«Gesù passando, vide un uomo
cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: Rabbì, chi ha peccato,
lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Gv 9,1-41
Nel
ciclo liturgico del Lezionario, dedicato quest’anno a Matteo, fanno eccezione
le ultime tre domeniche di quaresima i cui testi del vangelo sono tratti da
Giovanni. Sono le pericopi più lunghe di tutto il periodo e trattano
rispettivamente dell’incontro con la Samaritana al pozzo di Sicar (III
domenica), della guarigione del cieco nato a Gerusalemme (IV domenica) e della
risurrezione di Lazzaro in Betania (V domenica): tre argomenti dalle mille
sfaccettature, pieni di allusioni e di implicazioni pratiche difficilmente individuabili
ad una prima, veloce lettura. Giovanni, come al solito, sembra dare maggior
peso all’importanza teologica dei fatti, piuttosto che a quella storica: ma
proprio per questo è l’autore che, rispetto agli altri, eccelle nel riferire
tutta una serie di sensazioni, di emozioni, di annotazioni, di stati d’animo, estremamente
reali, che offrono al racconto una miniera di spunti meditativi.
Questo
succede anche nel vangelo di oggi, dedicato alla guarigione del cieco nato. Un
capolavoro di psicologia, una rassegna variegata di personaggi comprimari,
tutti puntualmente in preda a stati d’animo diametralmente opposti, descritti tutti
con abile realismo.
Il
motivo di fondo che domina la scena è anche qui il contrasto, l’opposizione tra
luce e tenebre, tra chi vede e chi invece è cieco.
I
personaggi coinvolti sono sei: i discepoli di Gesù, i farisei, i genitori del
cieco, ovviamente il cieco, i suoi conoscenti, e infine Gesù. Nel
vangelo sembrano avere tutti altre cose da pensare, altri interessi da seguire,
altre preoccupazioni da risolvere: il cieco è solo una comparsa: lui e la sua situazione fanno da riempitivo, non meritano attenzione! Nessuno lo vede, nessuno lo considera, tranne Gesù: Lui solo lo “vede”, Lui solo comprende i disagi causati dalla sua grave infermità, Lui solo capisce i suoi problemi, le sue esigenze. Tutti sono calamitati da altre
cose, da altre preoccupazioni.
Per
esempio i discepoli; essi dimostrano una sola preoccupazione: “Chi ha peccato? Lui o
i suoi genitori”. Sono vittime ancora dei retaggi di una arcaica mentalità ebraica: “Se uno è malato, vuol
dire che lui o qualche suo antenato ha sicuramente peccato”. Il problema dei
discepoli è quindi: “Chi è il colpevole? Dov’è l’errore? Di chi le
responsabilità?”. Sono quelli che vogliono individuare ad ogni costo il
colpevole, la causa, il responsabile; in questo modo si sentono liberi, evitano di farsi coinvolgere. “È colpa sua o di altri; noi non c’entriamo, non ci
interessa, non dobbiamo fare nulla”.
Una
mentalità molto diffusa anche oggi, questa dei discepoli. Succede qualche fatto
grave? Ci sono abusivismi edilizi, discariche a cielo aperto, figli che
uccidono i genitori, droga nelle scuole, immigrati che creano problemi? L’unica preoccupazione di questi tipi è di scaricare le colpe su qualcuno, trovare il colpevole. Così si sentono a posto, tranquilli, con la coscienza in pace. Trovato il
colpevole, vero o presunto, fatto il processo mediatico in tv, tutto cade nell'indifferenza. Ma per quanto ci riguarda, siamo proprio sicuri di essere esenti, di non avere alcuna
responsabilità su questi fatti? Ignoriamo le cause reali solo perché non le vediamo, o perché non le vogliamo vedere?
Poi
gli amici, i conoscenti del
cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui, è quello di prima”; altri “no”; altri “gli
assomiglia”. Sono quelli per i quali gli altri non contano nulla: uno può cambiare quanto vuole, ma essi fingono di non accorgersene. Dicono di amare ma in
realtà detestano che gli altri possano mutare, migliorare, diventare “altri”;
soprattutto se ciò altera il loro rapporto. Sono quelli
che etichettano la gente una volta per tutte, quelli che hanno già deciso come siamo
e come saremo, come ci comporteremo, come e cosa risponderemo o diremo. L'iniziativa altrui non è ammessa!
Poi ci
sono i genitori. A quel tempo il popolo era succube dei capi della sinagoga, ne aveva il terrore: una loro scomunica equivaleva
alla morte sociale. I genitori del cieco guarito, interrogati sull'autenticità della guarigione del figlio, hanno quindi un timore folle, cercano di non
compromettersi, e per non sbilanciarsi, non rispondono in maniera diretta: “Non sappiamo; del resto è grande, è adulto, chiedetelo a lui”. Del tipo: “Arrangiatevi;
non vogliamo complicazioni; abbiamo paura!”. Sono quelli cioè che si tirano
indietro, che non vogliono problemi, neppure quando si tratta di difendere i propri cari! Nella vita purtroppo non c’è tradimento peggiore che venir abbandonati, ignorati, messi in cattiva luce, accusati ingiustamente proprio da chi doveva proteggerci, dai nostri famigliari, da chi doveva naturalmente difenderci.
Poi ci
sono i farisei. I farisei sono quelli che si fissano troppo spesso su principi addirittura grotteschi: gente ridicola che si straccia le vesti perché uno ha fatto un amalgama di sputo e polvere, gente che si oppone a qualunque iniziativa appellandosi ai regolamenti, alle leggi, alle tradizioni: “Noi siamo figli di Mosè: la sua legge è la nostra ragione di vita; quell’uomo è
un peccatore, come si permette di vantare una guarigione avvenuta in maniera illegale? Come può pretendere di insegnare a noi?”. I farisei sono quelli che si trincerano dietro al “si è fatto sempre così!, Le regole prescrivono questo!”; quelli che hanno paura di ammettere la diversità, i mutamenti, il variare dei tempi. Hanno paura di cambiare atteggiamento,
di cambiare il loro cuore. Piuttosto negano la realtà. Sono troppo preoccupati
della loro facciata, dell’essere “allineati e coperti”, del loro perbenismo, anche se esclusivamente esteriore e formale. Sono tutti quelli che non vogliono vedere in faccia la realtà: non accettano di confrontarsi con le loro paure, con le loro manie, se la nascondono: preferiscono ignorare l’evidenza, anche perché “vedere” significa “cambiare”, significa cioè affrontare la fatica immane di una conversione personale: molto meglio quindi non vedere.
Infine, per fortuna, c’è Gesù: l'unico veramente e totalmente libero; uno che non ha nulla da perdere, che non ha paura di rimetterci la faccia di fronte alle contestazioni di chi è in cattiva fede. Gesù non deve angosciarsi di nulla: e proprio per questo si prende cura dell'uomo bisognoso e sofferente.
Così infatti, se noi siamo preoccupati di difendere la nostra faccia di “brave persone”, non potremo mai accorgerci degli altri, di un nostro comportamento inopportuno che li ferisce; se siamo pieni di rabbia, di paura, non riusciremo mai a renderci conto che le nostre reazioni non sono “difese” dettate dalla prudenza, dall'amore, ma vere e proprie “offese” dettate dal rancore. Siamo spaventati dal guardarci dentro: abbiamo paura di scoprire che la realtà non è quella che esibiamo noi.
Così infatti, se noi siamo preoccupati di difendere la nostra faccia di “brave persone”, non potremo mai accorgerci degli altri, di un nostro comportamento inopportuno che li ferisce; se siamo pieni di rabbia, di paura, non riusciremo mai a renderci conto che le nostre reazioni non sono “difese” dettate dalla prudenza, dall'amore, ma vere e proprie “offese” dettate dal rancore. Siamo spaventati dal guardarci dentro: abbiamo paura di scoprire che la realtà non è quella che esibiamo noi.
Tutte le persone che abbiamo visto, i farisei, i genitori, gli amici, hanno già tutti le loro idee: si defilano da
ogni responsabilità diretta. Ma in questo modo dov’è l’amore? Dov’è l’aver cura
del prossimo? Sono purtroppo tantissimi gli innamorati delle belle parole, delle idee grandiose, quelli che si
entusiasmano dei progetti, degli ideali, ma che poi, nella vita pratica, dimostrano di ignorare completamente le necessità delle persone: per loro non esistono, amano soltanto loro
stessi.
Ma Gesù
no: Gesù ci vede bene; ci guarda, ci stringe tra le sue braccia, si prende cura
di noi: “Vedo che stai male, che stai soffrendo; vedo che hai sbagliato nell’amare, che hai percorso una
strada senza uscita, che hai ammirato cose che ritenevi meravigliose e che non lo erano; che hai rincorso
soluzioni che poi si sono rivelate effimere: tu pensavi di sapere tutto della vita, e invece eri cieco, ti sei sbagliato. Io sono qui: se vuoi, io ti curo. Guarda che non sei destinato a
rimanere sempre cieco: torna a vedere, ritorna alla luce, ritorna alla vita”.
Gesù è amore, è fiducia, è misericordia: non giudica, ma si mette al nostro
fianco per aiutarci, per consolarci, per farci vedere ciò che non abbiamo
visto; lo fa perché possiamo tornare ad amare: “Ci sono io vicino a te, io ti
aiuto!”. Il suo scopo è forse quello di stabilire chi ha ragione, chi ha
sbagliato, di chi è la colpa, oppure quello di aiutare un cieco a riacquistare
la vista? Quello di condannare o quello di aiutare a non sbagliare più, un poveretto che si era perduto ?
Se
guardiamo nel vangelo, quando Gesù si imbatte nelle miserie della gente, mai si pone il problema del peccato. Quando passa vicino ad uno zoppo, ad una donna
senza moralità, ad un muto, ad un cieco, non si chiede mai se sono in grazia
di Dio o se sono in peccato. Gesù, se può, guarisce. Sempre. E questo succede
anche con noi; Gesù non ci chiede mai se abbiamo sbagliato, se la nostra vita è
giusta, se siamo buoni o cattivi. Gesù ci guarda, “vede” il nostro buio, e
ci aiuta. Egli non guarda mai ciò che non va in noi, il nostro lato negativo; Egli
guarda sempre e solo in positivo, guarda quello che in futuro potremo diventare. Gesù non è
un moralista; non è l’intransigente che ama giudicare e condannare, ma è il
guaritore, colui che vuole in noi la massima concentrazione di vita, di amore, di
libertà, di gioia, di fiducia.
Se una
bottiglia è vuota, come facciamo a toglierle il vuoto? Non possiamo! Possiamo
però sempre riempire quel vuoto! Se ci concentriamo sempre sul nostro vuoto, su ciò che non siamo, su ciò che non riusciamo
a fare, su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, otteniamo di noi un’immagine decisamente negativa. Ma se concentriamo il nostro sguardo su quel poco che
abbiamo fatto, su quel poco che facciamo, su quello che potremmo fare, la nostra immagine risulterà sicuramente più positiva, forse anche accettabile. Allora applichiamoci, lavoriamo
seriamente sul positivo: così, per esempio, quando parliamo di qualcuno, evitiamo di sparlare di lui, evidenziamo soltanto i suoi lati
più belli, valorizziamo ciò che ha di più prezioso: perché
così lo faremo sentire amato, importante, valorizzato; si sentirà spronato a sviluppare
tante altre sue doti positive.
Riccardo
Muti, il grande musicista e direttore d’orchestra che conosciamo, alla prova di
ammissione al conservatorio, ha conseguito il punteggio massimo. L’esaminatore però
gli ha detto: “Ti ho riconosciuto il massimo non per come suoni ora, ma per come saprai suonare un giorno”. In realtà la sua esecuzione non era stata perfetta: se l’esaminatore
si fosse limitato a valutare soltanto le sue imperfezioni, forse lo avrebbe
bocciato. Ma egli ha visto oltre, ha proiettato il candidato nel suo futuro, ha fatto leva sui suoi lati positivi, ha premiato le sue potenzialità: ed ha funzionato!
È l’amore, la fiducia, il guardare in positivo una persona che la fa cambiare, non il disprezzo, non il giudizio
temerario, non l'esasperazione dei suoi lati negativi.
Questo, in estrema sintesi, è uno dei messaggi interessanti del vangelo di oggi. Il vero peccato, ci dice, non è quello di essere ciechi, ma quello di volerlo essere a tutti i costi, di ostinarsi a non vedere. Un messaggio che va preso sul serio, senza addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo: un messaggio che si serve di parole tremende: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. Che significa? In pratica ci dice che tanta gente è persuasa di sapere solo lei cosa sia la verità; tanta gente che è convinta di essere un esempio di vita per gli altri, gente che crede di conoscere chi è Dio, gente che è convinta di essere bravi cristiani, ottimi genitori, padri, preti, ecc. Gente insomma che sa tutto, che non accetta consigli, che non sa ascoltare, che non vuole mettersi in discussione.
Questo, in estrema sintesi, è uno dei messaggi interessanti del vangelo di oggi. Il vero peccato, ci dice, non è quello di essere ciechi, ma quello di volerlo essere a tutti i costi, di ostinarsi a non vedere. Un messaggio che va preso sul serio, senza addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo: un messaggio che si serve di parole tremende: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. Che significa? In pratica ci dice che tanta gente è persuasa di sapere solo lei cosa sia la verità; tanta gente che è convinta di essere un esempio di vita per gli altri, gente che crede di conoscere chi è Dio, gente che è convinta di essere bravi cristiani, ottimi genitori, padri, preti, ecc. Gente insomma che sa tutto, che non accetta consigli, che non sa ascoltare, che non vuole mettersi in discussione.
Gesù a questa gente dice una cosa soltanto: “Siete completamente ciechi; ma, convinti
di vederci bene, pretendete di guidare gli altri. Questo è il vostro vero dramma”. Infatti:
“Come può un cieco guidare un altro cieco?”. Impossibile, è chiaro.
Che fare allora? Dobbiamo convertirci: “conversione” infatti significa risveglio, aprire gli occhi, vederci. Solo i figli
della luce sono quelli che ci vedono, che non dormono, che si rendono conto
della situazione. Gli altri, i figli delle tenebre, sono quelli che vivono nel
peccato, nell’oscurità, nella notte, nell’ignoranza.
Gran brutta
cosa voler rimanere al buio dell’ignoranza, insistere nel rifiutare la luce
dell’Amore. Anche
noi una volta eravamo ciechi; siamo entrati in questa vita con l’oscurità
nell’anima: ma poi il Signore ha fatto anche per noi il grande miracolo, chiamandoci
alla luce della fede. Il battesimo ci ha purificati, illuminati, riconciliati, salvati.
Esattamente come scrive san Paolo: “Fratelli,
un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come
figli della luce.” (Ef 5,8-14). Già, questo è il punto: per non ricadere
nella cecità, per non dimenticare la chiamata d’amore di Dio, dobbiamo
comportarci come figli della Luce. Dobbiamo cioè alimentare continuamente questa
luce che è la fede. Esserne gelosi. Perché è solo illuminati da questa luce, che possiamo produrre i buoni frutti: amore, giustizia, verità.
Questo
è il criterio con cui dobbiamo affrontare le sfide del nostro tempo: non possiamo
guardare il mondo, le sue lusinghe, le sue ideologie, attraverso gli occhi e le
interpretazioni mercenarie dei media,dei falsi profeti, che hanno interesse a
giocare nel torbido. Noi abbiamo i nostri occhi. Occhi che devono scrutare alla
Luce dello Spirito. Dobbiamo combattere lo sconforto, la rassegnazione, dobbiamo
entrare nella mischia, dobbiamo indicare alla gente quelli che sono i segnali discreti
della presenza di Dio, la sua bontà, i suoi progetti d’amore. Dobbiamo soprattutto
dimostrare con la nostra vita, di averli capiti questi progetti, di averli
fatti nostri: perché questo significa dare lode a Dio; questo significa avere fede;
questo, soprattutto, significa amare. Viviamo dunque nella luce e vivremo in
Dio. Amen.
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