«Un uomo ricco aveva un
amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo
chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua
amministrazione, perché non potrai più amministrare» (Lc 16,1-13).
La
parabola di oggi, al primo impatto, potrebbe risultare quanto meno sconcertante,
poiché Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro.
Dopo le “parabole della misericordia” di domenica scorsa, siamo passati nel
capitolo 16 del Vangelo di Luca, con la parabola del fattore infedele.
C’è un
uomo ricco e, come tutti i ricchi, ha un amministratore dei suoi beni che è
accusato di sperperare i suoi averi. Il padrone lo chiama e gli dice: “Rendimi conto della tua amministrazione,
perché da adesso sei licenziato” (Lc 16,1-2). L’uomo, consapevole che il
suo comportamento disonesto gli avrebbe procurato il licenziamento in tronco, cerca
di risolvere al meglio questo problema imprevisto, ricorrendo astutamente ad
uno stratagemma, in grado di creargli amicizie e connivenze importanti per il
suo domani.
Ma osserviamo
più da vicino i fatti: nella parabola l’amministratore non ammette le sue
colpe, non si pente e non chiede scusa. Anzi, considerato che non ha più l’età
per affrontare un nuovo lavoro manuale, decisamente più pesante, e che si
vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, che fa? S’inventa una
mossa in contropiede molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo
padrone, ma questa volta a fini “pensionistici”, investendo per il futuro l’utile
del suo malaffare . È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava
allora, gli paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul
totale delle entrate, ovviamente ad incasso avvenuto; allora convoca tutti i
debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, e detrae da esso l’importo
che egli riteneva destinato a lui. Insomma una truffa in piena regola, ma che per
lui truffa non è: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò incassare più
dal mio padrone, ma le investo ora che ho ancora l’autorità, per poterle riavere
un giorno dai miei debitori, in termini di amicizia, di aiuto, di collaborazione.
Sono certo che essi, a seguito della sostanziale riduzione dei loro debiti da
me registrata, mi saranno sicuramente riconoscenti!”.
È
chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver fatto
sottoscrivere ai debitori delle “cambiali” con l’importo falsificato, è da
furfante, non certo imputabile a motivazioni spirituali, teologiche o
caritatevoli.
È in
questa sua scaltrezza mefistofelica che sta infatti la sua “grandezza”: perso
per perso, costretto a rinunciare di punto in bianco alla sua sicurezza
economica, allo stipendio, al denaro contante, si crea, finché è ancora in
tempo, un investimento per il futuro che, sebbene rischioso in termini di
denaro e di ricchezza immediata, gli assicurerà comunque un ritorno di
riconoscenza, di legami commerciali, di amicizie, di collaborazione negli
affari, tutti elementi ottimali per poter ricominciare una nuova attività
redditizia.
Dice
il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore
disonesto, perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8). Una conclusione che
per noi è piuttosto difficile da concordare con l’esempio di vita e gli
insegnamenti di Gesù. Ma qui Gesù non elogia la disonestà, la malafede,
l’ingiustizia, i furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata è la sua
furbizia, la sua intraprendenza, la sua intuizione, la sua prontezza di spirito.
Doti per nulla negative, ma assolutamente condivisibili e consigliabili a chi
si adopera nel fare il bene; doti raramente riscontrabili in chi lo vuol
seguire. Tant’è che Gesù conclude la parabola, costatando un po’ amaramente: “I figli di questo mondo, infatti, verso i
loro pari, sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Una
constatazione che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato: suo malgrado, dopo
tanto impegno da parte sua, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli
delle tenebre, nei loro comportamenti negativi, sono più scaltri, più furbi,
più “svegli” dei “suoi” figli, i figli della luce. Parole, le sue, che
contengono un chiaro a pressante invito ai suoi di adottare nel bene una pari
scaltrezza, di agire da insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta
furbizia e inventiva.
Per avere
tuttavia una visione più completa del messaggio di questa pagina del vangelo,
dobbiamo tener conto anche di altre considerazioni più tecniche.
Prima
di tutto dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che ha molto a cuore
il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi,
con annessi e connessi. Egli infatti riporta sempre puntualmente gli interventi
che Gesù fa a questo proposito: come per esempio nel capitolo 12, in cui parla
della insensatezza di quell’uomo molto ricco che pensa solo ad aumentare le
ricchezze fino all’inverosimile, rimandando continuamente nel tempo la
possibilità di godersi la vita, senza capire che nessuno è padrone del tempo; per
lui la ricchezza è garanzia di felicità, ma egli “muore” da subito, infelice,
perché troppo attaccato ai soldi, perché fonda la sua vita soltanto sull’avere
e non sull’essere.
Sempre
lui, Luca, ritorna sul tema della ricchezza in questo capitolo 16, con il testo
di oggi e con quello di domenica prossima, in cui leggeremo la parabola dell’uomo
ricco e del povero Lazzaro.
Ora, il
contrasto ricchezza-povertà era una
questione sociale di grande attualità anche ai tempi di Gesù. Il termine di
riferimento era il “Mammona”, cioè la ricchezza, che veniva comunemente distinta
in ricchezza onesta e ricchezza disonesta. Ma per Gesù non c’è
distinzione: la ricchezza è sempre, in ogni caso, “disonesta” (“adikia” in greco); per Lui
l’arricchimento è sempre ingiusto, perché chi “accumula” solo per sé, inevitabilmente “sottrae” a qualcun altro: e questo si chiama “egoismo”.
Se
però scendiamo un po’ più in profondità, vediamo che il termine “Mammona”, tradotto con “ricchezza”, in ebraico contiene la
stessa radice di “amen”, un termine
che conosciamo bene e che vuol dire “così
sia”: un termine che introduce il significato di accettazione, di
benestare, dell’augurarsi un qualcosa di sicuro, di certo; un termine insomma che
dà sicurezza, su cui si può contare. E cosa c’è nella vita di veramente certo, cos’è
che dà fiducia, che infonde sicurezza? Certamente, come abbiamo visto, non è il
denaro, non l’accumulo di beni, non le ricchezze: pensare infatti che i beni
materiali procurino felicità, è pura illusione. Allora, qual è la cosa che ci dà
tranquillità, su cui possiamo contare, quella cosa che possiamo procurarci
tramite il “mammona”, la ricchezza, vivendo
cioè con la mentalità di questo mondo?
Solo l’amicizia, la “filìa”. Ce lo
dice chiaramente il testo: “mammona”, la ricchezza, che in sé è sempre “disonesta”,
deve servirci solo per procurarci “degli amici” (fìlus), “procuratevi amici
con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano
nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Attenzione però: chi sono questi “amici” in
grado di accoglierci nelle “dimore eterne”? Certamente nessun amico “fisico”, umano,
materiale, può farlo. Solamente un amico “spirituale”, un amico sincero e
fedele in qualunque frangente, un amico cui sta a cuore la salvezza della
nostra anima: un amico che si chiama “la nostra fede”, “il nostro credo”; insomma,
l’unico e vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne”, è Dio stesso.
In
questo mondo possiamo dunque farci un solo “amico” che manterrà ogni sua promessa,
un “amico” che ci salverà, che ci toglierà da ogni delusione: Dio.
Per
noi cristiani la vera ricchezza è Dio, il vero “amico” è Lui, è la fede in Lui,
l’abbandono in Lui: con Lui, la morte, il crollo di ogni nostra certezza
materiale, non è più un dramma, ma sarà il mezzo per prendere il definitivo possesso
della Vera Ricchezza, quella che non viene mai meno, quella che niente e
nessuno potrà mai distruggere.
“Chi è fedele nel poco, è
fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel
molto. Se non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà
quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la
vostra?” (Lc 16,10-12).
Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una speciale nel
molto. La fedeltà è unica.
Ma concretamente,
in cosa consiste questa fedeltà? Come possiamo definirla? È una virtù, una dote,
un “modus operandi” che ci proviene dalla fede; è la ferma convinzione che la nostra
unica, autentica ricchezza, è Dio. Se siamo convinti di ciò, allora i beni
terreni non contano, vivremo senza l’assillo continuo della loro crescita: useremo
la ricchezza per quel che serve, in nessun caso vivremo per essa; anzi la condivideremo
volentieri, senza alcun rammarico, perché non ne siamo schiavi.
Se non
possediamo questa unica “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni
nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “disonesti” verso di Lui e verso
i fratelli, nel poco come nel molto. Perché “nessun
servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si
affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona”
(Lc 16,17).
In
altre parole, solo servendo Dio possiamo vivere affrancati dalla schiavitù del
denaro: lo usiamo, ma non ci attacchiamo ad esso, non è il nostro Dio, non rappresenta
per noi la certezza, l’assoluto. Solo in questo modo Dio è il nostro Dio; solo
così il nostro cuore diventa “generosità”, “servizio”, “agape”; solo così il
nostro cuore sarà aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del
prossimo, e solo così un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della
Vita.
Dio,
nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere
scadenza, di essere imperdibile e irrinunciabile. Per questo vivere con Lui significa
tranquillità, serenità, beatitudine, gioia vera, Vita!
Noi
però, nostro malgrado, continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai
beni terreni (soldi, buon nome, prestigio, carriera, riconoscimenti sociali,
potere): siamo purtroppo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezze,
che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque
momento; per essi siamo spesso disponibili a vendere anche l’anima. Viviamo una
non vita in continua tensione: abbiamo paura di perderli, questi beni; cerchiamo
di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li
perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “Mammona” non
è un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce
solo a soffocarci con l’ansia e la paura, che ci rende la vita, di per sé
meravigliosa, sterile, vuota, arida, invivibile. Amen.