La scena che precede il Vangelo di oggi ci ha mostrato Gesù mescolato alla folla che va da Giovanni il Battista, per farsi battezzare. Lui, senza peccato, assieme a coloro che si dichiarano peccatori e compiono un gesto di penitenza e di conversione. Lui, in cui risplende ogni bontà, accanto a coloro che hanno oscurato le tracce della bellezza di Dio, impresse nella loro vita.
La manifestazione che accade al Giordano lo rivela come il Figlio, la discesa dello Spirito lo conferma nella missione che sta per affrontare.
Non ci sono sconti, però, né esenzioni, né privilegi: è chiamato ad essere uomo fino in fondo. Così anche lui conoscerà la tentazione, il tempo della prova, il dubbio, il rischio di allontanarsi dal progetto di Dio.
Marco non presenta le tentazioni in dettaglio. Perché? Perché rifugge dal fornirci particolari, così come fanno Matteo e Luca? Forse perché, proprio a partire da quel momento in cui dà inizio alla sua missione pubblica, la vita di Gesù sarà tutta una tentazione.
Sarà tentato dal potere, mentre è venuto come Messia umile e buono, che è venuto per servire e non per farsi servire.
Sarà tentato dalla popolarità che lo investe subito, appena compie i primi miracoli. Ma questi sono solo dei «segni»: l'importante è altrove, è quella Parola che sola può convertire e cambiare i cuori.
Sarà tentato dalla fuga di fronte al cumulo di sofferenza, di violenza, di abbandono e di fallimento, che sta per rovesciarsi su di lui. E invece gli viene chiesto di essere il Figlio che si mette completamente nelle mani del Padre e rinuncia a misurare la sua esistenza col criterio del successo, della riuscita, del consenso.
Il Messia povero, disarmato e disarmante, che osa pronunciare una parola misericordiosa, colma della tenerezza di Dio, ma anche scomoda, tagliente, senza compromessi, non avrà la vita facile. E la tentazione costante sarà quella di ammorbidire, smussare gli angoli, rendere più accettabile quel vangelo che è annuncio di gioia, annuncio di cambiamento, ma anche denuncia di tutto ciò che rovina la vita degli uomini.
Anche noi, come lui, conosciamo le tentazioni. Dopo duemila anni esse sono, stranamente, sempre le stesse. E di fatto intaccano, tutte, la nostra fiducia in Dio, ci gettano nel sospetto di trovare in lui non un Padre, che ci ama e vuole il nostro bene, ma un concorrente geloso delle nostre capacità, un padrone esoso che richiede obbedienza cieca.
Occorre guardare a Cristo, seguire il suo esempio, accoglierlo perché vinca in noi il maligno e le sue tentazioni e ci aiuti a realizzare il progetto e la volontà di Dio su di noi.
È così che accogliamo e viviamo il comando di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo".
Nei giorni che verranno accostiamoci a Gesù, e con lui viviamo e lottiamo nel deserto di questo mondo. I quaranta giorni della quaresima descrivono, in verità, il paradigma di tutta la vita di Gesù e quindi della vita di ogni credente. Non c'è bisogno di luoghi più o meno solitari per trovare il "deserto" ove ritirarsi. Le nostre città, ove è rara la vita solidale e frequente la solitudine, sono il vero deserto di oggi. Un deserto che è penetrato anche nei cuori sino a renderli freddi e duri. Si potrebbe parlare di un vero e proprio processo di desertificazione dei cuori che porta all'inaridimento e alla violenza. Come non accorgersi nella nostra vita quotidiana di essere sempre più spesso in compagnia di belve e dei demoni della divisione e dell'odio?
venerdì 27 febbraio 2009
venerdì 20 febbraio 2009
22 Febbraio 2009 - VII Domenica del Tempo Ordinario
C'è tanta folla accanto a Gesù, non c'è più posto da nessuna parte. E Gesù annuncia la Parola di Dio. Gli portano un uomo paralizzato. Non riuscendo ad entrare lo calano dalla terrazza, dal tetto. Ci vuole della fede per cercare tutti i modi, per affrontare tante difficoltà, purché il malato possa arrivare davanti a Gesù. E' un gesto di grande fede ed è un gesto di carità vera. E Gesù, dice il testo, "vista la loro fede" si prepara dare a quel malato la sua salvezza, a compiere per lui i miracoli della sua potenza.Ma Gesù ricorda qual è il vero e primo bene.Quando si trova davanti quel paralitico esclama: "Uomo ti sono rimessi (cioè perdonati) i tuoi peccati". Il Signore ci esaudisce sempre a di là delle nostre richieste e delle nostre attese. Noi sperimentiamo alcune nostre necessità, Lui conosce i veri bisogni profondi della nostra vita. Ma essi volevano la guarigione fisica e forse si trova spiazzati o delusi.E soprattutto c'è la reazione degli scribi. "Perché costui parla così? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?"La guarigione del paralitico è presente nei tre vangeli sinottici; Marco la racconta in modo particolarmente vivace e drammatico. Nel piano del suo vangelo questo fatto rappresenta un momento culminante della rivelazione di Gesù come Messia e Salvatore, e l'inizio delle controversie che culmineranno nella condanna di Gesù come bestemmiatore della Legge e della religione del suo popolo.Solo Dio può perdonare i peccati. Ma Gesù è Dio che si è fatto uomo e salvatore. E' venuto a caricarsi di nostri peccati, a toglierli. E' l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. E proprio per dimostrare che è Dio compie il miracolo. "Ora perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettucci e và a casa tua". E così avvenne.Meraviglia, scandalo, ammirazione sono le reazioni dei presenti. Gesù compie un segno di potenza, un miracolo, uno dei numerosi miracoli che accompagnano l'inizio della sua missione e fanno scoprire con gioia e con speranza che Dio è vicino. Tutti si meravigliavano e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto niente di simile!"Per Gesù la guarigione dalla malattia è segno della guarigione del cuore. Egli compie le profezie che annunciano la restaurazione del suo popolo, il ritorno alla vita, qualcosa di radicalmente diverso. Così diceva il testo di Isaia nella prima lettura: "Ecco, faccio una cosa nuova∑ Io, cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati". Dio esprime la sua potenza nella misericordia, nel perdono.Prima la pace con Dio: i peccati sono distrutti, cancellati, non più ricordati. Poi la riconciliazione con se stessi e con gli altri e con le cose.E' la salvezza offerta da Dio mediante il suo Cristo, ma a cui deve corrispondere la fede. La fede porta ad affidarci a Dio perché colmi la nostra debolezza con il suo amore. "Dove è abbondato il peccato, è sovrabbondata la grazia". Dobbiamo imparare ad affidarci così a Dio e Lui ci guarisce come noi abbiamo bisogno di essere guariti.Il miracolo rivela la potenza e la missione di Gesù. "Il Figlio dell'uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati". Questo perdono è affidato ancora oggi nelle mani di uomini: la Chiesa, corpo vivo di Cristo, lo esercita con il ministero dei sacerdoti; lo esercita nei "segni" sacramentali (battesimo, riconciliazione, eucaristia, unzione dei malati∑), in cui solo il credente sa riconoscere la forza di salvezza, pur nella semplicità e fragilità delle persone e dei mezzi.Ogni volta che accogliamo la grazia della riconciliazione, anche noi possiamo sperimentare la bellezza unica e la profondità delle parole di Gesù, rivolte a ciascuno di noi: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati": sono perdonati, non ci sono più; c'è solo l'amore di Dio e anche tu diventa amore. E' una cosa secondo verità coltivare il senso giusto del peccato, riconoscerci deboli, fragili, peccatori; che facciamo come dice S. Paolo "vedo il bene che voglio e faccio il male che non voglio". Se mi presento a Dio come sono, cioè malato, Lui potrà guarirmi. Ma se presumo di non aver bisogno di nulla, Lui non vedrà la mia fede, lui non potrà operare i suoi prodigi. Ma se sono sincero non farò fatica a scoprire tutte le mie mancanze nella fede, nell'amore al Signore, nell'amore al prossimo, nella mia pigrizia e nel mio egoismo, nell'attaccamento alle cose e agli interessi materiali, nella mentalità e nel comportamento mondano che mi prende da ogni parte. Davvero ho bisogno, tanto bisogno del perdono e della grazi di Dio: "Ti sono rimessi i tuoi peccati".Riconosciamo con gioia nell'Eucarestia di oggi l'amore misericordioso che ci è venuto incontro come forza creatrice di novità, che libera dalla paralisi del cuore e dello spirito."Alzati" dice Gesù al paralitico che "giaceva"; ed egli "si alzò":Il perdono e la guarigione sono un segno del mistero di morte e resurrezione che attraversa tutta la vita di Cristo e dei suoi fedeli: Egli che ha voluto giacere come noi nella morte, si è rialzato nella resurrezione perché anche noi ci rialzassimo e vivessimo da risorti.Peccatori perdonati, che non ricordano nevroticamente le loro colpe passate, ma gioiosamente "ricordano" la salvezza ricevuta, possiamo pregare il Padre animati dallo Spirito nuovo che Cristo ci ha donato. Uniti a Cristo "attraverso di Lui sale a Dio il nostro "Amen" (il nostro sì) per la sua gloria". Sale a Dio la nostra vita rinnovata, il nostro cammino spedito, come il cammino meraviglioso di colui che era stato paralitico.
giovedì 12 febbraio 2009
15 Febbraio 2009 - VI Domenica del Tempo Ordinario
Cos’è il dolore
Gesù esce dalla sinagoga e inizia a guarire la suocera di Pietro; poi evangelizza, scaccia i demoni e conclude la sua giornata pregando.
Noi, molto spesso, usciamo dalla chiesa e chiudiamo ben bene il cassetto del nostro ego religioso: se ne riparlerà tra una settimana; Dio ha avuto già abbastanza la sua razione di devozione.
Gesù trova nella preghiera la forza per cambiare, per lasciarsi consumare dagli altri, per rendere presente con la sua vita, il Regno di Dio, per raccontare non la "buona novella", ma diventando lui stesso buona novella, la buona notizia di un Dio che si è avvicinato a noi.
In questo percorso, in maniera brutale, inquietante, scomoda, Gesù fa esperienza del male nella sua forma più misteriosa: la malattia e il dolore che la accompagna.
Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini (le guerre sono opera nostra: Dio non c'entra!), ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.
Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente: ognuno di noi ne deve fare in conti quasi quotidianamente.
La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola.
Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice.
Quando si è giovani si pensa ingenuamente di essere dei privilegiati, ci si illude pensando che la sofferenza a noi sarà risparmiata o, almeno, ci arriverà ma in maniera molto attenuata.
Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente?
I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto.
Molti percorsi di sofferenza sono stati individuati, nel corso della propria esperienza religiosa, come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, oppure come strumento di prova per raffinare la propria fede.
L’uomo soffre, come soffrono tutte le creature di questo mondo: ma l’uomo è anche l'unico essere vivente che si pone domande sul senso della vita, e soprattutto sul senso della morte, sul perché della sofferenza.
Troppo spesso però le sue risposte sono ben lontane dal dare una spiegazione, un significato valido della sofferenza, soprattutto quando, con allucinante convinzione, accusa Dio di essere la causa di ogni avversità, il dispensatore vendicativo di malattie, dolori, disgrazie di ogni genere.
«Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire»; «Dio prende con sé sempre i migliori»; «Quand’è che Dio mi lascerà in pace»…
Sono modi di dire, è ovvio; espressioni che diamo per scontate, ma che negano il vero volto del Dio misericordioso di Gesù, fonte di ogni consolazione e pietà.
Nella nostra smania di voler dare una spiegazione razionale a tutto, cadiamo nel più irrazionale dei ragionamenti, senza accorgerci dell’assurdità delle nostre conclusioni.
La Parola di oggi cerca di illuminarci in qualche modo sul comportamento da tenere.
Gesù, dopo aver guarito il lebbroso, gli chiede il silenzio.
Certamente lo fa perché non vuol passare come un guaritore, come un santone, ma soprattutto perché vuole indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore.
Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo riscatta, lo salva, lo riempie di condivisione.
Gesù non dona nessuna risposta al dolore, ma lo condivide con passione.
Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso.
No: Gesù, come letteralmente spiega il verbo greco, splag-cnšuw, prova rabbia, stizza irrefrenabile [letteralmente “si rode le viscere”, senso figurato tratto dall’atto di mangiare le viscere delle vittime dopo la loro offerta sacrificale] verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico.
La vita è dolore, un dolore inevitabile, concludono i vari pensatori di questo mondo.
La vita è dolore, concludeva anche il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire.
Gesù invece propone, nella solidarietà condivisa, l'alternativa al dolore. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.
Un esempio di dolore condiviso? Padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un'isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all'inumanità della malattia.
Padre Damiano morirà a Molokai, facendo rinascere la dignità di queste persona, dando loro fede, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati a un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
A ben riflettere però, siamo tutti dei lebbrosi: perché il peccato, sempre più espressione della vita di quanti sono lontani da Dio, è la lebbra più infettiva di oggi e si diffonde con una tale rapidità tra il genere umano, che è difficile arginarla.
È necessario pertanto fare ciò che ha fatto il lebbroso del Vangelo di oggi: inginocchiarsi davanti al Salvatore dell'umanità e chiedere la guarigione della mente e del cuore perversi.
Soprattutto di quelle menti diaboliche che pensano e concepiscono il male in ogni angolo della terra e poi lo portano a compimento.
Tali lebbrosi morali sono estremamente pericolosi perché possono, come di fatto sta succedendo, prendere piede nella società odierna e seminare odio e vendetta nel nome dello stesso Dio.
I fatti di questi giorni ai quali stiamo assistendo, con violenze di ogni genere, ci confermano che il Demonio si è insinuato nella vita di tanti esseri umani, al punto tale che il male passa per il bene ed il bene per il male.
A questo sistema di pensiero, infettante come la molteplicità dei virus che attaccano la vita umana, bisogna porre argine per far emergere il miracolo della guarigione che parte dalla compassione e dalla condivisione.
Spesso siamo quindi noi stessi più lebbrosi dei lebbrosi fisici e non ce ne accorgiamo, perché sappiamo nascondere talmente bene le nostre malattie dell'animo, che siamo sepolcri imbiancati, cioè belli esternamente, ma gravemente ammalati interiormente.
Queste malattie vanno curate con una forte terapia di amore verso Dio e verso i fratelli, perché solo chi mette al centro della propria esistenza Cristo e in Lui riconosce l'unico salvatore può trovare la via della sua guarigione.
Si tratta, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Corinzi di oggi, di imitare Gesù Cristo e di non essere di scandalo a nessuno con il proprio modo di agire:
«Fratelli, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l'utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Argomenti di grande attualità che ci pongono davanti alle nostre responsabilità individuali e comunitarie, perché ci richiamano alla coerenza con le scelte di vita che abbiamo fatto in una visione cristiana dell'esistenza.
Coerenza che già di per sé è un invito a seguire le orme di Cristo e lasciarsi prendere totalmente da Lui, come avvenne per l'Apostolo delle Genti, quando si convertì al cristianesimo.
Gesù esce dalla sinagoga e inizia a guarire la suocera di Pietro; poi evangelizza, scaccia i demoni e conclude la sua giornata pregando.
Noi, molto spesso, usciamo dalla chiesa e chiudiamo ben bene il cassetto del nostro ego religioso: se ne riparlerà tra una settimana; Dio ha avuto già abbastanza la sua razione di devozione.
Gesù trova nella preghiera la forza per cambiare, per lasciarsi consumare dagli altri, per rendere presente con la sua vita, il Regno di Dio, per raccontare non la "buona novella", ma diventando lui stesso buona novella, la buona notizia di un Dio che si è avvicinato a noi.
In questo percorso, in maniera brutale, inquietante, scomoda, Gesù fa esperienza del male nella sua forma più misteriosa: la malattia e il dolore che la accompagna.
Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini (le guerre sono opera nostra: Dio non c'entra!), ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.
Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente: ognuno di noi ne deve fare in conti quasi quotidianamente.
La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola.
Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice.
Quando si è giovani si pensa ingenuamente di essere dei privilegiati, ci si illude pensando che la sofferenza a noi sarà risparmiata o, almeno, ci arriverà ma in maniera molto attenuata.
Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente?
I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto.
Molti percorsi di sofferenza sono stati individuati, nel corso della propria esperienza religiosa, come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, oppure come strumento di prova per raffinare la propria fede.
L’uomo soffre, come soffrono tutte le creature di questo mondo: ma l’uomo è anche l'unico essere vivente che si pone domande sul senso della vita, e soprattutto sul senso della morte, sul perché della sofferenza.
Troppo spesso però le sue risposte sono ben lontane dal dare una spiegazione, un significato valido della sofferenza, soprattutto quando, con allucinante convinzione, accusa Dio di essere la causa di ogni avversità, il dispensatore vendicativo di malattie, dolori, disgrazie di ogni genere.
«Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire»; «Dio prende con sé sempre i migliori»; «Quand’è che Dio mi lascerà in pace»…
Sono modi di dire, è ovvio; espressioni che diamo per scontate, ma che negano il vero volto del Dio misericordioso di Gesù, fonte di ogni consolazione e pietà.
Nella nostra smania di voler dare una spiegazione razionale a tutto, cadiamo nel più irrazionale dei ragionamenti, senza accorgerci dell’assurdità delle nostre conclusioni.
La Parola di oggi cerca di illuminarci in qualche modo sul comportamento da tenere.
Gesù, dopo aver guarito il lebbroso, gli chiede il silenzio.
Certamente lo fa perché non vuol passare come un guaritore, come un santone, ma soprattutto perché vuole indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore.
Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo riscatta, lo salva, lo riempie di condivisione.
Gesù non dona nessuna risposta al dolore, ma lo condivide con passione.
Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso.
No: Gesù, come letteralmente spiega il verbo greco, splag-cnšuw, prova rabbia, stizza irrefrenabile [letteralmente “si rode le viscere”, senso figurato tratto dall’atto di mangiare le viscere delle vittime dopo la loro offerta sacrificale] verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico.
La vita è dolore, un dolore inevitabile, concludono i vari pensatori di questo mondo.
La vita è dolore, concludeva anche il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire.
Gesù invece propone, nella solidarietà condivisa, l'alternativa al dolore. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.
Un esempio di dolore condiviso? Padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un'isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all'inumanità della malattia.
Padre Damiano morirà a Molokai, facendo rinascere la dignità di queste persona, dando loro fede, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati a un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
A ben riflettere però, siamo tutti dei lebbrosi: perché il peccato, sempre più espressione della vita di quanti sono lontani da Dio, è la lebbra più infettiva di oggi e si diffonde con una tale rapidità tra il genere umano, che è difficile arginarla.
È necessario pertanto fare ciò che ha fatto il lebbroso del Vangelo di oggi: inginocchiarsi davanti al Salvatore dell'umanità e chiedere la guarigione della mente e del cuore perversi.
Soprattutto di quelle menti diaboliche che pensano e concepiscono il male in ogni angolo della terra e poi lo portano a compimento.
Tali lebbrosi morali sono estremamente pericolosi perché possono, come di fatto sta succedendo, prendere piede nella società odierna e seminare odio e vendetta nel nome dello stesso Dio.
I fatti di questi giorni ai quali stiamo assistendo, con violenze di ogni genere, ci confermano che il Demonio si è insinuato nella vita di tanti esseri umani, al punto tale che il male passa per il bene ed il bene per il male.
A questo sistema di pensiero, infettante come la molteplicità dei virus che attaccano la vita umana, bisogna porre argine per far emergere il miracolo della guarigione che parte dalla compassione e dalla condivisione.
Spesso siamo quindi noi stessi più lebbrosi dei lebbrosi fisici e non ce ne accorgiamo, perché sappiamo nascondere talmente bene le nostre malattie dell'animo, che siamo sepolcri imbiancati, cioè belli esternamente, ma gravemente ammalati interiormente.
Queste malattie vanno curate con una forte terapia di amore verso Dio e verso i fratelli, perché solo chi mette al centro della propria esistenza Cristo e in Lui riconosce l'unico salvatore può trovare la via della sua guarigione.
Si tratta, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Corinzi di oggi, di imitare Gesù Cristo e di non essere di scandalo a nessuno con il proprio modo di agire:
«Fratelli, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l'utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Argomenti di grande attualità che ci pongono davanti alle nostre responsabilità individuali e comunitarie, perché ci richiamano alla coerenza con le scelte di vita che abbiamo fatto in una visione cristiana dell'esistenza.
Coerenza che già di per sé è un invito a seguire le orme di Cristo e lasciarsi prendere totalmente da Lui, come avvenne per l'Apostolo delle Genti, quando si convertì al cristianesimo.
giovedì 5 febbraio 2009
8 Febbraio 2009 - V Domenica del Tempo Ordinario
Con i passi da gigante che ha fatto la medicina, potremmo dire che oggi Gesù sarebbe quasi disoccupato: la scienza ha camminato, ha vinto febbri e malattie.
Pietro stesso porterebbe sua suocera in ospedale o chiamerebbe un qualunque medico.
Già, ma noi non siamo semplicemente dei corpi con organi e tessuti.
Siamo creature impastate di sentimenti, di pensieri, di passioni.
Abbiamo un cuore, che spesso è malato d'infelicità.
Ecco, questa è la grande malattia di oggi, il nemico dell’umanità, il male interiore che solo Gesù sa curare: l’infelicità.
Tutta la scienza non ci regalerà mai un solo istante di felicità.
Gesù sì. Perché Lui, e solo Lui, è l’unico medico dell'anima.
Anche oggi Egli entra nella nostra casa, come in quella di Pietro, si accosta a noi, ci solleva prendendoci per mano. La febbre ci lascerà, e soprattutto ci abbandonerà quel nostro mormorare contro Dio a causa di qualche sofferenza che riteniamo senza senso!...
«Ricordati che sei fatto per il cielo - ci dice Gesù - tua è la vita eterna! Cammina, verso il cielo e non ti curare se i tuoi piedi sanguinano; cammina e guarda avanti; cammina e canta il mio amore per te; cammina e andando testimonia agli uomini la ragione della tua speranza, racconta come il tuo fardello è diventato leggero; cammina annunciando il mio Vangelo: e così facendo ti accorgerai che a camminare non sei solo ma, con me sempre al tuo fianco, una folla immensa ti accompagna: la folla di tutti gli uomini che io ho salvato, e che sono in marcia con te verso il Regno, dove non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, ma solo un'immensa gioia e una pace perenne».
Una volta poi che il Signore ci avrà liberati dal nostro malessere spirituale, dalle nostre paure, dalle nostre angosce, dobbiamo metterci immediatamente al suo servizio, sull’esempio della suocera di Pietro, che immediatamente si mise a servire Gesù.
Anche noi dobbiamo servire , dobbiamo “dare una mano”: meglio, dobbiamo anche noi “prendere per mano” quei nostri fratelli che si trovano in particolari sofferenze morali, che hanno bisogno di una buona parola, di conforto, di amicizia, di comprensione, di aiuto.
Dobbiamo dir loro: «Vieni, ti do una mano!», un’espressione con cui intendiamo esprimere tutta la nostra solidarietà.
Penso che a tutti, almeno una volta nella vita, sarà capitato di sentirselo dire: ed è stato bello, perché ci ha rassicurato, ci ha confermato che qualcuno si interessava anche a noi. Una parola che ci ha aiutato a superare la gelida paura di essere soli, abbandonati.
Bene: il Signore non si stanca di ripeterci queste parole affettuose; perché vuole restituirci nuovo vigore, fresca vitalità, gioia di vivere.
Egli è sempre pronto, con il Sacramento della Riconciliazione, a stenderci una mano amica per rimetterci in piedi, dopo le nostre inevitabili cadute nel peccato.
Ecco perché anche il nostro servizio ai fratelli, il nostro “dare una mano”, deve essere la risposta operativa all’amore misericordioso che Cristo continuamente ci dimostra.
La guarigione della suocera di Pietro rappresenta dunque il miracolo del servizio. Può sembrare un miracolo insignificante. Ma i miracoli non sono spettacoli di potenza, ma segni della misericordia di Dio.
Il miracolo più grande che Gesù è venuto a compiere in terra, è infatti la capacità di amare, cioè di servire.
Chi ama serve, serve gratuitamente, serve continuamente, serve tutti indistintamente.
Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine di Dio che è Amore. L'egoismo si esprime nel servirsi degli altri, che porta all'asservimento reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro.
Solo nel servizio reciproco saremo tutti finalmente liberi: "Alter alterius onera portate et sic adimplebitis legem Christi: Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo" (Gal 6,3).
Pietro stesso porterebbe sua suocera in ospedale o chiamerebbe un qualunque medico.
Già, ma noi non siamo semplicemente dei corpi con organi e tessuti.
Siamo creature impastate di sentimenti, di pensieri, di passioni.
Abbiamo un cuore, che spesso è malato d'infelicità.
Ecco, questa è la grande malattia di oggi, il nemico dell’umanità, il male interiore che solo Gesù sa curare: l’infelicità.
Tutta la scienza non ci regalerà mai un solo istante di felicità.
Gesù sì. Perché Lui, e solo Lui, è l’unico medico dell'anima.
Anche oggi Egli entra nella nostra casa, come in quella di Pietro, si accosta a noi, ci solleva prendendoci per mano. La febbre ci lascerà, e soprattutto ci abbandonerà quel nostro mormorare contro Dio a causa di qualche sofferenza che riteniamo senza senso!...
«Ricordati che sei fatto per il cielo - ci dice Gesù - tua è la vita eterna! Cammina, verso il cielo e non ti curare se i tuoi piedi sanguinano; cammina e guarda avanti; cammina e canta il mio amore per te; cammina e andando testimonia agli uomini la ragione della tua speranza, racconta come il tuo fardello è diventato leggero; cammina annunciando il mio Vangelo: e così facendo ti accorgerai che a camminare non sei solo ma, con me sempre al tuo fianco, una folla immensa ti accompagna: la folla di tutti gli uomini che io ho salvato, e che sono in marcia con te verso il Regno, dove non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, ma solo un'immensa gioia e una pace perenne».
Una volta poi che il Signore ci avrà liberati dal nostro malessere spirituale, dalle nostre paure, dalle nostre angosce, dobbiamo metterci immediatamente al suo servizio, sull’esempio della suocera di Pietro, che immediatamente si mise a servire Gesù.
Anche noi dobbiamo servire , dobbiamo “dare una mano”: meglio, dobbiamo anche noi “prendere per mano” quei nostri fratelli che si trovano in particolari sofferenze morali, che hanno bisogno di una buona parola, di conforto, di amicizia, di comprensione, di aiuto.
Dobbiamo dir loro: «Vieni, ti do una mano!», un’espressione con cui intendiamo esprimere tutta la nostra solidarietà.
Penso che a tutti, almeno una volta nella vita, sarà capitato di sentirselo dire: ed è stato bello, perché ci ha rassicurato, ci ha confermato che qualcuno si interessava anche a noi. Una parola che ci ha aiutato a superare la gelida paura di essere soli, abbandonati.
Bene: il Signore non si stanca di ripeterci queste parole affettuose; perché vuole restituirci nuovo vigore, fresca vitalità, gioia di vivere.
Egli è sempre pronto, con il Sacramento della Riconciliazione, a stenderci una mano amica per rimetterci in piedi, dopo le nostre inevitabili cadute nel peccato.
Ecco perché anche il nostro servizio ai fratelli, il nostro “dare una mano”, deve essere la risposta operativa all’amore misericordioso che Cristo continuamente ci dimostra.
La guarigione della suocera di Pietro rappresenta dunque il miracolo del servizio. Può sembrare un miracolo insignificante. Ma i miracoli non sono spettacoli di potenza, ma segni della misericordia di Dio.
Il miracolo più grande che Gesù è venuto a compiere in terra, è infatti la capacità di amare, cioè di servire.
Chi ama serve, serve gratuitamente, serve continuamente, serve tutti indistintamente.
Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine di Dio che è Amore. L'egoismo si esprime nel servirsi degli altri, che porta all'asservimento reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro.
Solo nel servizio reciproco saremo tutti finalmente liberi: "Alter alterius onera portate et sic adimplebitis legem Christi: Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo" (Gal 6,3).
venerdì 30 gennaio 2009
1 Febbraio 2009 – IV Domenica del Tempo Ordinario
Nel vangelo di questa domenica, Gesù viene descritto da Marco con due pennellate incisive: Gesù è il "maestro" che insegna; Gesù è il "liberatore" che guarisce, perché la sua parola è efficace. Ci troviamo davvero davanti a una "dottrina nuova", dove "nuova", nel linguaggio biblico, non significa originale, inedita, ma perfetta e definitiva. Gesù insegna con autorità e comanda con efficacia; egli proclama ed agisce, dice e fa', predica e guarisce. Il profeta è colui che parla "in nome di Dio". Gesù è il vero grande profeta. Egli insegna con autorità, attraverso parole e opere.
Con i quattro ex pescatori, ora suoi discepoli, è a Cafarnao. Di sabato entra e parla nella sinagoga. C'è molta gente. La sua parola provoca un ascolto eccezionale. Tutti stanno a orecchi aperti. Non si sente nemmeno il movimento del respiro. In tutti c'è un grande stupore: avvertono di trovarsi davanti a un uomo fuori del comune. Lui non conosce che l'aramaico, la lingua dialettale; non ha studiato la Scrittura presso alcuna scuola rabbinica; è un illustre sconosciuto. Eppure parla con autorità. Gli scribi e i rabbì del tempo sono dei 'ripetitori'; Gesù no. La sua è una parola che genera meraviglia, perché è novità assoluta, parla di Dio come uno che 'ci vive dentrò, da sempre. Leggendo i vangeli si nota come questo sia il suo stile costante. Possiamo davvero chiamarlo l'uomo che stupisce. Il 'maligno' è molto più acuto della gente: non è preso dallo stupore, ma dalla rabbia e dall'odio. Egli sa che quell'uomo di Nazaret è venuto a sbancarlo dal suo trono. Il suo dominio indiscusso sull'uomo è finito. È scoccata l'ora di fare i conti con «il Cristo di Dio». E Gesù davanti a lui non si piega, perché ha qualcosa in più degli altri uomini: egli è «il Santo di Dio» e il maligno lo sa. Nello scontro è Cristo che vince, ma non con la forza dialettica, Gesù non discute con il demonio. Gli impone addirittura di «tacere e di andarsene». Cristo non scende a patti con lui. Può discutere con il peccatore pentito, mai con colui che compie il male con piacere. Il pasticcio in cui l'uomo d'oggi è impantanato è proprio questo: andare a braccetto con Dio e con il diavolo. Non esiste più distinzione: bene e male, onestà e disonestà, fedeltà e adulterio, purezza e lussuria, danaro pubblico e danaro sporco sono realtà così intrecciate da non essere più riconoscibili. L'arte del doppio gioco, della doppia morale, della doppia coscienza, è pane quotidiano. Gesù ha una parola che taglia come una spada, che fa male, che invita a scegliere, che scuote, che libera e salva. Questa pagina di vangelo ci mette con le spalle al muro e ci invita a fare delle scelte precise, che abbiano il sapore di una libertà interiore ritrovata. A costo di apparire di un altro mondo. Infatti, noi cristiani siamo «nel mondo, ma non del mondo». Di fronte a Gesù che insegna, qual è il nostro atteggiamento? Di fronte a Gesù che ingaggia la sua lotta contro il male, quali comportamenti ci sono richiesti? "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?" Anche nelle nostre "possessioni", nei nostri limiti, compromessi... abbiamo bisogno di essere "rovinati". La parola di Dio scuote e toglie la "tranquillità" di chi la predica e a chi l'ascolta. A volte essa fa male, ma è un male, come nel caso dell'ossesso del vangelo, che si converte nel nostro vero bene. Gesù è venuto per accendere una speranza nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E tutti subito percepiscono che la sua parola non è come quella degli scribi. Perché Gesù non si limita a commentare quello che Dio ha detto, magari con dotti riferimenti. No, la sua parola nasce da un'esperienza di Dio, da una comunione con lui che è del tutto unica. È questa la fonte della sua «autorità».
Un annuncio, però, per quanto consolante, non può bastare. Una buona notizia può riscaldare il cuore, può ridare fiducia a chi ormai si è rassegnato, può risollevare da terra chi non ce la faceva più ad andare avanti... Ma viene il momento in cui c'è bisogno di vedere dei segni concreti, di quel cambiamento che è stato annunciato. Ed è proprio quello che Gesù fa', in giorno di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Mostra come Dio provi compassione per le nostre infermità e si impegni, in prima persona, nella lotta contro il male: il male fisico e quello, più profondo, che intacca l'anima, il male che coincide con la cattiveria del cuore e quello che ha i connotati di una prigionia, da cui non si riesce più ad uscire con le proprie forze. Marco, nel suo racconto, è abbastanza sobrio e quasi avaro di particolari: ci presenta un uomo, «posseduto da uno spirito immondo» che è lì, nella sinagoga. E mette sotto i nostri occhi l'azione di Gesù che libera questa persona dalla sua sofferenza, dalla sua lacerazione, dalla sua schiavitù. È bene, tutto sommato, che la descrizione di quell'uomo e della sua malattia sia generica. È bene perché ognuno di noi può vedere nel gesto di Gesù un compito che è affidato anche a lui. In fondo il gesto della liberazione non ha nulla di strano: è un'ingiunzione allo spirito del male ad uscire da quella creatura, è una parola forte che si propone di portare liberazione e speranza in una vita oscurata dalla presenza mortificante del male. E in quel male ci è lecito ravvisare ogni male di cui soffrono i nostri fratelli, ogni situazione di disagio, di abbandono, di strazio, di scoraggiamento. In Gesù ci viene offerto un segno chiaro, senza alcuna ambiguità: Dio non esita ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro ciò che ci tiene in schiavitù, Dio impegna se stesso fino in fondo per la nostra felicità. Per questo il suo Figlio si è fatto uomo. Per questo non esiterà a lottare a mani nude contro ogni cattiveria e contro ogni odio, contro ogni brutalità e contro ogni menzogna. Fino a ferirsi. Fino a venir condannato alla morte di croce. Fino a versare il suo sangue. Storia di un amore che non sopporta l'umiliazione, l'abbruttimento, il sopruso, l'emarginazione. Storia di un amore che non si manifesta attraverso proclami, ma con gesti precisi, costosi, audaci, in cui la liberazione dell'uomo comporta rischi e costi molto alti. Storia di un amore che possiamo annunciare solo se siamo disposti a compiere gli stessi gesti, a fare le stesse scelte.
Con i quattro ex pescatori, ora suoi discepoli, è a Cafarnao. Di sabato entra e parla nella sinagoga. C'è molta gente. La sua parola provoca un ascolto eccezionale. Tutti stanno a orecchi aperti. Non si sente nemmeno il movimento del respiro. In tutti c'è un grande stupore: avvertono di trovarsi davanti a un uomo fuori del comune. Lui non conosce che l'aramaico, la lingua dialettale; non ha studiato la Scrittura presso alcuna scuola rabbinica; è un illustre sconosciuto. Eppure parla con autorità. Gli scribi e i rabbì del tempo sono dei 'ripetitori'; Gesù no. La sua è una parola che genera meraviglia, perché è novità assoluta, parla di Dio come uno che 'ci vive dentrò, da sempre. Leggendo i vangeli si nota come questo sia il suo stile costante. Possiamo davvero chiamarlo l'uomo che stupisce. Il 'maligno' è molto più acuto della gente: non è preso dallo stupore, ma dalla rabbia e dall'odio. Egli sa che quell'uomo di Nazaret è venuto a sbancarlo dal suo trono. Il suo dominio indiscusso sull'uomo è finito. È scoccata l'ora di fare i conti con «il Cristo di Dio». E Gesù davanti a lui non si piega, perché ha qualcosa in più degli altri uomini: egli è «il Santo di Dio» e il maligno lo sa. Nello scontro è Cristo che vince, ma non con la forza dialettica, Gesù non discute con il demonio. Gli impone addirittura di «tacere e di andarsene». Cristo non scende a patti con lui. Può discutere con il peccatore pentito, mai con colui che compie il male con piacere. Il pasticcio in cui l'uomo d'oggi è impantanato è proprio questo: andare a braccetto con Dio e con il diavolo. Non esiste più distinzione: bene e male, onestà e disonestà, fedeltà e adulterio, purezza e lussuria, danaro pubblico e danaro sporco sono realtà così intrecciate da non essere più riconoscibili. L'arte del doppio gioco, della doppia morale, della doppia coscienza, è pane quotidiano. Gesù ha una parola che taglia come una spada, che fa male, che invita a scegliere, che scuote, che libera e salva. Questa pagina di vangelo ci mette con le spalle al muro e ci invita a fare delle scelte precise, che abbiano il sapore di una libertà interiore ritrovata. A costo di apparire di un altro mondo. Infatti, noi cristiani siamo «nel mondo, ma non del mondo». Di fronte a Gesù che insegna, qual è il nostro atteggiamento? Di fronte a Gesù che ingaggia la sua lotta contro il male, quali comportamenti ci sono richiesti? "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?" Anche nelle nostre "possessioni", nei nostri limiti, compromessi... abbiamo bisogno di essere "rovinati". La parola di Dio scuote e toglie la "tranquillità" di chi la predica e a chi l'ascolta. A volte essa fa male, ma è un male, come nel caso dell'ossesso del vangelo, che si converte nel nostro vero bene. Gesù è venuto per accendere una speranza nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E tutti subito percepiscono che la sua parola non è come quella degli scribi. Perché Gesù non si limita a commentare quello che Dio ha detto, magari con dotti riferimenti. No, la sua parola nasce da un'esperienza di Dio, da una comunione con lui che è del tutto unica. È questa la fonte della sua «autorità».
Un annuncio, però, per quanto consolante, non può bastare. Una buona notizia può riscaldare il cuore, può ridare fiducia a chi ormai si è rassegnato, può risollevare da terra chi non ce la faceva più ad andare avanti... Ma viene il momento in cui c'è bisogno di vedere dei segni concreti, di quel cambiamento che è stato annunciato. Ed è proprio quello che Gesù fa', in giorno di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Mostra come Dio provi compassione per le nostre infermità e si impegni, in prima persona, nella lotta contro il male: il male fisico e quello, più profondo, che intacca l'anima, il male che coincide con la cattiveria del cuore e quello che ha i connotati di una prigionia, da cui non si riesce più ad uscire con le proprie forze. Marco, nel suo racconto, è abbastanza sobrio e quasi avaro di particolari: ci presenta un uomo, «posseduto da uno spirito immondo» che è lì, nella sinagoga. E mette sotto i nostri occhi l'azione di Gesù che libera questa persona dalla sua sofferenza, dalla sua lacerazione, dalla sua schiavitù. È bene, tutto sommato, che la descrizione di quell'uomo e della sua malattia sia generica. È bene perché ognuno di noi può vedere nel gesto di Gesù un compito che è affidato anche a lui. In fondo il gesto della liberazione non ha nulla di strano: è un'ingiunzione allo spirito del male ad uscire da quella creatura, è una parola forte che si propone di portare liberazione e speranza in una vita oscurata dalla presenza mortificante del male. E in quel male ci è lecito ravvisare ogni male di cui soffrono i nostri fratelli, ogni situazione di disagio, di abbandono, di strazio, di scoraggiamento. In Gesù ci viene offerto un segno chiaro, senza alcuna ambiguità: Dio non esita ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro ciò che ci tiene in schiavitù, Dio impegna se stesso fino in fondo per la nostra felicità. Per questo il suo Figlio si è fatto uomo. Per questo non esiterà a lottare a mani nude contro ogni cattiveria e contro ogni odio, contro ogni brutalità e contro ogni menzogna. Fino a ferirsi. Fino a venir condannato alla morte di croce. Fino a versare il suo sangue. Storia di un amore che non sopporta l'umiliazione, l'abbruttimento, il sopruso, l'emarginazione. Storia di un amore che non si manifesta attraverso proclami, ma con gesti precisi, costosi, audaci, in cui la liberazione dell'uomo comporta rischi e costi molto alti. Storia di un amore che possiamo annunciare solo se siamo disposti a compiere gli stessi gesti, a fare le stesse scelte.
venerdì 23 gennaio 2009
25 Gennaio 2009 - III Domenica del Tempo Ordinario
Quelle di Gesù non sono promesse elettorali o specchietti per le allodole: quando promette ai primi discepoli di farli diventare “pescatori di uomini”, (cosa ben più grande del pescare pesce) chiede qualcosa di notevole: aver fiducia in lui, mettersi DIETRO di lui, come discepoli di un maestro che indica il cammino, di CONVERTIRSI e CREDERE nel VANGELO, cioè nella bella notizia di un Dio che è venuto a sporcarsi le mani per ridare dignità e gioia a persone bloccate, angosciate, timorose. Persone che riconosce come figli amati e desiderati. Figli a cui lascia la libertà di decidere della loro vita, ma offre prospettive e risorse per prospettare e costruire qualcosa di più bello ed entusiasmante.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”: sono queste le prime parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Marco:
- è questo il tempo opportuno e improrogabile per accogliere Dio. E’ come il tempo della raccolta o della vendemmia: aspettare oltre significa rischiare di vedere i frutti della terra e del nostro lavoro marcire, rischiare di rimanere senza cibo, senza vino, senza sostentamento e senza la gioia della festa.
- E’ il tempo opportuno e improrogabile perché il Regno di Dio è vicino: è presente in mezzo a noi, come un seme che è stato seminato e che ora sta germogliando e richiede la nostra collaborazione perché diventi grande e porti frutto. Il Regno di Dio indica il fatto che è Dio finalmente a regnare, a governare, guidare: non è più il potere e il prepotere degli uomini a decidere delle nostre sorti, non è più la superbia, l’avidità, la violenza… il motore della storia, ma è il desiderio di Dio d’amore, di pace, di comunione, di fraternità, di solidarietà a voler prendere le redini delle nostre vicende umane: come un seme, Gesù, venuto in questo mondo, ma ancora presente e operante per guidarci alla realizzazione di questo mondo che tutto desideriamo, ma a cui a fatica crediamo e vi collaboriamo.
Questo nuovo mondo, questa speranza inizia con l’invito a convertirci e a credere nel Vangelo: a cambiare vita e a iniziare a credere seriamente e fermamente in questa possibilità, in un futuro diverso che possa coinvolgere il nostro presente.
Per questo Gesù passa nella nostra storia ed è capace di vedere dentro le persone che incontra, andare oltre ai loro miseri ruoli e riconoscere delle potenzialità grandi: in Simone ed Andrea, semplici pescatori, vede dei pescatori di uomini, persone capaci di raccogliere moltitudini, cercatori di uomini, scopritori di tesori sepolti in ignare persone… in particolare in Simone vede la Pietra su cui poggerà la Chiesa futura, il sostegno che darà fondamento, solidità e durata alla costruzione. In Giovanni vedrà il discepolo che trasmetterà, con la profondità del suo Vangelo, parole sublimi d’amore di Gesù. Un giorno guarderà l’adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna.
Passando anche oggi vede ciascuno di noi e vi scopre potenzialità a noi invisibili, capacità di amare che non sappiamo di avere, doni da condividere che non abbiamo mai sospettato in noi.
Penso a me, alla mia gioventù in continua ricerca, desiderosa di autenticità e di luce, e ha visto e donato un futuro di servizio, come prete e come uomo, che non avevo certo programmato per la mia vita.
Convertitevi e venite dietro di me e vi farò diventare…persone felici e realizzate. Una felicità che siamo chiamati a conquistare a caro prezzo, seguendolo su una via che prevede anche la croce, la morte, ma per poter con lui risorgere a vita nuova, piena ed eterna. A condizione di condividere il suo amore e di donarlo senza riserve.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto di Giovanni che sembra molto differente da quello riportato da Marco e con lui dai sinottici: erano loro a decidere di seguire Gesù in seguito alla testimonianza del Battista che indica in lui il Messia. Eppure alla base di queste esperienze c’è la stessa lezione: i quattro del lago, già discepoli del Battista, seguono Gesù (che li chiama o risponde alla loro ricerca dicendo di venire dietro di lui) non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono di potersi fidare di lui, fanno una esperienza che li spinge a lasciare la vecchia vita e iniziare una nuova vita incerta, ma affascinante e ben più luminosa.
Fidarsi e affidarsi precede la missione di diventare pescatori di uomini, di tirar fuori dall’invisibile i tesori sepolti, di riportare alla luce chi era sommerso nel mare dell’oscurità. Li scelse perché stessero con lui e per inviarli: c’è sempre prima una esperienza personale che siamo chiamati a fare. Gesù poi li invia, come oggi può inviarci a formare famiglie cristiane, a testimoniare con l’amore coniugale l’amore di Dio: come portare avanti questo compito grande senza una esperienza personale in Dio? Come donare sapore e gioia nelle nostre famiglie se non attingiamo tutto ciò dalla fonte? Quante volte ci limitiamo a portare nelle nostre case solo la nostra fatica, le ansie quotidiane, le frustrazioni che ci avvolgono? I nostri figli e i nostri coniugi hanno bisogno del nostro amore come noi abbiamo bisogno del loro: ma possiamo portare amore anziché frustrazione solo se ci dissetiamo alla fonte. Non sarà allora mai tempo perso, tempo rubato alla famiglia o alla società quello che dedichiamo alla preghiera, al servizio, alla formazione spirituale, ma tempo risanato che ci carica e ci fornisce di doni da condividere. Solo così il nostro mondo si trasformerà pian piano nel regno di Dio, nel regno d’amore.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”: sono queste le prime parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Marco:
- è questo il tempo opportuno e improrogabile per accogliere Dio. E’ come il tempo della raccolta o della vendemmia: aspettare oltre significa rischiare di vedere i frutti della terra e del nostro lavoro marcire, rischiare di rimanere senza cibo, senza vino, senza sostentamento e senza la gioia della festa.
- E’ il tempo opportuno e improrogabile perché il Regno di Dio è vicino: è presente in mezzo a noi, come un seme che è stato seminato e che ora sta germogliando e richiede la nostra collaborazione perché diventi grande e porti frutto. Il Regno di Dio indica il fatto che è Dio finalmente a regnare, a governare, guidare: non è più il potere e il prepotere degli uomini a decidere delle nostre sorti, non è più la superbia, l’avidità, la violenza… il motore della storia, ma è il desiderio di Dio d’amore, di pace, di comunione, di fraternità, di solidarietà a voler prendere le redini delle nostre vicende umane: come un seme, Gesù, venuto in questo mondo, ma ancora presente e operante per guidarci alla realizzazione di questo mondo che tutto desideriamo, ma a cui a fatica crediamo e vi collaboriamo.
Questo nuovo mondo, questa speranza inizia con l’invito a convertirci e a credere nel Vangelo: a cambiare vita e a iniziare a credere seriamente e fermamente in questa possibilità, in un futuro diverso che possa coinvolgere il nostro presente.
Per questo Gesù passa nella nostra storia ed è capace di vedere dentro le persone che incontra, andare oltre ai loro miseri ruoli e riconoscere delle potenzialità grandi: in Simone ed Andrea, semplici pescatori, vede dei pescatori di uomini, persone capaci di raccogliere moltitudini, cercatori di uomini, scopritori di tesori sepolti in ignare persone… in particolare in Simone vede la Pietra su cui poggerà la Chiesa futura, il sostegno che darà fondamento, solidità e durata alla costruzione. In Giovanni vedrà il discepolo che trasmetterà, con la profondità del suo Vangelo, parole sublimi d’amore di Gesù. Un giorno guarderà l’adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna.
Passando anche oggi vede ciascuno di noi e vi scopre potenzialità a noi invisibili, capacità di amare che non sappiamo di avere, doni da condividere che non abbiamo mai sospettato in noi.
Penso a me, alla mia gioventù in continua ricerca, desiderosa di autenticità e di luce, e ha visto e donato un futuro di servizio, come prete e come uomo, che non avevo certo programmato per la mia vita.
Convertitevi e venite dietro di me e vi farò diventare…persone felici e realizzate. Una felicità che siamo chiamati a conquistare a caro prezzo, seguendolo su una via che prevede anche la croce, la morte, ma per poter con lui risorgere a vita nuova, piena ed eterna. A condizione di condividere il suo amore e di donarlo senza riserve.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto di Giovanni che sembra molto differente da quello riportato da Marco e con lui dai sinottici: erano loro a decidere di seguire Gesù in seguito alla testimonianza del Battista che indica in lui il Messia. Eppure alla base di queste esperienze c’è la stessa lezione: i quattro del lago, già discepoli del Battista, seguono Gesù (che li chiama o risponde alla loro ricerca dicendo di venire dietro di lui) non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono di potersi fidare di lui, fanno una esperienza che li spinge a lasciare la vecchia vita e iniziare una nuova vita incerta, ma affascinante e ben più luminosa.
Fidarsi e affidarsi precede la missione di diventare pescatori di uomini, di tirar fuori dall’invisibile i tesori sepolti, di riportare alla luce chi era sommerso nel mare dell’oscurità. Li scelse perché stessero con lui e per inviarli: c’è sempre prima una esperienza personale che siamo chiamati a fare. Gesù poi li invia, come oggi può inviarci a formare famiglie cristiane, a testimoniare con l’amore coniugale l’amore di Dio: come portare avanti questo compito grande senza una esperienza personale in Dio? Come donare sapore e gioia nelle nostre famiglie se non attingiamo tutto ciò dalla fonte? Quante volte ci limitiamo a portare nelle nostre case solo la nostra fatica, le ansie quotidiane, le frustrazioni che ci avvolgono? I nostri figli e i nostri coniugi hanno bisogno del nostro amore come noi abbiamo bisogno del loro: ma possiamo portare amore anziché frustrazione solo se ci dissetiamo alla fonte. Non sarà allora mai tempo perso, tempo rubato alla famiglia o alla società quello che dedichiamo alla preghiera, al servizio, alla formazione spirituale, ma tempo risanato che ci carica e ci fornisce di doni da condividere. Solo così il nostro mondo si trasformerà pian piano nel regno di Dio, nel regno d’amore.
venerdì 16 gennaio 2009
18 Gennaio 2009 – II Domenica del Tempo Ordinario
Giovanni e Andrea, discepoli del Battista, fissano lo sguardo su Gesù che passa.
Anche noi Fissiamo lo sguardo, cioè affiniamo il nostro sguardo interiore, diamo spazio al "dentro" come l'adolescente Maria, perché il Signore Gesù passa. Passa nelle nostre vite, mescolato alle tante persone, ai tanti avvenimenti, alle tante preoccupazioni. Passa il Signore e corriamo il rischio di perderlo, travolti dalle troppe cose che ci ingombrano il cuore e la vita.
"Ecco l'agnello" dice il rude Giovanni, spiazzato anche lui nel vedere l'atteso mischiato all'immensa folla dei penitenti in coda per ricevere il battesimo. Attonito, il più grande dei profeti, spiazzato (lui!) per l'inatteso volto del Messia. Lo vede e lo indica ai suoi due discepoli, e profetizza: "ecco l'agnello".
L'agnello, animale mansueto, mite, che non si fa notare, che si lascia uccidere senza neppure belare. L'agnello che richiama la capra cui venivano addossati i peccati del popolo il giorno dello Yom Kippur, giorno dell'espiazione, per poi essere mandata nel deserto a morire per le infedeltà di Israele. L'agnello: profezia, intuizione, stupore nel vedere un Messia nascosto e determinato, un Messia che ha già scelto di stare con gli ultimi, di portarne la fatica e il peccato, di condividerne la fragilità e il tormento.
I discepoli, sentendolo parlare così, seguono il Nazareno.
E' sempre qualcuno che ci indica il Signore, sempre qualcuno che ce ne ha parlato, ce lo ha indicato. Poi sta a noi seguire, scegliere, divenire discepoli. Ma la fede si comunica così: da bocca a orecchio, da vita a vita. Se siete discepoli, amici, qualcuno vi ha parlato del Rabbì, qualcuno che già era discepolo. Se qualcuno conoscerà il Rabbì, sarà attraverso la vostra esperienza, la vostra luce interiore.
Giovanni Battista non è un guru che si specchia nell'adorazione dei suoi seguaci: si stacca da loro con forza, vuole che essi, ora, crescano nella conoscenza autentica di Dio.
Vero modello del Pastore, il Battista rifiuta di essere al centro dell'attenzione, accetta volentieri di sparire per nascondersi dietro quella Parola cui egli ha imprestato la voce.
Una volta raggiunto Gesù, questi si volta e, sorprendentemente, chiede ai due discepoli di Giovanni: "Che cercate?". Potremmo a ragione tradurre "Che volete?". Cosa cerchiamo quando ci mettiamo alla ricerca di Gesù? Chi cerchiamo veramente?
E' una domanda all'apparenza dura e che pure rivela il profondo rispetto che Gesù ha nei confronti della nostra umanità. Può succedere, e lo vediamo, che la fede non sia ricerca, ma rifugio; che Dio non diventi Signore ma padrone; che la sua azione non sia grazia ma supplenza alle mie difficoltà... esiste, cioè, un modo di avvicinarsi alla fede che non ci fa crescere come uomini, ma che ci fa fuggire i problemi.
Il Signore mette a fuoco il senso della ricerca dei due discepoli, li invita a non lasciarsi andare al facile entusiasmo ma a riflettere sulla loro sequela. Anche per noi la ricerca della fede può essere un momento passeggero, euforico, legato ad un momento particolarmente carico di emotività.
Il Signore ci scrolla: vuole accanto a sé degli uomini consapevoli delle loro scelte.
La risposta dei discepoli rivela tutta l'insicurezza della loro scelta: "Maestro, dove abiti?". Non cogliete una richiesta di certezze in questa domanda? Un dire: "Prima di seguirti, facci vedere dove ci conduci"? Quanto bisogno di certezze abbiamo prima di poterci fidare... Quanti "se" e "ma" mettiamo prima di dire il nostro "sì" definitivo al Signore. E' lui che, allora come oggi, ci risponde: "Venite a vedere".
Non chiedere, fidati, muoviti, fa' diventare questa ricerca un'esperienza, investi...
La fede - quante volte lo dico! - non è "fare", "sapere" ma "conoscere".
Noi per primi siamo chiamati ad andare a vedere, noi per primi siamo chiamati a fare l'esperienza della sequela. Ed essi andarono. videro e restarono con lui. Dopo essersi fidati restano, accettano, si lasciano coinvolgere.
L'annotazione finale di Giovanni è simpaticissima: "erano circa le quattro del pomeriggio". Quel giorno, quell'istante, è così importante per lui che segna l'inizio di una vita nuova.
Sono passati forse sessant'anni da quell'evento e il discepolo ricorda l'ora precisa, tutto è cambiato, ormai, per Giovanni e Andrea: quel giorno è stato come l'inizio di una nuova Creazione.
Per chi incontra il Signore i giorni non sono più uguali, ma diventano gravidi di una luce nuova. Ecco ciò che ci attende nell'ordinarietà del nostro tempo: l'incontro con il Signore, l'esperienza della sequela. Se sapremo ogni giorno spalancare gli occhi e riconoscere l'Agnello che passa, potremo cambiare la nostra esperienza di vita in autenticità e in maggiore luce interiore.
Anche noi Fissiamo lo sguardo, cioè affiniamo il nostro sguardo interiore, diamo spazio al "dentro" come l'adolescente Maria, perché il Signore Gesù passa. Passa nelle nostre vite, mescolato alle tante persone, ai tanti avvenimenti, alle tante preoccupazioni. Passa il Signore e corriamo il rischio di perderlo, travolti dalle troppe cose che ci ingombrano il cuore e la vita.
"Ecco l'agnello" dice il rude Giovanni, spiazzato anche lui nel vedere l'atteso mischiato all'immensa folla dei penitenti in coda per ricevere il battesimo. Attonito, il più grande dei profeti, spiazzato (lui!) per l'inatteso volto del Messia. Lo vede e lo indica ai suoi due discepoli, e profetizza: "ecco l'agnello".
L'agnello, animale mansueto, mite, che non si fa notare, che si lascia uccidere senza neppure belare. L'agnello che richiama la capra cui venivano addossati i peccati del popolo il giorno dello Yom Kippur, giorno dell'espiazione, per poi essere mandata nel deserto a morire per le infedeltà di Israele. L'agnello: profezia, intuizione, stupore nel vedere un Messia nascosto e determinato, un Messia che ha già scelto di stare con gli ultimi, di portarne la fatica e il peccato, di condividerne la fragilità e il tormento.
I discepoli, sentendolo parlare così, seguono il Nazareno.
E' sempre qualcuno che ci indica il Signore, sempre qualcuno che ce ne ha parlato, ce lo ha indicato. Poi sta a noi seguire, scegliere, divenire discepoli. Ma la fede si comunica così: da bocca a orecchio, da vita a vita. Se siete discepoli, amici, qualcuno vi ha parlato del Rabbì, qualcuno che già era discepolo. Se qualcuno conoscerà il Rabbì, sarà attraverso la vostra esperienza, la vostra luce interiore.
Giovanni Battista non è un guru che si specchia nell'adorazione dei suoi seguaci: si stacca da loro con forza, vuole che essi, ora, crescano nella conoscenza autentica di Dio.
Vero modello del Pastore, il Battista rifiuta di essere al centro dell'attenzione, accetta volentieri di sparire per nascondersi dietro quella Parola cui egli ha imprestato la voce.
Una volta raggiunto Gesù, questi si volta e, sorprendentemente, chiede ai due discepoli di Giovanni: "Che cercate?". Potremmo a ragione tradurre "Che volete?". Cosa cerchiamo quando ci mettiamo alla ricerca di Gesù? Chi cerchiamo veramente?
E' una domanda all'apparenza dura e che pure rivela il profondo rispetto che Gesù ha nei confronti della nostra umanità. Può succedere, e lo vediamo, che la fede non sia ricerca, ma rifugio; che Dio non diventi Signore ma padrone; che la sua azione non sia grazia ma supplenza alle mie difficoltà... esiste, cioè, un modo di avvicinarsi alla fede che non ci fa crescere come uomini, ma che ci fa fuggire i problemi.
Il Signore mette a fuoco il senso della ricerca dei due discepoli, li invita a non lasciarsi andare al facile entusiasmo ma a riflettere sulla loro sequela. Anche per noi la ricerca della fede può essere un momento passeggero, euforico, legato ad un momento particolarmente carico di emotività.
Il Signore ci scrolla: vuole accanto a sé degli uomini consapevoli delle loro scelte.
La risposta dei discepoli rivela tutta l'insicurezza della loro scelta: "Maestro, dove abiti?". Non cogliete una richiesta di certezze in questa domanda? Un dire: "Prima di seguirti, facci vedere dove ci conduci"? Quanto bisogno di certezze abbiamo prima di poterci fidare... Quanti "se" e "ma" mettiamo prima di dire il nostro "sì" definitivo al Signore. E' lui che, allora come oggi, ci risponde: "Venite a vedere".
Non chiedere, fidati, muoviti, fa' diventare questa ricerca un'esperienza, investi...
La fede - quante volte lo dico! - non è "fare", "sapere" ma "conoscere".
Noi per primi siamo chiamati ad andare a vedere, noi per primi siamo chiamati a fare l'esperienza della sequela. Ed essi andarono. videro e restarono con lui. Dopo essersi fidati restano, accettano, si lasciano coinvolgere.
L'annotazione finale di Giovanni è simpaticissima: "erano circa le quattro del pomeriggio". Quel giorno, quell'istante, è così importante per lui che segna l'inizio di una vita nuova.
Sono passati forse sessant'anni da quell'evento e il discepolo ricorda l'ora precisa, tutto è cambiato, ormai, per Giovanni e Andrea: quel giorno è stato come l'inizio di una nuova Creazione.
Per chi incontra il Signore i giorni non sono più uguali, ma diventano gravidi di una luce nuova. Ecco ciò che ci attende nell'ordinarietà del nostro tempo: l'incontro con il Signore, l'esperienza della sequela. Se sapremo ogni giorno spalancare gli occhi e riconoscere l'Agnello che passa, potremo cambiare la nostra esperienza di vita in autenticità e in maggiore luce interiore.
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