«…Ma voi, chi dite che io sia?
Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt
16,13-19).
Oggi
la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti
della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto
da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro
di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per
incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo,
averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare
senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il
motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo
ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate
da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche
senza Dio.
Diciamocelo:
per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non
ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso.
Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo
crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a
noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio per noi?
Il
vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto
della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella
domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il
catechismo su di Lui?; cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui?; cosa se ne
dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non
abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo
giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente,
in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige
tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige
semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole
che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu
sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso,
significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei
ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando
infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci
se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo
felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della
nostra vita”.
Gesù
non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la
tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il
tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro,
Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno
praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro
Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi
tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso
viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci
sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di
paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima
temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più
paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare
queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo
sperimentato la vera vita”.
Questa
risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali,
dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il
frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di
persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in
gioco la loro vita.
Le
grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il
ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della
passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando
Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha
dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E
se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In
genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare
le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta.
Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare.
Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il
nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta, perché pianificare
e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del
raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente
che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà
dopo.
Pietro
ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è
veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di
pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si
tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di
seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è
che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo
solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che
si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta
in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e
famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo
contro tutti quelli di buon senso. E
perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché
sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione
vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più.
Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e
basta!
Questo
è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una
decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se
seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi,
pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il
“buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo
avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di
fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi,
ancorati in porto.
Dio è
un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge.
Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se
stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso
sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più
facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona
azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo
fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù
dice: “Beato te, Simone, perché il Padre
mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La
fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico,
analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti, perché si è esperti in teologia; si danno
perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti,
risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una
mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore:
“Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”.
La sua è una fede sicura, una roccia;
è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante
ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo
tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”?
Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato
personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità,
il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta
può farci anche cadere; ma ci fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta;
ci fa guardare nuovamente in avanti, ci fa ripartire con decisione, con la stessa passione
di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”,
fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio,
rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione,
la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il
nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la
nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti,
noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché
tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati
dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per
carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il
sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica
che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi,
realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile,
dell’ozio, dell’indifferenza.
Il
nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore,
al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di
riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e
di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori;
dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene,
respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni”
di viaggio e di avventura.
Vivere
la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa
uomini e donne veri fino in fondo;
perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci
porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo
paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è
vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al
centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un
senso.
Dio ci
ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della
potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha
incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre.
Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci
sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un
fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non
esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci”
ma non “la fine di tutto”. Il mistero
della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per
chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli
che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno
mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole
cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha
paura.
Solo dopo
aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo
allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare
Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e
vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto
ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.
«Io sono il pane vivo, disceso
dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è
la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58).
La
festa liturgica di oggi è abbastanza recente. Risale al 1264 quando il Papa
Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini in ricordo del miracolo successo al
sacerdote boemo Pietro di Praga: questi dubitava che nella Messa ci fosse la
presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del
vino; per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba
dell’apostolo Pietro. Durante il viaggio di ritorno in patria, fece sosta a
Bolsena per la celebrazione eucaristica: e qui, alla frazione del pane, l’ostia
diventò miracolosamente carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue. Pietro,
impaurito da tale fenomeno incredibile, avvolse tutto nel corporale di lino e
nel fazzoletto purificatoio, posti sull’altare, che rimasero entrambi
vistosamente intrisi di sangue, e fuggì in sacrestia. Durante il tragitto alcune
gocce di sangue caddero anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare.
Se andiamo ad Orvieto, nel famoso duomo, possiamo ancora oggi ammirare e
venerare questi oggetti sacri macchiati di sangue, come pure le lastre di marmo
sulle quali sono ancora visibili le tracce di sangue cadute per terra.
In
questa festa del Corpus Domini, dunque, la Chiesa ci ricorda che nel pane e nel
vino consacrati c’è veramente il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando noi “mangiamo”
il pane consacrato, non mangiamo soltanto un pezzo di pane ma ci nutriamo e ci incontriamo
a tu per tu con Lui. Durante la messa noi celebriamo un sacrificio: il dono che
Gesù fece di se stesso per la nostra salvezza, offrendo la sua carne “per la
vita del mondo”. “Fate questo in memoria
di me”.
Il
vangelo parla più volte di “mangiare la
carne” e “bere il sangue”.
Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben comprenderne
i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse, furono tacciati anche
di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del resto, il verbo trðgw, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare. Quindi quando venivano
riproposte queste parole di Gesù, la gente estranea pensava giustamente che i cristiani
mangiassero realmente carne umana.
Gesù,
invece, vuol dire tutt’altra cosa. Con queste parole Egli invita i suoi discepoli
a diventare una sola cosa, un
tutt’uno, con Lui e in Lui, esattamente come il pane mangiato diventa noi, e
noi diventiamo il pane mangiato: in altre parole il cibo assunto, una volta metabolizzato,
diventa noi stessi: forza, vigore, azione, produttività. Non a caso, quando due
si amano veramente, si dicono: “Ti mangerei”; perché il “mangiare” l’altro,
produce appunto l’unione perfetta, l’unione ideale più ambita,la fusione totale
di due esseri in uno: Io in te, tu in me.
In
quest’ottica, pertanto, nel mangiare l’Eucaristia, ciascuno di noi è chiamato a
lasciare il suo “uomo vecchio” per diventare “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui. Dobbiamo lasciare il nostro “io”, la nostra identità, per
diventare il corpo di Cristo, per assumere la sua identità, l’identità del “Dio
in noi”.
E non
si tratta di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il prendere
cibo: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio, un’assimilazione, lenta,
studiata, progressiva.
In altre
parole una “conversione”, un diventare “l’Altro”. Nei vangeli, tutti quelli che
hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli stessi di prima. La loro è stata
un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra “esperienza”? Cosa
ha cambiato Dio nella nostra vita? Quanto, dove, come, Dio ci ha “sconvolto”
l’esistenza? Che fuoco ha acceso dentro di noi? Quali paure, quali blocchi
psicologici, quali “infatuazioni”, Dio vuole che superiamo?”.
Se non
si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che non abbiamo una vera,
autentica fede. Vuol dire che se continuiamo ad essere “noi stessi”, se
continuiamo a rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, non potremo
mai diventare “Lui”. Un minimo di buona volontà, di coerenza, di
coinvolgimento, ci deve pur essere: per il resto, “sufficit tibi gratia mea” –
dove tu non puoi arrivare, ti verrà in aiuto la mia grazia.
Il nostro
“incontro” con Gesù, che noi riviviamo in ogni Eucaristia, è pertanto un incontro
di “comunione”: Egli cioè offrendosi
a noi in cibo, in alimento, permette alla nostra “materialità”, al nostro essere “carnali”,
la trasformazione in “esseri spirituali”:
assumendo cioè il suo “cibo di vita”, noi arriveremo gradualmente a vivere
della sua vita vera.
Ma
come è possibile? Gesù parte da una semplice constatazione: la vita si mantiene,
grazie al “dono” da parte di altre vite; noi, per esempio, non ci siamo dati la
vita da soli: siamo nati, siamo entrati nella vita, grazie ai nostri genitori!
Nostra madre ha pianto, sofferto, si è preoccupata per noi, ha perso notti,
riposo, ha sacrificato “anni di vita” per noi: è il suo dono. Nostro padre ha
lavorato, si è sacrificato, ha fatto molte rinunce per noi: è il suo dono per noi.
Noi respiriamo l’aria del cielo: è il dono del cielo per noi. Siamo cresciuti,
abbiamo rinvigorito la nostra vita mangiando carne, frutta, verdura, ecc.: un
dono di altre vite e della terra per noi. Tutto quello che riguarda la nostra
vita, pertanto, è un dono di altri: e per potersi conservare, è necessario che
altri continuino a sacrificarsi.
La
vita peraltro non è nostra: non è mia, non è tua: non è di nessuno. È un dono
che ci viene fatto, ma non la possediamo. La vita è il dono che Dio ci fa; di
conseguenza, il modo con cui la viviamo, è il dono che noi facciamo a Dio. E
come ci è stata donata gratuitamente, così anche noi, vivendola degnamente, dobbiamo
farne dono gratuito ad altri.
È proprio
qui che sta l’essenza della felicità: infatti il motivo per cui tanti uomini e tante
donne sono infelici, sta nel fatto che non hanno un traguardo valido, un motivo
profondo, per cui valga la pena di vivere. Hanno la vita (un dono) ma non sanno
metterla a frutto (non la spendono per gli altri), e la dissipano giorno dopo
giorno.
Presi
dall’euforia della mediocrità, dell’apparire, pensano di essere eterni. Ma
sbagliano di grosso. La nostra esistenza è come una candela: una volta accesa,
si consuma. La vita è così: un arco che nasce, cresce, arriva all’apice,
decresce, muore. E non abbiamo altre vite di riserva o di scorta. La vita è una
sola e passa, ci piaccia o no; non si può conservare all’infinito: è illusorio
pretendere di fermarla con falsi accorgimenti: possiamo ricorrere a lifting di
ogni genere, a liposuzioni estreme, ad interventi ripetitivi di chirurgia
estetica; possiamo fare incetta di titoli onorifici, di fama, di gloria; possiamo
accumulare denaro e rendite: è tutto inutile, prima o poi la fine arriva per
tutti. Totò diceva: la morte è la grande “livella”, rende tutti uguali. È così.
Ecco allora
l’importanza di avere un progetto valido di vita, una missione da compiere, una
fondata ragione per vivere: cosa
pensano di risolvere quelli che tirano a campare, che si lasciano vivere nei
bar, nelle chiacchiere, nei giudizi malevoli, nelle critiche velenose, che
passano il loro tempo davanti alla tv, nelle continue liti e beghe, pur di fornire
qualche apparente emozione ad una vita che di emozioni non ne ha, ad una vita
completamente arida?
Inutile
scuotere il giogo: il momento delle risposte arriva anche per noi: e dovremo darcele,
guardando in profondità, in faccia a noi stessi: “È in questo modo che voglio vivere la mia vita? Ne vale proprio
la pena?”. Già, perché spesso la gente, e noi per primi, “buttiamo via” la vita
per delle cretinate. Non ci rendiamo conto che la vita, invece, è un dono
grande... un dono che non si può buttare via impunemente. Se solo pensassimo a quanto
sarebbe diversa, se la innestassimo direttamente a quella di Dio!
E, in
proposito, Gesù in ogni Eucaristia continua a ripeterci: “Prendete, questo è il
mio corpo; prendete, questo è il mio sangue” (Mc 14,22-23). Che in estrema
sintesi significa: “Figlio mio, la tua vita è un dono e l’unico modo di viverla
è che tu faccia come ho fatto io, che tu viva questo dono che ti ho fatto, donandoti
a tua volta. Fai della tua vita un dono per il mondo”.
Ma
cosa dobbiamo fare in particolare per vivere come Gesù ci ha insegnato? Tutti i
vangeli nel descrivere l’istituzione dell’Eucarestia, o la moltiplicazione dei
pani, si servono immancabilmente di tre parole sempre uguali: prendere, benedire, spezzare.
Evidentemente
attribuiscono a tali parole una particolare importanza, le considerano dense di
significati e di simbolismi. Ed è proprio in tali parole che anche noi, ogni
volta che celebriamo l’Eucarestia, possiamo ritrovare il senso autentico del nostro
originale programma di vita, quello che Gesù stesso ci ha chiamati a svolgere e
a vivere:
1) Prendere: Gesù, nella moltiplicazione
dei pani, prende quel poco che c’è:
sono ben poca cosa 5 o 7 pani e pochi pesci, di fronte ad una folla enorme da
sfamare. Avrebbe potuto dire: “Che ce ne facciamo di tanto poco?”. Invece
prende quello che c’è, anche se è pochissimo, anche se è senza valore, anche se
è insufficiente per quanto gli serviva. Anche noi pertanto dobbiamo imparare a
prendere in mano il poco che siamo. Noi invece non accettiamo quel poco che
siamo; vorremmo sempre essere “altri”: per questo accampiamo scuse e rimandiamo
continuamente ogni impegno; siamo sempre inconcludenti: “Se fossi così, se
avessi questo o quello, se non mi fosse successa quella cosa, se gli altri fossero
diversi, se avessi saputo...”. Dio però ci ha voluti così come siamo: e anche
se siamo insufficienti, egli ci offre l’opportunità di fare della nostra vita
un miracolo, il “nostro” miracolo. Dobbiamo partire da quel poco che siamo,
accettandoci. Siamo così e andiamo bene così. Se Dio ci avesse voluti diversi
ci avrebbe creati diversi, ma avrebbe voluto da noi anche cose diverse. Per cui
ogni mattino, quando ci alziamo per iniziare una nuova giornata, diciamo: “Sì,
Signore, io sono io, vado bene così. Non devo essere “diverso”, non devo essere
uguale all’altro. Mi accetto così come sono, perché con il tuo aiuto so di
poter fare grandi cose!”. Così pure dobbiamo accettare gli altri per quel che
sono, con la loro personalità, con i loro pregi e i loro difetti, perché amare gli
altri, significa proprio questo: “Tu sei così, sei questo, e ti amo così come
sei. Volerti cambiare ad ogni costo, volerti diverso, vorrebbe dire amare
qualcun altro che non sei tu”.
2) Benedire, ringraziare. Eucarestia vuol
dire proprio ringraziare, benedire, dire
bene. E noi dobbiamo ringraziare Dio perché ci considera una cosa bella, una
cosa buona: fin dalla creazione del mondo, ogni cosa da nasceva dalle sue mani,
era “tov”, era cosa bella, buona.
Anche
noi, in quanto creature di Dio, siamo pertanto “tov”, siamo una cosa bella, una cosa buona. Per questo dobbiamo benedire, ringraziare Dio; dobbiamo
ringraziarlo perché siamo sinceramente convinti di essere “tov”: di essere cioè per Dio delle creature veramente belle e buone.
Amiamolo e ringraziamolo per come ci ha fatti; è inutile cercare e invidiare negli
altri ciò che noi non abbiamo; ma ammiriamo e apprezziamo quello che abbiamo e
che siamo. È il punto di partenza per costruirci sopra la nostra vita.
3) Spezzare. Io sono un dono per me e per altri.
Un dono è qualcosa di atteso, di cercato, di desiderato. Essere dono vuol dire
che il mondo ha bisogno di noi, ci aspetta, vuole noi. Essere dono vuol dire
che noi siamo importanti per questo mondo. In che modo? Amando i fratelli,
“spezzando” la nostra vita per loro. Amare significa proprio questo: “spezzarsi” per gli altri; non nel senso
di spezzarsi in due dalla fatica o di distruggersi per gli altri, ma di fare
della nostra vita un dono.
Ogni
volta che andiamo a messa, noi ci “prendiamo in mano”, ci “benediciamo” e ci “spezziamo”.
“Ci trasformiamo”, cioè, come il pane e il vino, in dono di Dio.
Noi siamo
un dono, un tesoro, siamo preziosi... ma spesso non lo sappiamo. Tutto è dono: il
dono di Gesù è di averci fatto conoscere il Padre (la conoscenza di Dio); il
dono del Padre è averci inviato Gesù su questa terra. E noi cos’abbiamo da
donare? Da quale ricchezza iniziale dobbiamo attingere? Che “albero da frutto”
siamo nella nostra vita? Pensiamoci e provvediamo di conseguenza! Amen.
«Dio ha tanto amato il mondo da
dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma
abbia la vita eterna» (Gv 3,16-18).
Oggi è
la festa della Trinità. Ma cos’è la Trinità? Cosa vuol dire che Dio è Padre, Figlio
e Spirito Santo? Cerchiamo a grandi linee di conoscere questi tre aspetti di
Dio.
Dio è Padre,
ed è in cielo: lo abbiamo conosciuto attraverso suo figlio; abbiamo cioè capito
che Gesù ha un Padre, perché parla spesso con Lui, si rivolge a Lui
amorevolmente; è un Padre che è sempre presente nella sua vita, anche se talvolta
assente: per esempio lo ha riconosciuto esplicitamente in varie teofanie, ma poi
non è intervenuto a salvarlo dal supplizio della croce, nonostante egli lo
avesse pregato intensamente. Un Padre che è anche nostro Padre, pur non correndo
sempre a risolvere immediatamente i nostri problemi. Egli sa veramente ciò di
cui abbiamo bisogno: i suoi disegni sono diversi dai nostri; ma è Lui che dobbiamo
pregare, come Gesù stesso ci ha raccomandato e insegnato: è insomma un Padre vicinissimo
anche se può apparire talvolta lontano; è quaggiù e lassù, al di fuori del
tempo e dello spazio.
Dio è
Figlio, è il Dio che si è fatto uomo in Gesù, accettando in tutto la nostra
condizione umana su questa terra. Gesù Cristo è il Dio che si incarna nel tempo
e nello spazio della storia, che prende forma, umanità, visibilità. Gli
apostoli e i primi cristiani lo hanno conosciuto di persona: hanno sentito le
sue parole, hanno ascoltato le sue parabole, hanno visto i suoi miracoli, hanno
toccato con mano la sua forza, la sua passione, la sua verità e non hanno avuto
dubbi: “È veramente il Figlio di Dio”. E infine la sua resurrezione dai morti ne
ha dato ampia conferma: poi però, dopo essere apparso per confortarli, se ne
va.
Lo
Spirito è invece il Dio che sarà sempre presente tra noi. I primi cristiani, subito
dopo la partenza di Gesù da questo mondo, lo hanno sperimentato – e anche noi
continuiamo a sperimentarlo - in una maniera nuova, difficile da capire e da
comprendere; Gesù è sempre presente dentro di noi come Spirito, come energia,
fuoco, ardore, speranza, lotta, fiducia. Il Dio Amore che lega
indissolubilmente Padre e Figlio, continua a vivere in noi, come in ogni
creatura.
Ebbene,
queste esperienze di Dio, vissute dagli apostoli e dai primi cristiani, diviene
nel corso degli anni il dogma della Trinità: l’Unico Dio, cioè, vive in Tre
persone, distinte, diverse, ma non separate; è sempre lo stesso Dio, che vive e
che è presente in modalità diverse, Uno e Trino.
Ogni
volta che noi ci facciamo il segno della croce non facciamo nient’altro che
invocare questo dogma, questa verità di fede: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questa
è dunque la grande verità: Dio è Famiglia, è più persone. Le tre persone della
Trinità sono in un continuo dono reciproco d’amore, in una continua “relazione”
fra di loro. Una relazione che caratterizza il loro essere, la loro essenza: non
esiste l’una senza l’altra.
Sant’Agostino
nel suo De Trinitate definisce così
la Trinità: il Padre è l’Amans, il
Figlio è l’Amatus e lo Spirito Santo
è l’Amor. C’è insomma un Dio che fa
il “Padre”, l’amans, l’amante, colui
che dona. C’è un Dio che è donato, il “Figlio”, l’amatus, il dono. E c’è l’amor,
lo “Spirito”, la relazione d’amore che li lega insieme.
Dio quindi
è Relazione, è rapporto, è connessione, è unione: «Dio ha tanto amato (gapw) il mondo, da donare (d°dwmi) il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
La
festa della Trinità ci fa capire che tra due persone, fra me e te, quello che conta
di più, quello che è più importante, non sono né io né tu, ma è la relazione che
intercorre fra di noi. Non siamo cioè noi, presi individualmente, che rendiamo
felice l’unione tra due persone, non sono le nostre qualità personali, ma è la
qualità del nostro rapporto, è il “come” ci relazioniamo.
La
maggior parte delle persone pensa, ad esempio, che la felicità coniugale dipenda
dal trovare o meno la “persona giusta” con cui condividere la propria esistenza.
Condiziona cioè il raggiungimento della felicità di una vita, all’incontro con
uno che detenga un “pacchetto magico della felicità” già pronto e confezionato.
Ma il principe azzurro non esiste, è un personaggio delle favole. Non possiamo demandare
ad altri la responsabilità di farci vivere felici. È un traguardo che va
costruito insieme: perché ciò che rende una vita meravigliosa non sono gli
altri, per quanto buoni siano, ma è la qualità delle relazioni che noi instauriamo
con loro. Pensiamo infatti solo per un attimo: cosa succederebbe se in una relazione
noi non sapessimo “dare”? Succederebbe che l’altro, prima o poi, si stancherebbe
di aspettare. E così di seguito: se in una relazione noi non sappiamo ricevere,
l’altro non si sentirà mai importante. Se noi non stimiamo l’altro, l’altro si
sentirà umiliato. Se non stimiamo noi stessi, costringeremo l’altro a farci
sempre da mamma, a incoraggiarci, a dirci che ne abbiamo le capacità, che ce la
possiamo fare. Se non vogliamo crescere, l’altro si sentirà imprigionato. Se vogliamo
che le cose rimangano sempre uguali, l’altro si sentirà morire. Se siamo convinti
di non valere, di essere inadeguati a tutto, ci attaccheremo morbosamente all’altro.
Se non siamo mai ottimisti, vitali, gioiosi, divertenti, finiremo per contagiare
l’altro con la nostra negatività, rendendo la relazione pesante e invivibile.
Dio è
relazione. Dio è l’Amore. Il nostro amore deve essere pertanto “relazione”. L’amore
è un movimento circolare continuo, una compenetrazione (pericoresi trinitaria) di due persone che si danno e che si
ricevono, che si donano e che si accolgono. L’amore è quell’intervallo di
spazio che esiste tra l’io e il tu, spazio in cui si crea il noi: l’amore è dove io non sono “io” e tu non sei “tu”, ma io e tu siamo
“noi”.
Tutto
ciò che esiste è creato ad immagine della Trinità: ognuno di noi ha bisogno di
vivere in sé stesso i tre elementi che la costituiscono. Se ne manca uno non c’è
comunione, perché la comunione è data dalla loro presenza in contemporanea:
1) L’amans, il Padre, il genitore. Noi tutti
dobbiamo essere amantes, gli amanti,
coloro che amano. L’amans è colui che
prende l’iniziativa, che va, che non guarda cosa fanno gli altri: non guarda se
fanno di più o di meno di lui. Lui ha dentro di sé l’amore, e lo dona
gratuitamente. È il “genitore” per eccellenza: è talmente pieno d’amore che lo
dona, lo riversa sugli altri. L’amore è dare, è donare. Ma per dare dobbiamo essere pieni, altrimenti
credendo di dare, pretendiamo di ricevere. Siamo pieni d’amore? Lo doniamo.
Siamo pieni di gioia? La doniamo. Siamo pieni di vitalità? La doniamo. Siamo pieni
di allegria? La doniamo. Siamo pieni di felicità? La nostra gioia diventa
iniziative, voglia di creare unioni, condivisioni, momenti gioviali.
Non possiamo
mai dare ciò che non abbiamo. Luca parla chiaro in proposito: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon
tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male,
perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6,45). Chi dentro ha
rabbia sarà sempre arrabbiato e ogni occasione sarà buona per arrabbiarsi; chi
dentro ha tristezza vedrà tutto nero, tutto negativo e tutto pericoloso; ma chi
dentro ha la gioia, trasmetterà serenità; e lo si può riconoscere dal volto, dai
gesti, dalle parole e dai sorrisi che dona a chi incontra. La nostra vita esteriore
non è nient’altro che la proiezione della nostra vita spirituale, interiore.
2) L’amatus, il Figlio, il bambino. Il Figlio
è colui che riceve. Tutti noi abbiamo bisogno di ricevere. Abbiamo bisogno di
coccole, di tenerezza, di ascolto, di gioia, di ridere, di lasciarci andare, di
sentirci accolti, riconosciuti, amati. Il bambino è colui che si apre e riceve.
Tutti siamo bambini. Ma a volte vogliamo ricevere senza aprirci. Vorremmo che
gli altri ci ascoltassero, ma noi non vogliamo chiedere. Vorremmo tenerezza,
affetto, ma non vogliamo mostrarci vulnerabili o bisognosi. Vorremmo conforto,
protezione, ma non vogliamo farci vedere piangere o sofferenti. Vorremmo
sentirci riconosciuti ma quando qualcuno ci fa un complimento o ci dice: “Ti
voglio bene”, noi ci sottraiamo, ci sentiamo imbarazzati. Per ricevere dobbiamo
invece aprirci, dobbiamo accettare di essere vulnerabili.
3) C’è
poi l’amor, lo Spirito, l’amore, l’unione,
il legame, l’essere adulti: io sono io
e tu sei tu; l’amore, è ciò che ci unisce
entrambi. Se però pretendo che tu “divenga” me, io ti uccido. Se invece io
divengo te, mi uccido. L’amore non vuole cambiare l’altro: tu sei tu. Se
cambierai, è una scelta tua. Io ti amo, non ti cambio. È l’adulto che fa così:
io ti amo e non mi aspetto che tu cambi. Lo faccio perché l’amore nasce dal mio
cuore, dal mio essere, da ciò che io ho dentro. Non voglio nulla in cambio. «Infatti se amate quelli che vi amano, quale
merito ne avete?» (Mt 5,46); non è più amore, è solo interesse, è un barattare
qualcosa!
L’amore
è ciò che fa vivere. L’amore fa vivere tutto ciò che vive. Amore è che l’altro
sia al massimo, sia se stesso anche se ciò è contro il suo volere o le sue
idee.
Cosa
vuol dire per noi, nel nostro lavoro, essere amore, essere unione? Cosa vuol dire essere amore con il nostro
fratello? Cosa vuol dire essere amore con chi non sopportiamo? Madre Teresa, o
Teresa di Lisieux, dicevano: “Oggi sarò l’amore”. E vivevano così quella
giornata. Abbiamo di che imparare.
La
festa della Trinità, per concludere, ci dice che Dio, il Tutto, è collegato al
tutto; dice cioè che noi siamo in relazione con il Tutto (Dio) e con il tutto (gli
altri). Siamo cioè interconnessi fra noi. Siamo collegati, interdipendenti.
Nessuno
allora può più dire: “A che serve fare il bene, se poi sono l’unico a farlo?”.
Nessuno può più pensare in questo modo, perché tutto quello che facciamo comporta
realmente delle conseguenze per noi, per gli altri, per il mondo intero.
A noi invece
piace molto pensarci “unici”, separati dagli altri: “La vita è mia e faccio
quello che ne voglio”. E invece no: se urliamo, se bestemmiamo, se viviamo nel
rancore e nella rabbia, la risonanza delle nostre azioni, dei nostri
sentimenti, si diffonde e si riverbera nel mondo. Se, invece, amiamo
incondizionatamente, se viviamo nel perdono lasciando andare e cadere l’odio e
la rabbia, se compiamo gesti di bontà gratuita, se abbiamo compassione e
tenerezza, tutto questo si riflette in noi, nella nostra famiglia e nel mondo. È
la Trinità che ce lo ricorda: siamo collegati al Tutto e il tutto è collegato a
noi. Tutto è in relazione e la relazione è tutto. Amen.
“Mentre erano chiuse le porte
del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù,
stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”.
I
discepoli sono terrorizzati. Cosa sta succedendo? Gesù è morto, lo hanno ucciso.
Poi è risorto, molti di loro lo hanno rivisto, qualcuno lo ha anche toccato con
mano. Infine, dopo averli incontrati in Galilea, se ne è andato definitivamente:
“Ora che sarà di noi?”, si dicono perplessi. È un momento difficile per loro, un
momento di crisi profonda, radicale, decisiva. E li possiamo capire. Quante
volte anche a noi, trovandoci in una situazione altrettanto difficile,
apparentemente senza sbocchi, non viene naturale pensare: “Ora che faccio?”.
Ma
ecco la Pentecoste: cosa succede esattamente in questo giorno? Essi fanno un
salto qualitativo decisivo, la loro vita subisce un totale sconvolgimento: da
una comprensione del loro ruolo limitata, bassa, esteriore, terra-terra,
passano ad un livello di cognizione decisamente superiore, profondamente interiore:
dall’esteriorità passano cioè all’interiorità. Se prima si lasciavano guidare
dai sensi, ora è il loro cuore, è ciò che hanno dentro che li illumina sul da
farsi.
Questo
passaggio di livello lo possiamo cogliere soprattutto nella prima lettura di
oggi, tratta dagli Atti (sono essi e non i Vangeli che descrivono nel dettaglio
la discesa dello Spirito sugli apostoli); e lo percepiamo attraverso l’analisi
di tre immagini:
1. Il
vento (At 2,2): non si tratta tanto di un vento esteriore, materiale, atmosferico,
ma di un vento interno, un “soffio” spirituale. È il vento della libertà, dell’apertura, dell’amore; un
vento che tutti possono avere: solo se uno ce l’ha, ha il coraggio di uscire,
di esporsi al giudizio della gente, di affrontare le sfide, di osare, di
rischiare, di esprimersi per quello che è, ecc. Se non abbiamo questo “vento”
dentro di noi, siamo ancora nella stessa condizione degli apostoli prima della
Pentecoste: pieni di paura (20,19).
2. Il
fuoco (At 2,3): le lingue di questo fuoco non sono fisiche; è un fuoco che brucia
dentro, una passione che ci arde l’anima. È la forza, il tormento, la tenacia,
l’ardore, il coraggio; è “l’essere presi”; è il giocarci fino alla fine per una
causa o un motivo, è l’entusiasmo, è la vitalità che ci brucia e arde dentro. Anche
qui, se non abbiamo questo fuoco, continuiamo ad essere come gli apostoli prima
della Pentecoste: freddi senza motivazioni, senza impulsi, rinchiusi in noi
stessi.
3. Parlare
le lingue (At 2,8-11): non è che di punto in bianco parlino materialmente tutte
le lingue del mondo. Tutti li capiscono, è vero, qualunque sia il paese
d’origine: ma ciò è possibile perché la nuova lingua che parlano, è la lingua
del cuore, la lingua dell’amore; quella lingua che tutti capiscono, che fa
rivivere, che fa vibrare l’anima, che parla al cuore.
Gesù
non c’è più: a livello storico, materiale, Gesù non lo vedono più come prima,
non gli possono parlare più come prima. Ma lo sentono con loro, dentro di loro,
ad un altro livello, più alto, più spirituale: lo sentono dentro di loro come
libertà, come passione, come coraggio, come amore; e da questo punto di vista,
Lui è sempre con loro, più di prima.
Ma ritorniamo
a noi: anche a noi serve un salto di qualità: serve anche a noi lo Spirito. Se
continuiamo a rimanere sul livello esteriore, materiale, non avremo mai certezze,
non avremo sicurezze, non avremo coraggio; perché è nell’intimo, è nello
Spirito che ci inabita, che troviamo il coraggio di osare, di capire, di salire
sempre più in alto.
Prendiamo
per esempio l’andare in chiesa: se noi non facciamo un vero salto di fede, continueremo
ad essere dei semplici esecutori materiali, distaccati e superficiali, di
regole esteriori. Quello che sentiamo a livello materiale sarà pertanto: “Sono a
posto, sono in “regola”. Ma siamo sufficientemente bravi anche per Dio?”. Se ci
confrontiamo sul livello spirituale, infatti, sentiamo che Dio non è qualcuno da
tenersi buono, per paura di castighi, ma qualcuno di cui innamorarsi, di cui
appassionarsi; di qualcuno che per amore ci fa cambiare modo di pensare,di credere,
di vivere.
Oppure
guardiamo la nostra insoddisfazione: a livello materiale noi cerchiamo di
risolverla distraendoci, divertendoci, magari con un viaggio, con questo o
quello, pensando che ciò ci renderà felici; o magari pensando che si tratta di
una cosa passeggera, che prima o poi passerà; quindi aspettiamo. A livello
spirituale, invece, il traccheggiare, il rimandare, il perdere tempo, non
esiste; dobbiamo fare un salto decisivo: perché se non troviamo un senso
profondo per cui vivere, un motivo che catalizzi le nostre energie, saremo
sempre insoddisfatti.
Cos’è allora
che ci salva? Solamente se facciamo un salto al nostro interno. Se riusciamo cioè
a dare un nuovo senso alla nostra vita, un senso più vero, più profondo, più
spirituale, insomma diverso.
Il nostro
compito primario – come ci insegna la Parola di oggi - è infatti quello di
trasformare il materiale in spirituale. Il grande simbolo che ci deve ispirare è
il Crocifisso. La croce è formata da due bracci: uno orizzontale e uno
verticale. Su quello orizzontale ci sono le braccia aperte di Gesù che prende,
accoglie, raccoglie, accetta tutto ciò che c’è nel mondo: odio, cattiveria,
ingiustizia, morte, tradimento, ecc. Su quello verticale c’è la persona di Gesù
che porta, eleva, trasforma tutto questo in opera di salvezza. Per questo
possiamo dire che se la Croce, da un punto di vista materiale, storico, è un
obbrobrio di ingiustizia, di sadismo, dal punto di vista spirituale è la nostra
salvezza, è lo strumento con cui Lui ci salva. Gesù cioè per mezzo della croce dà
un senso alle ingiustizie del mondo e all’odio stupido e ingiusto che riceve
dall’umanità. Ma ciò che gli è capitato, ha un senso? Storicamente no, è una
brutalità, una bestialità. Ma con la Pentecoste Gesù ci fa capire, trasforma il
non-senso terreno della croce, in senso spirituale di salvezza, il non senso in
opera di redenzione.
Gesù è
il Sommo Sacerdote (sacrum facere=rendere
sacre le cose). Gesù sacralizza questa umanità che lo ha ucciso e continua a
ucciderlo. È Pontefice (pontem facere=gettare
un ponte): è colui cioè che fa da ponte, che mette in contatto il materiale con
lo spirituale, l’uomo peccatore con Dio Amore e misericordia.
Tutti
noi siamo pertanto chiamati ad essere sacerdoti (pontefici): tutti noi dobbiamo
trasformare il materiale in spirituale. Perché solo così tutto ciò che ci succede
viene elevato, trasformato, sacralizzato. La materia diventa spirituale; ciò
che è basso diventa alto e ciò che è senza senso inizia ad averlo per noi. E
quando il sacerdote trasforma un po’ di pane (materia) in Corpo di Cristo
(Spirito) e un po’ di vino (materia) in sangue di Cristo (Spirito), ci siamo
anche noi su quell’altare, sacerdoti della nostra vita, per trasformare,
elevare, sacralizzare i nostri giorni e ciò che ci succede. Tutto è spirituale
per chi ha lo Spirito nel cuore. Tutto è materiale per chi non si eleva e non
diviene sacerdote della propria vita.
La
festa di Pentecoste esprime appunto la grandiosa verità che Dio abita dentro di
noi. Dio non è più presente fisicamente
in mezzo a noi, Dio è presente in noi con il suo Spirito.
Se noi
chiediamo alle persone cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa
rispondere. E non sa rispondere perché non lo conosce, non ne ha esperienza,
non lo ha mai vissuto.
Molti
pensano che lo Spirito sia un qualcosa che si “aggiunge”, che si attacca a
quello che già siamo; e poiché ci sta bene così come siamo, dello Spirito possiamo
anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di
più, un’aggiunta, un accessorio: è qualcosa di noi, del nostro essere, un
qualcosa che ci fa essere. Lo Spirito
di Dio non decide di scendere su di noi in un certo giorno della nostra vita;
egli abita in noi da sempre, ci ha fatto nascere.
Altri
pensano che lo Spirito sia in
contrasto, sia incompatibile con la materia, con
l’uomo: per loro spirituale, equivale
a disincarnato, fuori dal mondo; quando
pensano ad una persona spirituale si
immaginano un santo monaco che vive fuori dal mondo, che prega in solitudine e
che odia tutto ciò che esiste nel mondo. Nulla di più sbagliato. Queste persone dovrebbero
infatti leggere un po’ di più il vangelo e prendere nota di quanto “materiale” sia stato Gesù: mangiava,
beveva, faceva festa, si divertiva, toccava e abbracciava. E con tutto ciò non possiamo
certo dire che non fosse spirituale!
Essere
spirituali, quindi, non è pregare molto, fare tante cose religiose, frequentare
la chiesa, fare penitenze, compiere pellegrinaggi o dire rosari. Essere
spirituali vuol dire vivere in modo che tutte le nostre azioni, i nostri
pensieri, la nostra vita, confermino all’esterno la presenza dello Spirito di
Dio che è dentro di noi. È semplicemente un modo di vedere e di vivere le cose.
Materia
è infatti il pane della domenica sull’altare. Ma Spirito è quando vediamo in
quel pane, il Pane, il Cristo. Materia è quando vediamo in una persona solo uno
che ci disturba, uno che scoccia, uno che ci dà fastidio. Spirito è quando
iniziamo a vedere in essa un fratello che soffre, uno che ha un cuore e un’anima
bisognosi d’amore.
Materia
è quando vediamo al mattino soltanto un altro giorno di lavoro. Spirito è
quando vediamo nel nuovo giorno un regalo divino, un’altra opportunità che ci
viene regalata dall’alto per sperimentare la vita.
Materia
è quando qualcosa ci fa innervosire. Spirito è quando iniziamo a chiederci il
perché, il che cosa dobbiamo imparare o che cosa dobbiamo cambiare del nostro
comportamento o del nostro modo di pensare. Materia è mangiare, spirito è
gustare. Materia è respirare (avviene in automatico), spirito è essere
consapevoli del nostro “soffio” (non a caso ruah,
spirito, in ebraico vuol dire anche “soffio”). Materia è sentire il canto degli
uccelli, spirito è ascoltare il canto
degli uccelli.
Tutta la
nostra vita può essere quindi terribilmente materiale o terribilmente
spirituale; piena di buio o splendente di luce. Tutto può essere materia o
tutto può essere spirito: dipende solo ed esclusivamente con quali occhi noi
guardiamo: se con quelli del corpo o con quelli dell’anima, dello “Spirito”. Amen.
«Io sono con voi tutti i
giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,16-20).
Gesù è
vivo; è risorto; e incontra i suoi discepoli.
Li incontra in Galilea: come mai
in Galilea e non in Gerusalemme, dove già si trovavano? Perché la Galilea è il luogo
della vita (Betlemme) mentre Gerusalemme è il luogo della morte. In certi
luoghi, come in certe persone, non possiamo incontrare il Signore: sono “ambienti”
di morte, vuoti, dove regna solo l’odio, l’invidia, la rabbia. Li incontra poi
“sul” monte che aveva loro fissato (l’articolo determinativo indica che si
tratta di quel preciso monte e non di uno a caso; proprio quello e nessun
altro). Di che
monte si tratta? Matteo fa capire di conoscerlo molto bene: è il monte delle
beatitudini.
Su
quel monte Gesù ha tracciato le linee chiave della nostra vita cristiana: avere
cioè un cuore grande, in modo da poter contenere il mondo; essere vulnerabili, in
modo da poter percepire Dio, sentire la gioia e il dolore proprio e di ogni
uomo; avere un cuore vivo, che pulsa, che vibra, che sente, che piange, che
lotta, che è capace di misericordia; operare scelte radicali (“avete inteso che
fu detto, ma io vi dico”), lasciar andare ciò che non ha più senso; percepire e
manifestare il nostro scopo di vita (essere sale e luce); avere una fiducia
incondizionata e smisurata in Dio che ci protegge, lui, che nutre gli uccelli
del cielo e veste i fiori del campo; non giudicare nessuno e non credersi
superiori di qualcuno; non usare nessuna violenza, fisica, psicologica, morale,
genitoriale, per sottomettere gli altri.
Bene:
è qui, su questo “monte”, che anche noi dobbiamo incontrare Dio; è cioè in
questo contesto, a queste condizioni, che possiamo “incontrare”, fin da ora, il
Signore.
Ma in
pratica cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci per vederlo?
Il
monte delle beatitudini rappresenta il cammino che dobbiamo percorrere. Se vogliamo
incontrare Dio, dobbiamo purificare la nostra anima, rendere trasparente il nostro
cuore, portare la luce nel nostro buio profondo, cambiare i nostri schemi mentali,
rigidi e fissi.
Il
Risorto non è un’esperienza per pochi eletti: il Risorto è per tutti! Tutti
possiamo vederlo. Non solo gli apostoli, ma ciascuno di noi può incontrarlo, può
“vederlo”: purché si incammini verso la vetta di quel monte. Soltanto là
sopra, ci sarà l’incontro.
Molti
di noi dicono: “Vorrei incontrare il Signore, perché mi sento sempre così
vuoto?”. Per forza, perché noi contiamo soltanto sulle cose di questo mondo,
sulle ricchezze, sul benessere, sui soldi: quella è la nostra ricchezza; e di
quella soltanto ci fidiamo. Ma solo chi si affida completamente a Dio, solo chi
lascia le certezze e le sicurezze di questo mondo, può incontrarlo. Beati i
poveri in spirito, dice Gesù; beati i poveri che sanno perdere le false
sicurezze per trovare l’unica cosa che dà certezza nella vita: Dio. Chi invece
ha l’anima già colma di altre cose, non ha più spazio per Dio.
Altri
dicono: “Non lo sento il Signore, non mi riscalda, non mi dà niente, è solo un
bel pensiero; a che mi serve andare in chiesa se non percepisco nulla?”. Non lo
sentono, perché lo ignorano: ogni volta che “stanno male” non pensano a Lui, fanno
finta di niente, non ascoltano la voce del cuore. Rifiutano di accettare le
prove della vita, le sofferenze. Quando queste emergono fanno di tutto per
annegarle, per dimenticarle, per accantonarle. E in questo modo si sono costruiti
una corazza nel cuore: diventano impermeabili a tutto, praticamente morti nell’anima.
Beati gli afflitti, dice invece Gesù. Beati quelli che sanno piangere, che
sanno commuoversi, che percepiscono il proprio dolore e quello del mondo intero!
Ci
sono inoltre persone che dicono: “Mi piacerebbe venire agli incontri sul
vangelo, è che alla sera è tardi”. Altre: “Se avessi più tempo verrei di più in
chiesa”. Ma a questi signori dobbiamo rispondere: l’uomo mangia volentieri solo se ha fame. Se non c’è il desiderio,
la voglia, la brama, l’attrazione, la spinta, non se ne fa nulla, fosse pure Dio. Beati invece quelli che
hanno fame e sete di cose vere, profonde; che hanno fame di verità, di autenticità:
perché solo costoro troveranno ciò che cercano: troveranno Dio, che è la realtà
più vera, profonda e autentica.
Molti infine
sbuffano dicendo: “Questo mondo fa schifo! Non ti puoi fidare di nessuno! Tutti
ti fregano! Tutti pensano a se stessi!”. Purtroppo siamo portati a giudicare
sempre, in continuazione. Non abbiamo pazienza.
Quante
volte tagliamo corto e così pensiamo di aver sistemato le cose! Quante volte
usiamo la violenza del nostro potere: “Qui comando io!; io sono tuo padre; io
sono l’autorità, ecc. ecc.”.
Beati
quelli che, al contrario, sanno valorizzare i lati positivi del prossimo, che amano i
loro fratelli. Solo così saranno costruttori di pace, di unione, di fraternità.
I
discepoli, dunque, vedono Gesù e lo riconoscono. Alcuni però dubitano. Di che
cosa dubitano? Non certo del Signore, ma di loro stessi! “Ce la faremo a
stargli vicino, rischiando anche noi di morire, come lui?”; “cosa ci accadrà?
Ne varrà la pena? Avremo la forza per andare avanti?”.
Il
dubbio è malefico: è la piccolissima incrinatura nella diga: la farà crollare,
è solo questione di tempo. Il dubbio compromette il nostro valore, le nostre
sicurezze, la stima in noi stessi. Il dubbio è quella voce sottile ma terribile che ci dice: “Non ce la
farai; è troppo per te; non hai le forze; ma chi ti credi di essere?”. Il
dubbio crea insicurezza, paura, spezza il nostro coraggio, i nostri sogni, i
nostri slanci; la fiducia al contrario crea forza, valore e sicurezza. Gesù infatti si
fida dei suoi discepoli; crede in loro e li invia in missione: “Andate e
ammaestrate tutte le nazioni”. Vi immaginate la faccia dei discepoli? Loro
dubitano di sé e Lui li invia in tutto il mondo! Non credono in loro
stessi: ma Gesù conosce ciò che hanno dentro, conosce il loro valore, per questo li
manda.
Non possiamo
credere realmente in Dio e non credere in noi stessi. Non perché siamo dei
superman, degli eroi ma solamente perché Lui abita in noi. Se Dio è in noi
allora noi disponiamo di una forza divina. Aver fede in noi stessi non è tanto
aver fede in noi ma in chi abita dentro di noi.
Gesù ha
detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Per questo non
dobbiamo temere: se dubitiamo di noi, ricordiamoci di chi c’è con noi, ricordiamoci
di chi c’è dentro di noi.
Questa
verità dovremmo ricordarcela ogni mattina quando ci alziamo: “Anche oggi Io
sono con te: vai tranquillo”.
E
allora quando abbiamo paura: “Io sono con te”; quando ci sentiamo soli: “Io
sono con te”; quando nessuno è con noi: “Io sono con te”; quando ci vergogniamo
di noi: “Io sono con te”; quando
sentiamo di non avere le forze, quando ci vien da gettare la spugna, di lasciarci
andare: “Io sono in te”; quando non sappiamo dove trovare la forza, ricordiamoci:
“Io sono qui dentro di te”; quando non sappiamo più dove aggrapparci, cosa fare
o dove sbattere la testa, ricordiamoci: “Io sono in te”.
In
ogni situazione ricordiamoci sempre: “Io sono con te tutti i giorni”. Non ci
sarà mai un giorno della nostra esistenza in cui noi siamo soli o abbandonati.
Lui è e sarà sempre con noi, in noi.
Ricordate
il racconto “Orme sulla sabbia”? È molto bello, poetico e ci conferma questa
verità. Ve lo riporto:
«Questa
notte ho fatto un sogno; ho sognato che camminavo sulla sabbia, accompagnato
dal Signore, e sullo schermo della notte erano proiettati tutti i giorni della
mia vita.
Ho
guardato indietro e ho visto che per ogni giorno della mia vita, apparivano
orme sulla sabbia: una
mia e una del Signore.
Così
sono andato avanti, finché tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora
mi fermai guardando indietro, notando che in certi posti c’era solo un’orma...
Questi
posti coincidevano con i giorni più difficili della mia vita; i giorni di
maggior angustia, di maggiore paura e di maggior dolore...
Ho
domandato allora: “Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i
giorni della mia vita, ed io ho accettato di vivere con te, ma perché mi hai
lasciato solo proprio nei momenti peggiori della mia vita?”
Ed il
Signore rispose: “Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato con te
durante tutta il tuo cammino e che non ti avrei lasciato solo neppure un
attimo, e non ti ho lasciato...
i
giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia, sono stati i giorni in
cui Io ti ho portato in braccio”. Amen.
«Non vi lascerò orfani: verrò
da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete,
perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre
mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,15-21).
Il
vangelo di oggi è il seguito di quello di domenica scorsa: là annunciava la sua
partenza per un’altra vita, per un altro luogo dove c’è posto per tutti. Oggi
Gesù annuncia ai discepoli che se Lui se ne va, se non vedranno mai più il suo
volto, Egli tuttavia sarebbe rimasto con loro sotto un’altra forma, in un altro
modo, in maniera diversa: nello Spirito Santo: “Io pregherò il Padre ed egli vi
darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della
verità”.
Ebbene:
entrambi i brani sono accomunati dalla tristezza dei discepoli, dal loro
sentirsi soli, abbandonati, orfani, pieni di paura. E si chiedono preoccupati se
da soli riusciranno mai a farcela.
Tutti
noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di leggi, di regole
chiare e precise. Lo scopo di un maestro infatti è soprattutto quello di fare
dei suoi discepoli altrettanti maestri. Chi ci ama vuol farci adulti,
indipendenti, maturi, anche a costo che tutto ciò possa allontanarci da lui.
Ma non
si può essere sempre discepoli: ciascuno deve diventare maestro, responsabile della
propria vita.
Se Dio
avesse voluto che non ragionassimo, che non fossimo responsabili di noi, non ci
avrebbe dato il cervello. Invece se ci ha dato le gambe, vuol dire che dobbiamo
camminare. Se ci ha dato gli occhi, dobbiamo osservare ciò che ci circonda. Se
ci ha dato le orecchie, dobbiamo ascoltare. Così se ci ha dato un cervello, vuol dire che dobbiamo usarlo. Volare non significa soltanto muovere le ali, ma restare in
aria senza alcun sostegno.
La
gente crede che lo Spirito Santo sia un po’ come avere una radioricevente in
testa. Basta accenderla e una voce ci fa sentire tutto quello che ci serve.
Basta premere un pulsante e sapremo cosa esattamente dobbiamo fare. È senz’altro
un’idea simpatica, ma non funziona così!
Il
Cristianesimo non ci regala Dio: ci insegna invece a cercarlo, a meritare la sua amicizia, spesso anche con
molta fatica, e questo delude molti. Così pure il Maestro, il Consolatore, lo
Spirito, non è colui che ci guida meccanicamente, che ci offre la pappa sempre
pronta, che mette continuamente Dio in noi; ma è colui che ci aiuta a scoprire prima
di tutto noi stessi, a scoprire la realtà delle cose, e quindi ad “incontrare”
Dio: sì, perché Dio c’è già dentro di noi; non serve che qualcuno ce lo metta un’altra
volta: al massimo può aiutarci a scoprirlo, a riconoscerlo, ad amarlo.
La
gente, nella vita, preferisce quelle guide che danno ordini, che stabiliscono loro tutto
ciò che c’è da fare, come comportarsi, cosa è giusto o ingiusto, ecc. La gente ha
bisogno di sentirsi sempre bambina, infantile, di trovare dei papà, dei miti,
degli idoli da seguire, da imitare, da copiare; ha bisogno che qualcuno le indichi
per filo e per segno la strada da seguire. Ma non va bene: per un po’ di tempo
si può anche rimanere bambini, ma non per sempre. Dobbiamo assolutamente crescere
ed essere autonomi!
Poi
Gesù aggiunge ancora: “Fra un po’ non mi vedrete più”. Cioè: sto per morire, stanno
venendo per prendermi e uccidermi. Ma – aggiunge – “voi continuerete a vedermi perché
io vivo, vivo in voi, e voi vivrete”. Gesù sentiva che gli apostoli gli
volevano bene. Anche se erano uomini pieni di paura, gretti, sclerotizzati, e a
volte proprio duri a capire, tuttavia gli volevano bene, e questo bastava. Gesù
sentiva che loro lo amavano, e sentiva che le sue parole facevano breccia nei
loro cuori, sentiva che la sua vita li affascinava, che pur impauriti, erano
innamorati del suo messaggio. Gesù sente che quello che i suoi dodici amici
hanno visto, fatto, sentito, provato con lui, è entrato nel profondo del loro
cuore, della loro anima; fa parte ormai di loro e non potranno più
dimenticarselo. Non potranno più perderlo. Succede anche a noi: ci sono infatti
esperienze che abbiamo vissuto nella nostra vita che conserviamo gelosamente. Ci
sono persone, che ci hanno amato per davvero, che rimarranno per sempre con
noi, vivranno in noi. Persone che ci hanno guarito dalle nostre miserie, che ci
hanno aperto gli occhi, che ci hanno fatto vedere la verità, che ci hanno infiammato
il cuore: sono persone che, come è successo agli apostoli con Gesù, rimarranno per
sempre con noi. Nessuno potrà strapparcele via, neppure la morte.
Poi Gesù
parla dello Spirito Consolatore. Consolatore, in greco, è Paraclito. Paraclito
significa anche Avvocato, colui che è chiamato in causa per difenderci, che sta con noi
quando siamo soli. Ma Consolatore vuol dire soprattutto uno che ci aiuta, che ci
protegge, che ci sta vicino, che non ci lascia soli. Spesso anche noi ci
ritroviamo soli, persi, in balia di un mondo che vive tutt’altre cose dalle
nostre. Allora il Consolatore ci invita ad aver fiducia nel nostro cuore. Anche
se ci sentiamo soli, anche se ci sentiamo non capiti, anche se ciò che viviamo
è contrario a quello che fanno gli altri.
Il
Paraclito metterà anche grandi consolazioni nella nostra strada: metterà cioè al nostro fianco qualcuno che ha la nostra stessa sensibilità, qualcuno che ci aiuterà,
qualcuno che ci difenderà, qualcuno che ci proteggerà, qualcuno che entrerà nel
nostro mondo con rispetto e che lo capirà. É sempre stato così.
Dio ci consola mettendo nel nostro cammino i suoi angeli, persone che ci
aiutano, che condividono la strada, la nostra passione, che ci aiutano. Lui non c’è
più materialmente, ma ci sono i suoi angeli. Se ci fidiamo di questo, anche se in alcuni
giorni ci sentiremo soli, non saremo mai soli. Allora: guardiamoci attorno! Dio non c’è, ma si nasconde
sotto altri nomi. Si nasconde nelle persone che ci stanno accanto, nel nostro prossimo. Lo riconosciamo? Lo vediamo? Chi sono i nostri angeli? La
lettera agli Ebrei ci ricorda che “alcuni hanno accolto gli angeli senza
saperlo”. Ebbene, anche se non li conosciamo, accogliamoli questi nostri angeli "terrestri",
perché Dio ci parla e ci si fa vicino proprio attraverso di loro. Amen.
«Abbiate fede in Dio e abbiate
fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi
avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò
preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io
siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via» (Gv 14,1-12).
Siamo
durante l’ultima cena. Il brano del vangelo di oggi è uno stralcio del lungo
discorso di Gesù, pronunciato in tale occasione e riportatoci da Giovanni.
Finita la cena, durante la quale lava i piedi ai presenti, quasi in segno di
addio, Giuda esce frettolosamente per consegnare il Maestro ai suoi nemici.
Tutti sono preoccupati, presagiscono che sta per accadere qualcosa di molto
grave; sono sconvolti dalle parole di Gesù (il verbo greco tarasso indica una profonda agitazione, una tempesta interiore); si
sentono perduti. A questo punto mille domande sorgono impetuose dal loro cuore:
“Che ne sarà di noi? Cosa ci succederà? Dove andremo a finire? Finirà tutto? Ci
siamo sbagliati a credere in Gesù?”. E lo assediano di domande, di chiarimenti;
vogliono avere certezze.
Gesù
risponde con dolcezza: “Non abbiate paura. Abbiate fiducia in me e in Dio. Vado
a prepararvi un posto”. Cosa vuol dire esattamente? È un semplice invito a
sperare, una frase di cortesia, o si fonda su qualcosa di concreto? Gesù quindi
li rassicura: “Abbiate fede in me, ci rivedremo, state tranquilli. Vi ho mai
lasciato?”. Le sue parole sono rassicuranti, danno fiducia, perché si fondano
su tutto quello che Lui ha fatto in precedenza. Non sono chiacchiere, promesse
a vuoto: il suo è amore, che richiede da parte nostra soltanto una fiducia solida
in Lui: percepiamo dalle sue parole un qualcosa di certo, di forte, di solido;
e le esperienze che abbiamo vissuto ci dicono che possiamo fidarci e lasciarci
andare, anche se non capiamo il perché.
Purtroppo
nella nostra vita non è facile avere la “sicurezza”, contare su basi “solide”,
provare un amore “indistruttibile”: hesed
(amore fedele), in ebraico, significa letteralmente “roccia”, un amore quindi
incrollabile sul quale possiamo piantare la nostra esistenza, sapendo che
terrà, che non cederà mai.
Esiste
per caso un qualcosa di sicuro su questa terra? Assolutamente no. Per esempio quando
ci sposiamo, e ci diciamo: “Per sempre”, non esprimiamo una certezza, un dato
di fatto: è un nostro impegno, è un desiderio, un programma che intendiamo realizzare.
Così pure per le amicizie, per i rapporti, per i legami, per il lavoro, per le
convinzioni religiose, per le scelte fatte: il nostro “per sempre”, non esprime
una realtà, un dato già acquisito, già consolidato, solo perché ci siamo detti “per
sempre”; è un progetto tutto da costruire. Su questa terra non esiste nessuna
certezza eterna, perché tutto è passeggero, tutto è transitorio. Anche se per
noi è difficile accettarla, la verità è questa: “panta rei”, tutto passa, tutto diviene, nulla rimane, nulla è
certo.
Ma è proprio
vero che “tutto” passa? È proprio vero che nulla rimane “per sempre”? Nossignori:
una cosa c’è che rimane: è “l’a-more”
(dove l’a privativa e mors, morte, indicano appunto la non-morte): è l’amore, in assoluto l'unica
forza in grado di oltrepassare ogni “limite”, di superare ogni “separazione”, anche
il distacco della morte. Un giorno tutto sparirà (ma proprio tutto): solo ciò
che è amore rimarrà, perché l’amore è eterno: dura oggi, domani, dopodomani, “per
sempre”. Ecco allora che dove non c'è amore, non c'è neppure il “per sempre”, e
non c’è neppure la fedeltà: poiché è l'amore che fonda la fedeltà, non la
fedeltà che fonda l'amore.
Questo
è in sintesi il senso del “Discorso di Addio” pronunciato da Gesù nell’ultima
cena e riportatoci da Giovanni (14,13-17): “Io vi amo. Voi fidatevi del mio
amore”. La forza dei discepoli e della Chiesa si basa infatti su questi due elementi:
l’amore da una parte, la fiducia dall’altra.
Perché
i discepoli possono fidarsi di Gesù? Perché hanno visto, sentito, sperimentato
il suo amore. Le rassicurazioni umane non servono a nulla: “Ti amerò per
sempre; non ti lascerò mai; io per te ci sarò sempre; puoi contare sempre su di
me”; certo, sono parole confortanti, ma l'unica cosa che ci permette veramente di
fidarci è il “sentire” intimamente che
l'altro c'è, che ci ama, che non ci abbandonerà mai: una certezza maturata nell’esperienza
di ogni giorno.
Lo
stesso è successo con i discepoli: come mai ad un certo punto non hanno avuto
più paura? Che molla è scattata in loro, per cui dal terrore, dalla fuga, sono
passati a seguirlo, a difenderlo apertamente?
Perché
dopo la passione e la risurrezione di Gesù, in loro è pian piano maturata una
nuova “visione” di Gesù e delle sue parole: ora lo “rivedono” nelle sue
apparizioni con altri occhi; lo sentono vivo in cuor loro, lo sentono come fuoco,
passione, vita, coraggio, presenza in loro.
Tommaso
e gli apostoli, la Maddalena, Paolo, subiscono ciascuno un “trauma” dall’incontro
personale con Gesù. Non credono in Lui perché qualcuno glielo ha detto o
comandato: credono in Lui, hanno piena fiducia in Lui, perché hanno visto,
sperimentato, toccato.
Ciò
che ha cambiato e stravolto la loro vita non è stato l'incontro con Gesù il
Maestro per le strade della Palestina (già questo li aveva sconvolti
abbastanza!) ma l'incontro con il Gesù Risorto. Improvvisamente si sono accorti
di averlo dentro di loro: il Maestro, la passione, la forza, la vita, che prima
trovavano in Gesù fuori, ora ce l’hanno dentro. Gesù Risorto è in loro. Per
questo vanno dovunque gridando: “Lui vive! Lui è risorto!”. E ne sono convinti,
perché lo hanno incontrato, visto, identificato da risorto. Nei vangeli infatti
la resurrezione non è mai un discorso ma sempre un incontro tra il Risorto e la persona. Tutti i discepoli che lungo
la storia hanno seguito il Signore, lo hanno fatto perché ad un certo momento
lo hanno incontrato. È stata un'esperienza personale (nei vangeli è
un'apparizione) che ha cambiato la loro vita, l'ha sconvolta; un’esperienza che
ha dato, che ha creato nei loro cuori quella scintilla che li ha spinti a seguirlo
dovunque la sua Voce chiamasse.
Ecco: il
nostro incontro con il Risorto deve essere anche per noi una “bomba nucleare”
che ci cambia la vita, ci sconvolge, ci rende diversi. Quando si parla di “fede”
la gente pensa a un qualcosa di posticcio, uno smussare, un addolcire, un
aggiustare il nostro carattere, un diventare un po' più gentili, più buoni con
gli altri, più amabili: insomma una specie di restyling personale. Ma l'incontro con il Risorto è un uragano che
spazza via tutto e ci fa completamente diversi. Perché quando lo sentiamo presente
e Vivo dentro di noi, è impossibile rimanere come prima. E se non siamo
cambiati, se siamo sempre uguali, vuol dire che non lo abbiamo ancora incontrato.
È così. Fede è cambiare vita, è fare un incontro decisivo con Uno, dopo il
quale non possiamo mai più essere gli stessi.
Per
questo non dobbiamo avere timore, o provare imbarazzo, nel proporre ai nostri
fratelli, ai nostri amici, incontri alti, forti, profondi, duri, intensi con Gesù:
non dobbiamo vergognarci di dire alle persone che la fede è questo, altrimenti
pensano che la fede sia una preghiera, una buona azione, un gesto d'amore. La
fede al contrario è un incontro che ci cambia la vita; è un incontro con l’Amore
che ci fa vivere la vera Vita.
Ci
sono tante vie per arrivare a Dio, siamo tutti diversi, e ciascuno deve fare il
“suo” incontro; c'è
chi arriva a Dio attraverso la parrocchia, chi arriva attraverso le sofferenze
della vita, attraverso le malattie, le disgrazie; c'è chi arriva aiutando le persone
e facendo della propria vita un servizio per gli altri; c'è chi arriva con una
vita contemplativa e monastica, c'è chi arriva passando per una vita mondana;
c'è chi arriva consacrandosi solo a Dio, c'è chi arriva dedicandosi alla
famiglia.
Ma c'è
anche chi non arriva mai ad incontrare Dio: non ha interesse, è sordo, sta bene
così; pensa che siano solo “panzane” destinate a persone psicolabili, poco
furbe: è convinto di essere felice così com’è; ma si accorgerà che è solo una temporanea
illusione. E poi, tranquilli: non vuole incontrare Dio? Sarà Dio che incontrerà
lui: perché Dio prima o poi, con il suo amore arriva a tutti. È solo questione
di forma e di tempo. Amen.