«Gesù prese con sé Pietro,
Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E
fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti
divennero candide come la luce» (Mt
17,1-9).
Pietro
e gli altri che furono tra i primi a seguire Gesù non avevano ancora capito
bene chi egli fosse. Nonostante avessero passato molto tempo insieme,
continuavano a proiettare su di lui le loro personali aspettative: lo vedevano cioè
come il Messia energico, potente, l’unto di Dio, che avrebbe sistemato con la
forza e le armi la tragica situazione politica del paese occupato dai Romani,
riportandovi giustizia, pace, benessere. Questo era ciò che loro pensavano, ma
non quello che Gesù era in realtà. Era necessario quindi che la loro idea
subisse in modo spettacolare un cambiamento radicale e definitivo.
Gesù dunque
prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta sulla cima di un monte. Perché proprio
loro? Perché sono nel gruppo gli elementi più “in vista”: sceglie Pietro, uomo
di riferimento, uno “solido”, tutto d’un pezzo, personaggio già destinato ad essere
il futuro “leader”; sceglie poi Giacomo e Giovanni, i due fratelli
soprannominati i “boanèrghes”, gli ambiziosi “figli del tuono”, proprio per la
loro voglia di emergere, di primeggiare, al punto da candidarsi più tardi ad
occupare i primi posti nel nuovo Regno di Gesù. Un trio insomma che costituiva
lo “zoccolo duro” del gruppo, convinto com’era del carattere esclusivamente
politico della missione di Gesù. Erano pertanto le persone che più di ogni
altra necessitavano di uno straordinario e spettacolare “scossone”.
Se
domenica scorsa era stato satana a condurre Gesù nel deserto, adesso è Gesù che
conduce i suoi “satana” in cima al monte. E cosa succede lassù?
Improvvisamente
“vedono” apparire Mosè ed Elia, i due personaggi chiave della storia di
Israele, oltretutto mai morti ma rapiti in cielo: entrambi avevano incontrato
Dio “faccia a faccia” sullo stesso monte Sinai (detto anche Horeb): Mosè, il
promotore della Legge, della Torah, grande condottiero del popolo, l’artefice
della liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto; Elia, grande profeta
e severo restauratore della Legge, al punto da imporne a tutti l’osservanza con
uno zelo che rasentava la violenza! Quindi due “icone” della Scrittura, due
“veterani” del rapporto personale con Dio.
Pietro
come al solito reagisce per primo e dice a Gesù: “Signore, che bello per noi stare qui: se vuoi facciamo tre tende, una
per te, una per Mosè ed una per Elia” (17,4). È chiaro che è molto colpito
dalla situazione: ne è estasiato, felice, sente dentro di se esplodere gioia,
meraviglia, stupore e nello stesso tempo grande timore. Ma perché pensare subito
a delle “tende”, come a voler prolungare nel tempo quella “festa”? Per capirlo dobbiamo
rifarci alla “festa della mietitura” o delle Capanne, che Pietro conosceva
molto bene: una festa importantissima, celebrata da tutto il popolo con grande sfarzo
e solennità, dimorando per sette giorni in tende o capanne, a ricordo della marcia
nel deserto fatta dal popolo, condotto proprio dal quel grande Mosè che aveva
organizzato la fuga dalla schiavitù egiziana. Un Mosè che per Pietro meritava
il massimo rispetto, al punto da riservargli la tenda più importante, quella centrale:
era lui infatti l’esempio che Gesù avrebbe dovuto seguire, realizzando un’impresa
analoga: liberare il popolo dalla schiavitù dei Romani e porre fine all’ingiustizia
religiosa dei farisei.
A
questo punto però Matteo molto acutamente fa notare che né Mosè, né Elia
rivolgono una parola ai discepoli; non se li filano proprio, parlano solo ed
esclusivamente con Gesù. Come mai? Perché questa è la novità: l’evangelista fa
capire in pratica che Mosè ed Elia, ossia la Legge e i Profeti, non hanno più nulla
da dire direttamente agli uomini, se non attraverso Gesù. In altre parole il
Vangelo di Gesù abolisce la Legge mosaica e l’antico Profetismo; tutto ciò che
Dio deve dire, da questo momento in poi, lo dirà soltanto attraverso la persona
di Gesù, suo “figlio prediletto, nel quale si è compiaciuto” (17,5).
Per
questo, dopo il primo momento di gioiosa meraviglia, i tre si rendono conto che
quanto succede davanti a loro è “altro” rispetto alle loro supposizioni: vengono
presi dall’ansia, dalla paura, e “cadono a terra”. Capiscono di essere coinvolti
in una solenne manifestazione di Dio, e ricordando il detto della Scrittura: “Chi vede Dio faccia a faccia, muore” (Es
33,20), vengono assaliti dal terrore della morte. Cadere a terra, è segno
di disfatta (1Sam 17,49); non
capiscono il vero significato di tutto questo, ma intuiscono che la realtà è un’altra,
che i loro sogni di restaurazione politica non possono trovare in Gesù alcun
sostegno: le loro sono soltanto delle false illusioni, improponibili e irrealizzabili.
La missione di Gesù ha un altro scopo: non sanno ancora esattamente quale, ma tanto
basta per capire che il loro progetto è completamente fuori tema. E si perdono di
fronte all’ignoto.
Gesù però
si avvicina a loro, li “tocca” e li “rialza”: compie cioè gli stessi gesti
(toccare e rialzare), pronuncia le stesse parole(“non abbiate paura”), esattamente
come usa fare nelle guarigioni. E della loro guarigione si tratta: i tre infatti
si “risvegliano” guariti dai falsi programmi che avevano costruito su di Lui.
Adesso
lo vedono per quello che veramente egli è; scomparsi improvvisamente Mosè ed Elia,
rimasto “solo”, Gesù è soltanto Gesù: tutti i loro “film” precedenti sono
scaduti, privi di fondamento. Ora finalmente sono liberi di ricominciare.
È una
grande conquista l’essere liberi da condizionamenti ideologici: dobbiamo
riconoscere infatti che i “convincimenti”, le idee fisse, sono sempre e
comunque fuorvianti. Quando ci “piantiamo” su un’idea, diventiamo illogici, vediamo
solo ciò che vogliamo vedere noi: facciamo indossare agli altri delle maschere,
dei ruoli, che non corrispondono alla loro autentica natura: per cui li vediamo
non come sono nella realtà, ma come noi ce li immaginiamo.
Un
fenomeno che ci succede spesso anche quando leggiamo il Vangelo: cioè non
“vediamo”, “non capiamo”, ciò che effettivamente il testo dice, ma vediamo e
capiamo soltanto ciò che “immaginiamo” esso dica; in pratica vediamo e capiamo ciò
che fa comodo a noi.
Così,
per esempio, per tanti secoli abbiamo attribuito a Dio l’immagine distorta di
un Dio terribile, forte, vendicativo, un Dio più da temere che da amare, un Dio
esigente, che gradisce soprattutto il sacrificio, la penitenza, l’obbedienza assoluta
ai suoi precetti; un Dio che si arrabbia, che puntualmente ci punisce se non
facciamo come dice Lui. In realtà il Vangelo insegna tutt’altra cosa: nel suo
Vangelo, infatti, Gesù ha chiaramente rivelato un Dio che è Padre amoroso, misericordioso;
ci ha svelato che il Regno di Dio è libertà, è verità posto al centro del
nostro cuore e della nostra vita.
Così
pure in tantissimi anni non abbiamo mai voluto vedere in Gesù un “guaritore”
misericordioso, un innamorato dei deboli, dei sofferenti: abbiamo sempre
preferito ignorare questa sua predisposizione all’amore, interpretando i suoi miracoli
solo come manifestazione della sua divina potenza, piuttosto che della sua paterna
bontà, del suo amore, della sua misericordia, della sua umanità più piena.
Sempre
per questo motivo abbiamo volutamente sorvolato sulla cordialità dei rapporti umani
che Egli intratteneva con gli uomini, le donne e i bambini; abbiamo fatto finta
di non vedere la sua libertà, la sua generosità, la sua “passione” nelle
relazioni sia maschili che femminili; abbiamo bypassato i suoi sentimenti
umani, fino a pensare che a causa della sua perfezione divina Egli ne fosse totalmente
sprovvisto: per questo in Lui non abbiamo voluto vedere (bastava leggere!) l’uomo
che ha pianto, che si è disperato, che si è angosciato, che ha avuto paura, che
ha sopportato pazientemente rifiuti, incomprensioni, derisioni, oltraggi,
percosse e via dicendo.
Anche
noi come i tre del Tabor, dobbiamo allora fare il grande “passaggio”, dobbiamo
fare il nostro “trasfigurante” reinserimento nella vita, per vedere le cose, le
persone e Dio stesso per quello che sono, nella loro realtà e genuinità, e non attraverso
il filtro deformante dei nostri personali condizionamenti ideologici.
Questa
è stata in pratica la loro esperienza trasformante: hanno cioè “girato pagina”,
hanno “perduto” il Dio della Legge e dei Profeti, il Dio dell’Antico Testamento,
il Dio che intere generazioni prima di loro avevano conosciuto e con cui loro
stessi erano cresciuti, ed hanno “trovato” il “nuovo”, il vero, l’autentico volto
di Dio nel volto di Gesù.
Ecco,
il vangelo ci dice proprio questo: Gesù “fu
trasfigurato davanti a loro e il suo volto brillò come il sole e le sue vesti
divennero candide come la luce”. Quello che ora essi vedono è il volto di un
Gesù inedito per loro, di un Gesù nuovo, completamente diverso da ogni loro precedente
immaginazione. Le squame dei pregiudizi, degli egoismi, delle superstizioni, della
politica, sono cadute definitivamente dai loro occhi.
E
allora chiediamoci: possiamo vivere anche noi una “trasfigurazione” simile? In
tal caso, quali cambiamenti, cosa dobbiamo aspettarci in concreto di vedere?
Beh, prima
di tutto va chiarito che la “trasfigurazione” non è un fenomeno che possiamo
vedere con gli occhi fisici, ma lo possiamo percepire solo con gli occhi del
cuore, della fede. Un’esperienza, ovviamente, che sarà possibile solo a quanti dispongono
di questi occhi, a quanti cioè avranno la sensibilità di sentir nascere e
crescere dentro il loro cuore i semi di questa “trasformazione”, con la gioia
prorompente che l’accompagna, e di “viverla”.
“Dio è
amore”, dice l’evangelista Giovanni. E solo chi sa aprirsi all’Amore può capire
Dio, può immedesimarsi nella trasfigurazione di Gesù. Tutti quelli che non
sanno spalancare il proprio cuore, non potranno mai sentire quanto Lui sia Amore
e continueranno a cercare invano.
Ma a noi,
nel nostro piccolo, come e quando può capitare una “trasfigurazione”? Non è un
qualcosa riservata ai santi, alle persone votate unicamente a Dio che vivono “eroicamente”
la loro fede?
Nossignori:
tutti nella vita possono vivere attimi “speciali” di trasfigurazione”, percepire,
sentire, sperimentare la bontà, la bellezza di Dio-Amore. Così, per esempio, quando
ci succede di commuoverci davanti alla serenità di un volto sofferente, quando
usciamo vincitori dalle nostre lotte interiori, ottenendo delle piccole conquiste
spirituali; quando vinciamo le nostre paure, affrontando difficoltà che prima ci
sembravano insuperabili; quando ci capitano momenti meravigliosi, assolutamente
impensabili; quando nelle sofferenze si aprono nuovi spiragli di vita; quando
ci innamoriamo di una persona speciale; quando nel buio del dolore per la morte
di una persona cara entra la luce della rassegnazione; quando da perduti che pensavamo
di essere, ci siamo ritrovati; quando scopriamo che la nostra vita, così
piccola e insignificante rispetto al mondo, ha un senso e uno scopo particolarissimo;
quando percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità,
la ricchezza della sua anima; quando ci commuoviamo di fronte alle prime conquiste
di un bimbo, alle sue “uscite”, ai suoi occhi luminosi che ci cercano; quando
siamo rapiti dalla bellezza struggente di un tramonto, dalla luminosità prorompente
del sole che si alza dal mare, dalla maestosità regale delle vette che si
fondono col cielo, dalla leggiadria di un fiore, dal rinnovarsi perpetuo della
natura e delle stagioni. Quando, in una parola, la nostra anima si fonde in Dio
e i nostri occhi riacquistano l’innocenza dell’amore, ecco: è allora che noi viviamo
i nostri momenti di “trasfigurazione”. È allora infatti che, commossi, possiamo
avvertire tutta la forza, la bellezza, l’intensità della vita che ci scuote l’anima.
Sono quelle esperienze personali nelle quali non possiamo rimanere impassibili,
non piangere dalla felicità, dalla gioia, dalla commozione.
Una
volta pensavo che commuoversi, piangere, fosse una dimostrazione di debolezza. Oggi
so che vuol dire essere vivi, “sentire” ciò che viviamo, “sentire” ciò che gli
altri vivono; che vuol dire lasciarsi toccare, lasciarsi colpire, lasciarsi
investire da ciò che succede: non essere freddi come il ghiaccio o
impenetrabili come il marmo.
Il
mondo che non crede, ci dirà che siamo matti a voler insistere sulla fede: e nella
sua incredulità, nella sua superficialità, continuerà ad essere infelice. Noi invece,
“trasfigurati” dall’amore di Dio, saremo felici, davvero tanto, tanto felici.
Elias,
37 anni, era un uomo impegnato nella liberazione dei ragazzi dalla prigionia
delle Favelas, in Brasile. Un giorno gli squadroni della morte andarono a casa
sua e lo uccisero. Sua madre quando lo vide sanguinante gli disse: “Figlio mio,
te l’avevo detto di non occuparti di quella gentaglia!”. “Mamma, sono stato al
mondo 37 anni: ho vissuto questi 37 anni con Dio. Sono felice di ciò che ho fatto.
Lasciami andare!”. E così morì. Sul suo diario aveva scritto: “Quando incontri
Dio non puoi più essere lo stesso, non puoi più far finta di non vedere, non
puoi più tirarti indietro. Lui ti fa vivere davvero”. Amen.
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