? Oh
sì, tantissima, e più la cerchiamo, più la troviamo. Tutto quindi dipende dai nostri
occhi, da cosa vediamo. Cosa cerchiamo esattamente? Perché alla fine vedremo e troveremo
soltanto ciò che noi “vogliamo” vedere e trovare: nient’altro.
Quando
ci guardiamo allo specchio, cosa vediamo? Se pensiamo di riflettere un bel
sorriso con i denti allineati, una pelle perfettamente liscia e tonica, magari
non li troviamo. Ma se vogliamo cercare le rughe, le troviamo tutte. Quando
guardiamo nostro figlio cosa vediamo? Se vediamo che non si è laureato, che non
si è affermato come noi volevamo, ci sentiamo profondamente delusi e ci diciamo
che, come genitori, abbiamo fallito. Se guardiamo invece che sta crescendo con
sani principi, che affronta apertamente e con grande forza interiore le
contrarietà della vita, che fa con entusiasmo e in piena libertà le sue scelte,
allora non possiamo che gioire ed essere orgogliosi di quel nostro figlio. Perché
noi troveremo sempre ciò che cerchiamo.
Lo
stesso succede con quello che ci succede nella vita: una crisi, una malattia,
può essere un dramma, ma anche una grande occasione di riscatto. Niente è
veramente negativo; tutto dipende dai nostri occhi. L’essere pessimisti oppure ottimisti
non dipende da ciò che ci succede intorno, all’esterno, ma da ciò che noi abbiamo
dentro.
Una buona
fortuna? Una cattiva fortuna? Chi lo sa? Lasciamo fare alla Vita.
Ciò
che Gesù sta vivendo per colpa della gente non è affatto bello né tantomeno gratificante.
Eppure tutto questo non gli impedisce di tenere un cuore capace di stupirsi, di
meravigliarsi, di cantare, di gioire, di sorridere e di amare. Con l’aria che “tirava
attorno” non c’era poi tanto da ridere: eppure Gesù era capace di sorridere, era
capace di tenerezza, di abbracciare, di cantare, di stupirsi e di benedire.
Non
permettiamo che i fatti della vita induriscano o inacidiscano il nostro cuore.
Teniamolo vivo; teniamolo libero.
Fare esperienza
di Dio è una cosa talmente grande, così sublime, che l’unico sentimento che
possiamo trovare è lo stupore: “non ho parole…!”. “Mistica” infatti, dal greco miein, vuol dire proprio questo: “Non
ci sono parole, è troppo grande”. Ebbene, lo “stupore” è il poter vedere la
forza e la bellezza della vita, al di là di ciò che ci succede, al di là di ciò
che ci sembra. Lo stupore è una questione di fede: vediamo i problemi, le
difficoltà, il negativo, ma non permettiamo che tutto questo distrugga ciò che
siamo, la nostra felicità, la nostra serenità; soprattutto distrugga il Dio che
abita dentro di noi.
Lo “stupore”
è fare l’esperienza che c’è un di più che ci supera, e lasciare che questo di
più ci entri dentro. Non è il saperlo con la mente, ma il lasciarsi coinvolgere
con il cuore. I bambini vivono di questo.
I
bambini infatti non sanno che la mamma li ama, lo “sentono”. I bambini guardano
una foglia, le stelle, un gatto: e dietro tutte queste cose vedono un mistero: e si stupiscono, sorridono, e amano.
Un
giorno chiesero ad Einstein quale fosse la forza che lo aiutava nel suo
continuo studio. Rispose: “L’unica forza che mi spinge nella vita e nel lavoro,
è lo stupore, la meraviglia che trovo di fronte alla natura”. Una tradizione
araba dice che “il mondo non finirà, fintantoché ci sarà anche un solo uomo che,
alzandosi al mattino, guarderà il sole e loderà Dio per questo”.
Lasciamoci
stupire da quello che ci circonda! I mistici talvolta dicevano: “Signore sono
talmente pieno di gioia che potrei morire”. La vita, dono di Dio, è talmente bella,
grande, colma, ricca, entusiasmante che, anche quando a volte è tragica, merita
comunque di essere vissuta pienamente e con riconoscenza.
Se noi
lasciamo che il volto, il cuore di nostra moglie ci entri dentro, allora la
vita è amore. Se lasciamo che il cielo, le stelle, ci entrino nel cuore, allora
la vita è piena. Se lasciamo che la passione per una giusta causa ci invada,
allora la vita è significativa. Se ci lasciamo toccare dalle parole di un uomo,
allora sentiremo che la vita è comunione. Se ci lasciamo toccare dal pianto,
dalla sofferenza di un uomo, allora sentiremo che la vita è umana. Se ci lasciamo
toccare da ciò che vediamo, da ciò che sentiamo, da ciò che succede, allora certo
non capiremo Dio - perché nessuno lo può capire - ma sapremo che lui c’è. Se
viviamo così, ricevendo, accogliendo, imparando, allora la vita sarà sempre
ricca, sarà sempre piena, sarà sempre colma, sarà sempre leggera: e vivere sarà
decisamente bello.
Gesù,
con le parole di oggi, si rivolge a tutti gli affaticati e gli oppressi.
Chi erano? “Affaticati e oppressi” erano tutti quella povera gente che non
riusciva a sostenere il culto pesante della legge ebraica, con le sue
prescrizioni, le sue decime (per i poveri
era praticamente impossibile essere bravi religiosi). Ai nostri giorni “oppressioni”
possono essere tutte quelle false “costrizioni” religiose a cui ci siamo incatenati;
costrizioni che non ci lasciano amare, che dopo certi errori ci condannano inesorabilmente.
Ebbene, proprio perché siamo “oppressi” da tutte queste nostre “infatuazioni”
formali, proprio perché esse ci condannano, ci costringono, Gesù ci chiama per
andare da lui. E Lui ci accoglie, perché aspetta proprio noi, gli “oppressi”.
E
tutti in qualche modo siamo oppressi: per alcune persone, oppressione è il non
riuscire a venir fuori da certi tunnel. Un uomo, per esempio, non riesce a
smettere di bere: ci sta provando davvero, ce la mette tutta; per un po’ ce la
fa, ma alla prima frustrazione ci ricade. La sua volontà è inefficace, forse perché
troppo ferita. Allora si sente indegno di Dio. Ma Dio accoglie proprio tutti gli
affaticati e oppressi.
Per
altre persone, oppressione è il pretendere l’impossibile da se stessi. Una
donna è stata abbandonata dal marito, ha due figli adolescenti, e non è facile
educarli da sola. Lei ci prova ma si accorge che non ce la fa, si accorge che per
il suo carattere le è impossibile essere dura di fronte a certe scelte dei
figli. Allora si addossa tutte le colpe e si sente una cattiva madre; è
oppressa da questo peso; ma Gesù che la conosce e vede tutto il suo impegno, la
chiama a sé, perché non si giudichi troppo e sia contenta di tutto quello che
fa.
Gesù è
la casa di tutti quelli che faticano a vivere, di tutti quelli che si sentono
feriti, di tutti quelli che sono oppressi da pesi e dolori grandi.
E
allora, quando ci sentiamo così, andiamo da Gesù. Lui è sempre pronto ad
accoglierci; da Lui potremo trovare sempre un po’ di pace e di ristoro. Andiamo
da Gesù: urliamogli tutto il nostro sdegno, le nostre amarezze, le nostre
difficoltà. Andiamo da Gesù e sfoghiamo la nostra rabbia; urliamo il nostro
peso, piangiamo il nostro dolore, gridiamogli l’ingiustizia degli uomini. Lui ci
ascolterà; ci darà forza per andare avanti e luce per trovare altre soluzioni.
Amen.
«…Ma voi, chi dite che io sia?
Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt
16,13-19).
Oggi
la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti
della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto
da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro
di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per
incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo,
averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare
senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il
motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo
ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate
da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche
senza Dio.
Diciamocelo:
per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non
ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso.
Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo
crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a
noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio per noi?
Il
vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto
della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella
domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il
catechismo su di Lui?; cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui?; cosa se ne
dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non
abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo
giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente,
in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige
tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige
semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole
che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu
sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso,
significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei
ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando
infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci
se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo
felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della
nostra vita”.
Gesù
non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la
tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il
tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro,
Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno
praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro
Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi
tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso
viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci
sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di
paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima
temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più
paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare
queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo
sperimentato la vera vita”.
Questa
risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali,
dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il
frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di
persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in
gioco la loro vita.
Le
grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il
ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della
passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando
Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha
dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E
se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In
genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare
le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta.
Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare.
Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il
nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta, perché pianificare
e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del
raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente
che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà
dopo.
Pietro
ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è
veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di
pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si
tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di
seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è
che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo
solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che
si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta
in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e
famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo
contro tutti quelli di buon senso. E
perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché
sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione
vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più.
Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e
basta!
Questo
è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una
decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se
seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi,
pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il
“buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo
avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di
fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi,
ancorati in porto.
Dio è
un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge.
Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se
stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso
sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più
facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona
azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo
fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù
dice: “Beato te, Simone, perché il Padre
mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La
fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico,
analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti, perché si è esperti in teologia; si danno
perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti,
risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una
mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore:
“Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”.
La sua è una fede sicura, una roccia;
è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante
ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo
tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”?
Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato
personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità,
il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta
può farci anche cadere; ma ci fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta;
ci fa guardare nuovamente in avanti, ci fa ripartire con decisione, con la stessa passione
di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”,
fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio,
rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione,
la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il
nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la
nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti,
noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché
tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati
dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per
carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il
sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica
che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi,
realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile,
dell’ozio, dell’indifferenza.
Il
nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore,
al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di
riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e
di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori;
dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene,
respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni”
di viaggio e di avventura.
Vivere
la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa
uomini e donne veri fino in fondo;
perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci
porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo
paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è
vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al
centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un
senso.
Dio ci
ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della
potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha
incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre.
Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci
sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un
fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non
esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci”
ma non “la fine di tutto”. Il mistero
della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per
chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli
che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno
mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole
cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha
paura.
Solo dopo
aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo
allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare
Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e
vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto
ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.
«Io sono il pane vivo, disceso
dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è
la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58).
La
festa liturgica di oggi è abbastanza recente. Risale al 1264 quando il Papa
Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini in ricordo del miracolo successo al
sacerdote boemo Pietro di Praga: questi dubitava che nella Messa ci fosse la
presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del
vino; per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba
dell’apostolo Pietro. Durante il viaggio di ritorno in patria, fece sosta a
Bolsena per la celebrazione eucaristica: e qui, alla frazione del pane, l’ostia
diventò miracolosamente carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue. Pietro,
impaurito da tale fenomeno incredibile, avvolse tutto nel corporale di lino e
nel fazzoletto purificatoio, posti sull’altare, che rimasero entrambi
vistosamente intrisi di sangue, e fuggì in sacrestia. Durante il tragitto alcune
gocce di sangue caddero anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare.
Se andiamo ad Orvieto, nel famoso duomo, possiamo ancora oggi ammirare e
venerare questi oggetti sacri macchiati di sangue, come pure le lastre di marmo
sulle quali sono ancora visibili le tracce di sangue cadute per terra.
In
questa festa del Corpus Domini, dunque, la Chiesa ci ricorda che nel pane e nel
vino consacrati c’è veramente il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando noi “mangiamo”
il pane consacrato, non mangiamo soltanto un pezzo di pane ma ci nutriamo e ci incontriamo
a tu per tu con Lui. Durante la messa noi celebriamo un sacrificio: il dono che
Gesù fece di se stesso per la nostra salvezza, offrendo la sua carne “per la
vita del mondo”. “Fate questo in memoria
di me”.
Il
vangelo parla più volte di “mangiare la
carne” e “bere il sangue”.
Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben comprenderne
i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse, furono tacciati anche
di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del resto, il verbo trðgw, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare. Quindi quando venivano
riproposte queste parole di Gesù, la gente estranea pensava giustamente che i cristiani
mangiassero realmente carne umana.
Gesù,
invece, vuol dire tutt’altra cosa. Con queste parole Egli invita i suoi discepoli
a diventare una sola cosa, un
tutt’uno, con Lui e in Lui, esattamente come il pane mangiato diventa noi, e
noi diventiamo il pane mangiato: in altre parole il cibo assunto, una volta metabolizzato,
diventa noi stessi: forza, vigore, azione, produttività. Non a caso, quando due
si amano veramente, si dicono: “Ti mangerei”; perché il “mangiare” l’altro,
produce appunto l’unione perfetta, l’unione ideale più ambita,la fusione totale
di due esseri in uno: Io in te, tu in me.
In
quest’ottica, pertanto, nel mangiare l’Eucaristia, ciascuno di noi è chiamato a
lasciare il suo “uomo vecchio” per diventare “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui. Dobbiamo lasciare il nostro “io”, la nostra identità, per
diventare il corpo di Cristo, per assumere la sua identità, l’identità del “Dio
in noi”.
E non
si tratta di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il prendere
cibo: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio, un’assimilazione, lenta,
studiata, progressiva.
In altre
parole una “conversione”, un diventare “l’Altro”. Nei vangeli, tutti quelli che
hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli stessi di prima. La loro è stata
un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra “esperienza”? Cosa
ha cambiato Dio nella nostra vita? Quanto, dove, come, Dio ci ha “sconvolto”
l’esistenza? Che fuoco ha acceso dentro di noi? Quali paure, quali blocchi
psicologici, quali “infatuazioni”, Dio vuole che superiamo?”.
Se non
si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che non abbiamo una vera,
autentica fede. Vuol dire che se continuiamo ad essere “noi stessi”, se
continuiamo a rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, non potremo
mai diventare “Lui”. Un minimo di buona volontà, di coerenza, di
coinvolgimento, ci deve pur essere: per il resto, “sufficit tibi gratia mea” –
dove tu non puoi arrivare, ti verrà in aiuto la mia grazia.
Il nostro
“incontro” con Gesù, che noi riviviamo in ogni Eucaristia, è pertanto un incontro
di “comunione”: Egli cioè offrendosi
a noi in cibo, in alimento, permette alla nostra “materialità”, al nostro essere “carnali”,
la trasformazione in “esseri spirituali”:
assumendo cioè il suo “cibo di vita”, noi arriveremo gradualmente a vivere
della sua vita vera.
Ma
come è possibile? Gesù parte da una semplice constatazione: la vita si mantiene,
grazie al “dono” da parte di altre vite; noi, per esempio, non ci siamo dati la
vita da soli: siamo nati, siamo entrati nella vita, grazie ai nostri genitori!
Nostra madre ha pianto, sofferto, si è preoccupata per noi, ha perso notti,
riposo, ha sacrificato “anni di vita” per noi: è il suo dono. Nostro padre ha
lavorato, si è sacrificato, ha fatto molte rinunce per noi: è il suo dono per noi.
Noi respiriamo l’aria del cielo: è il dono del cielo per noi. Siamo cresciuti,
abbiamo rinvigorito la nostra vita mangiando carne, frutta, verdura, ecc.: un
dono di altre vite e della terra per noi. Tutto quello che riguarda la nostra
vita, pertanto, è un dono di altri: e per potersi conservare, è necessario che
altri continuino a sacrificarsi.
La
vita peraltro non è nostra: non è mia, non è tua: non è di nessuno. È un dono
che ci viene fatto, ma non la possediamo. La vita è il dono che Dio ci fa; di
conseguenza, il modo con cui la viviamo, è il dono che noi facciamo a Dio. E
come ci è stata donata gratuitamente, così anche noi, vivendola degnamente, dobbiamo
farne dono gratuito ad altri.
È proprio
qui che sta l’essenza della felicità: infatti il motivo per cui tanti uomini e tante
donne sono infelici, sta nel fatto che non hanno un traguardo valido, un motivo
profondo, per cui valga la pena di vivere. Hanno la vita (un dono) ma non sanno
metterla a frutto (non la spendono per gli altri), e la dissipano giorno dopo
giorno.
Presi
dall’euforia della mediocrità, dell’apparire, pensano di essere eterni. Ma
sbagliano di grosso. La nostra esistenza è come una candela: una volta accesa,
si consuma. La vita è così: un arco che nasce, cresce, arriva all’apice,
decresce, muore. E non abbiamo altre vite di riserva o di scorta. La vita è una
sola e passa, ci piaccia o no; non si può conservare all’infinito: è illusorio
pretendere di fermarla con falsi accorgimenti: possiamo ricorrere a lifting di
ogni genere, a liposuzioni estreme, ad interventi ripetitivi di chirurgia
estetica; possiamo fare incetta di titoli onorifici, di fama, di gloria; possiamo
accumulare denaro e rendite: è tutto inutile, prima o poi la fine arriva per
tutti. Totò diceva: la morte è la grande “livella”, rende tutti uguali. È così.
Ecco allora
l’importanza di avere un progetto valido di vita, una missione da compiere, una
fondata ragione per vivere: cosa
pensano di risolvere quelli che tirano a campare, che si lasciano vivere nei
bar, nelle chiacchiere, nei giudizi malevoli, nelle critiche velenose, che
passano il loro tempo davanti alla tv, nelle continue liti e beghe, pur di fornire
qualche apparente emozione ad una vita che di emozioni non ne ha, ad una vita
completamente arida?
Inutile
scuotere il giogo: il momento delle risposte arriva anche per noi: e dovremo darcele,
guardando in profondità, in faccia a noi stessi: “È in questo modo che voglio vivere la mia vita? Ne vale proprio
la pena?”. Già, perché spesso la gente, e noi per primi, “buttiamo via” la vita
per delle cretinate. Non ci rendiamo conto che la vita, invece, è un dono
grande... un dono che non si può buttare via impunemente. Se solo pensassimo a quanto
sarebbe diversa, se la innestassimo direttamente a quella di Dio!
E, in
proposito, Gesù in ogni Eucaristia continua a ripeterci: “Prendete, questo è il
mio corpo; prendete, questo è il mio sangue” (Mc 14,22-23). Che in estrema
sintesi significa: “Figlio mio, la tua vita è un dono e l’unico modo di viverla
è che tu faccia come ho fatto io, che tu viva questo dono che ti ho fatto, donandoti
a tua volta. Fai della tua vita un dono per il mondo”.
Ma
cosa dobbiamo fare in particolare per vivere come Gesù ci ha insegnato? Tutti i
vangeli nel descrivere l’istituzione dell’Eucarestia, o la moltiplicazione dei
pani, si servono immancabilmente di tre parole sempre uguali: prendere, benedire, spezzare.
Evidentemente
attribuiscono a tali parole una particolare importanza, le considerano dense di
significati e di simbolismi. Ed è proprio in tali parole che anche noi, ogni
volta che celebriamo l’Eucarestia, possiamo ritrovare il senso autentico del nostro
originale programma di vita, quello che Gesù stesso ci ha chiamati a svolgere e
a vivere:
1) Prendere: Gesù, nella moltiplicazione
dei pani, prende quel poco che c’è:
sono ben poca cosa 5 o 7 pani e pochi pesci, di fronte ad una folla enorme da
sfamare. Avrebbe potuto dire: “Che ce ne facciamo di tanto poco?”. Invece
prende quello che c’è, anche se è pochissimo, anche se è senza valore, anche se
è insufficiente per quanto gli serviva. Anche noi pertanto dobbiamo imparare a
prendere in mano il poco che siamo. Noi invece non accettiamo quel poco che
siamo; vorremmo sempre essere “altri”: per questo accampiamo scuse e rimandiamo
continuamente ogni impegno; siamo sempre inconcludenti: “Se fossi così, se
avessi questo o quello, se non mi fosse successa quella cosa, se gli altri fossero
diversi, se avessi saputo...”. Dio però ci ha voluti così come siamo: e anche
se siamo insufficienti, egli ci offre l’opportunità di fare della nostra vita
un miracolo, il “nostro” miracolo. Dobbiamo partire da quel poco che siamo,
accettandoci. Siamo così e andiamo bene così. Se Dio ci avesse voluti diversi
ci avrebbe creati diversi, ma avrebbe voluto da noi anche cose diverse. Per cui
ogni mattino, quando ci alziamo per iniziare una nuova giornata, diciamo: “Sì,
Signore, io sono io, vado bene così. Non devo essere “diverso”, non devo essere
uguale all’altro. Mi accetto così come sono, perché con il tuo aiuto so di
poter fare grandi cose!”. Così pure dobbiamo accettare gli altri per quel che
sono, con la loro personalità, con i loro pregi e i loro difetti, perché amare gli
altri, significa proprio questo: “Tu sei così, sei questo, e ti amo così come
sei. Volerti cambiare ad ogni costo, volerti diverso, vorrebbe dire amare
qualcun altro che non sei tu”.
2) Benedire, ringraziare. Eucarestia vuol
dire proprio ringraziare, benedire, dire
bene. E noi dobbiamo ringraziare Dio perché ci considera una cosa bella, una
cosa buona: fin dalla creazione del mondo, ogni cosa da nasceva dalle sue mani,
era “tov”, era cosa bella, buona.
Anche
noi, in quanto creature di Dio, siamo pertanto “tov”, siamo una cosa bella, una cosa buona. Per questo dobbiamo benedire, ringraziare Dio; dobbiamo
ringraziarlo perché siamo sinceramente convinti di essere “tov”: di essere cioè per Dio delle creature veramente belle e buone.
Amiamolo e ringraziamolo per come ci ha fatti; è inutile cercare e invidiare negli
altri ciò che noi non abbiamo; ma ammiriamo e apprezziamo quello che abbiamo e
che siamo. È il punto di partenza per costruirci sopra la nostra vita.
3) Spezzare. Io sono un dono per me e per altri.
Un dono è qualcosa di atteso, di cercato, di desiderato. Essere dono vuol dire
che il mondo ha bisogno di noi, ci aspetta, vuole noi. Essere dono vuol dire
che noi siamo importanti per questo mondo. In che modo? Amando i fratelli,
“spezzando” la nostra vita per loro. Amare significa proprio questo: “spezzarsi” per gli altri; non nel senso
di spezzarsi in due dalla fatica o di distruggersi per gli altri, ma di fare
della nostra vita un dono.
Ogni
volta che andiamo a messa, noi ci “prendiamo in mano”, ci “benediciamo” e ci “spezziamo”.
“Ci trasformiamo”, cioè, come il pane e il vino, in dono di Dio.
Noi siamo
un dono, un tesoro, siamo preziosi... ma spesso non lo sappiamo. Tutto è dono: il
dono di Gesù è di averci fatto conoscere il Padre (la conoscenza di Dio); il
dono del Padre è averci inviato Gesù su questa terra. E noi cos’abbiamo da
donare? Da quale ricchezza iniziale dobbiamo attingere? Che “albero da frutto”
siamo nella nostra vita? Pensiamoci e provvediamo di conseguenza! Amen.
«Dio ha tanto amato il mondo da
dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma
abbia la vita eterna» (Gv 3,16-18).
Oggi è
la festa della Trinità. Ma cos’è la Trinità? Cosa vuol dire che Dio è Padre, Figlio
e Spirito Santo? Cerchiamo a grandi linee di conoscere questi tre aspetti di
Dio.
Dio è Padre,
ed è in cielo: lo abbiamo conosciuto attraverso suo figlio; abbiamo cioè capito
che Gesù ha un Padre, perché parla spesso con Lui, si rivolge a Lui
amorevolmente; è un Padre che è sempre presente nella sua vita, anche se talvolta
assente: per esempio lo ha riconosciuto esplicitamente in varie teofanie, ma poi
non è intervenuto a salvarlo dal supplizio della croce, nonostante egli lo
avesse pregato intensamente. Un Padre che è anche nostro Padre, pur non correndo
sempre a risolvere immediatamente i nostri problemi. Egli sa veramente ciò di
cui abbiamo bisogno: i suoi disegni sono diversi dai nostri; ma è Lui che dobbiamo
pregare, come Gesù stesso ci ha raccomandato e insegnato: è insomma un Padre vicinissimo
anche se può apparire talvolta lontano; è quaggiù e lassù, al di fuori del
tempo e dello spazio.
Dio è
Figlio, è il Dio che si è fatto uomo in Gesù, accettando in tutto la nostra
condizione umana su questa terra. Gesù Cristo è il Dio che si incarna nel tempo
e nello spazio della storia, che prende forma, umanità, visibilità. Gli
apostoli e i primi cristiani lo hanno conosciuto di persona: hanno sentito le
sue parole, hanno ascoltato le sue parabole, hanno visto i suoi miracoli, hanno
toccato con mano la sua forza, la sua passione, la sua verità e non hanno avuto
dubbi: “È veramente il Figlio di Dio”. E infine la sua resurrezione dai morti ne
ha dato ampia conferma: poi però, dopo essere apparso per confortarli, se ne
va.
Lo
Spirito è invece il Dio che sarà sempre presente tra noi. I primi cristiani, subito
dopo la partenza di Gesù da questo mondo, lo hanno sperimentato – e anche noi
continuiamo a sperimentarlo - in una maniera nuova, difficile da capire e da
comprendere; Gesù è sempre presente dentro di noi come Spirito, come energia,
fuoco, ardore, speranza, lotta, fiducia. Il Dio Amore che lega
indissolubilmente Padre e Figlio, continua a vivere in noi, come in ogni
creatura.
Ebbene,
queste esperienze di Dio, vissute dagli apostoli e dai primi cristiani, diviene
nel corso degli anni il dogma della Trinità: l’Unico Dio, cioè, vive in Tre
persone, distinte, diverse, ma non separate; è sempre lo stesso Dio, che vive e
che è presente in modalità diverse, Uno e Trino.
Ogni
volta che noi ci facciamo il segno della croce non facciamo nient’altro che
invocare questo dogma, questa verità di fede: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questa
è dunque la grande verità: Dio è Famiglia, è più persone. Le tre persone della
Trinità sono in un continuo dono reciproco d’amore, in una continua “relazione”
fra di loro. Una relazione che caratterizza il loro essere, la loro essenza: non
esiste l’una senza l’altra.
Sant’Agostino
nel suo De Trinitate definisce così
la Trinità: il Padre è l’Amans, il
Figlio è l’Amatus e lo Spirito Santo
è l’Amor. C’è insomma un Dio che fa
il “Padre”, l’amans, l’amante, colui
che dona. C’è un Dio che è donato, il “Figlio”, l’amatus, il dono. E c’è l’amor,
lo “Spirito”, la relazione d’amore che li lega insieme.
Dio quindi
è Relazione, è rapporto, è connessione, è unione: «Dio ha tanto amato (gapw) il mondo, da donare (d°dwmi) il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
La
festa della Trinità ci fa capire che tra due persone, fra me e te, quello che conta
di più, quello che è più importante, non sono né io né tu, ma è la relazione che
intercorre fra di noi. Non siamo cioè noi, presi individualmente, che rendiamo
felice l’unione tra due persone, non sono le nostre qualità personali, ma è la
qualità del nostro rapporto, è il “come” ci relazioniamo.
La
maggior parte delle persone pensa, ad esempio, che la felicità coniugale dipenda
dal trovare o meno la “persona giusta” con cui condividere la propria esistenza.
Condiziona cioè il raggiungimento della felicità di una vita, all’incontro con
uno che detenga un “pacchetto magico della felicità” già pronto e confezionato.
Ma il principe azzurro non esiste, è un personaggio delle favole. Non possiamo demandare
ad altri la responsabilità di farci vivere felici. È un traguardo che va
costruito insieme: perché ciò che rende una vita meravigliosa non sono gli
altri, per quanto buoni siano, ma è la qualità delle relazioni che noi instauriamo
con loro. Pensiamo infatti solo per un attimo: cosa succederebbe se in una relazione
noi non sapessimo “dare”? Succederebbe che l’altro, prima o poi, si stancherebbe
di aspettare. E così di seguito: se in una relazione noi non sappiamo ricevere,
l’altro non si sentirà mai importante. Se noi non stimiamo l’altro, l’altro si
sentirà umiliato. Se non stimiamo noi stessi, costringeremo l’altro a farci
sempre da mamma, a incoraggiarci, a dirci che ne abbiamo le capacità, che ce la
possiamo fare. Se non vogliamo crescere, l’altro si sentirà imprigionato. Se vogliamo
che le cose rimangano sempre uguali, l’altro si sentirà morire. Se siamo convinti
di non valere, di essere inadeguati a tutto, ci attaccheremo morbosamente all’altro.
Se non siamo mai ottimisti, vitali, gioiosi, divertenti, finiremo per contagiare
l’altro con la nostra negatività, rendendo la relazione pesante e invivibile.
Dio è
relazione. Dio è l’Amore. Il nostro amore deve essere pertanto “relazione”. L’amore
è un movimento circolare continuo, una compenetrazione (pericoresi trinitaria) di due persone che si danno e che si
ricevono, che si donano e che si accolgono. L’amore è quell’intervallo di
spazio che esiste tra l’io e il tu, spazio in cui si crea il noi: l’amore è dove io non sono “io” e tu non sei “tu”, ma io e tu siamo
“noi”.
Tutto
ciò che esiste è creato ad immagine della Trinità: ognuno di noi ha bisogno di
vivere in sé stesso i tre elementi che la costituiscono. Se ne manca uno non c’è
comunione, perché la comunione è data dalla loro presenza in contemporanea:
1) L’amans, il Padre, il genitore. Noi tutti
dobbiamo essere amantes, gli amanti,
coloro che amano. L’amans è colui che
prende l’iniziativa, che va, che non guarda cosa fanno gli altri: non guarda se
fanno di più o di meno di lui. Lui ha dentro di sé l’amore, e lo dona
gratuitamente. È il “genitore” per eccellenza: è talmente pieno d’amore che lo
dona, lo riversa sugli altri. L’amore è dare, è donare. Ma per dare dobbiamo essere pieni, altrimenti
credendo di dare, pretendiamo di ricevere. Siamo pieni d’amore? Lo doniamo.
Siamo pieni di gioia? La doniamo. Siamo pieni di vitalità? La doniamo. Siamo pieni
di allegria? La doniamo. Siamo pieni di felicità? La nostra gioia diventa
iniziative, voglia di creare unioni, condivisioni, momenti gioviali.
Non possiamo
mai dare ciò che non abbiamo. Luca parla chiaro in proposito: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon
tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male,
perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6,45). Chi dentro ha
rabbia sarà sempre arrabbiato e ogni occasione sarà buona per arrabbiarsi; chi
dentro ha tristezza vedrà tutto nero, tutto negativo e tutto pericoloso; ma chi
dentro ha la gioia, trasmetterà serenità; e lo si può riconoscere dal volto, dai
gesti, dalle parole e dai sorrisi che dona a chi incontra. La nostra vita esteriore
non è nient’altro che la proiezione della nostra vita spirituale, interiore.
2) L’amatus, il Figlio, il bambino. Il Figlio
è colui che riceve. Tutti noi abbiamo bisogno di ricevere. Abbiamo bisogno di
coccole, di tenerezza, di ascolto, di gioia, di ridere, di lasciarci andare, di
sentirci accolti, riconosciuti, amati. Il bambino è colui che si apre e riceve.
Tutti siamo bambini. Ma a volte vogliamo ricevere senza aprirci. Vorremmo che
gli altri ci ascoltassero, ma noi non vogliamo chiedere. Vorremmo tenerezza,
affetto, ma non vogliamo mostrarci vulnerabili o bisognosi. Vorremmo conforto,
protezione, ma non vogliamo farci vedere piangere o sofferenti. Vorremmo
sentirci riconosciuti ma quando qualcuno ci fa un complimento o ci dice: “Ti
voglio bene”, noi ci sottraiamo, ci sentiamo imbarazzati. Per ricevere dobbiamo
invece aprirci, dobbiamo accettare di essere vulnerabili.
3) C’è
poi l’amor, lo Spirito, l’amore, l’unione,
il legame, l’essere adulti: io sono io
e tu sei tu; l’amore, è ciò che ci unisce
entrambi. Se però pretendo che tu “divenga” me, io ti uccido. Se invece io
divengo te, mi uccido. L’amore non vuole cambiare l’altro: tu sei tu. Se
cambierai, è una scelta tua. Io ti amo, non ti cambio. È l’adulto che fa così:
io ti amo e non mi aspetto che tu cambi. Lo faccio perché l’amore nasce dal mio
cuore, dal mio essere, da ciò che io ho dentro. Non voglio nulla in cambio. «Infatti se amate quelli che vi amano, quale
merito ne avete?» (Mt 5,46); non è più amore, è solo interesse, è un barattare
qualcosa!
L’amore
è ciò che fa vivere. L’amore fa vivere tutto ciò che vive. Amore è che l’altro
sia al massimo, sia se stesso anche se ciò è contro il suo volere o le sue
idee.
Cosa
vuol dire per noi, nel nostro lavoro, essere amore, essere unione? Cosa vuol dire essere amore con il nostro
fratello? Cosa vuol dire essere amore con chi non sopportiamo? Madre Teresa, o
Teresa di Lisieux, dicevano: “Oggi sarò l’amore”. E vivevano così quella
giornata. Abbiamo di che imparare.
La
festa della Trinità, per concludere, ci dice che Dio, il Tutto, è collegato al
tutto; dice cioè che noi siamo in relazione con il Tutto (Dio) e con il tutto (gli
altri). Siamo cioè interconnessi fra noi. Siamo collegati, interdipendenti.
Nessuno
allora può più dire: “A che serve fare il bene, se poi sono l’unico a farlo?”.
Nessuno può più pensare in questo modo, perché tutto quello che facciamo comporta
realmente delle conseguenze per noi, per gli altri, per il mondo intero.
A noi invece
piace molto pensarci “unici”, separati dagli altri: “La vita è mia e faccio
quello che ne voglio”. E invece no: se urliamo, se bestemmiamo, se viviamo nel
rancore e nella rabbia, la risonanza delle nostre azioni, dei nostri
sentimenti, si diffonde e si riverbera nel mondo. Se, invece, amiamo
incondizionatamente, se viviamo nel perdono lasciando andare e cadere l’odio e
la rabbia, se compiamo gesti di bontà gratuita, se abbiamo compassione e
tenerezza, tutto questo si riflette in noi, nella nostra famiglia e nel mondo. È
la Trinità che ce lo ricorda: siamo collegati al Tutto e il tutto è collegato a
noi. Tutto è in relazione e la relazione è tutto. Amen.