«Era circa mezzogiorno. Giunge
una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: Dammi da bere. I suoi
discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna
samaritana gli dice: Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono
una donna samaritana? .I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. (Gv 4,5-42).
Gesù,
dopo un lungo viaggio sotto il sole, giunge a Sicar, in Samaria, e si siede
presso il pozzo di Giacobbe, chiamato così perché si trovava nel terreno che
“Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe”. È dunque qui, a questo pozzo, che
avviene l’incontro meraviglioso tra Gesù e la Samaritana, di cui ci parla il
vangelo di oggi.
Ovviamente,
come al solito, per capire bene il significato di questa situazione, dobbiamo calarci
nella logica e nella mentalità di quel tempo. Prima di tutto, perché scegliere
proprio un pozzo come luogo dell’incontro?
Per
noi, oggi, un pozzo non rappresenta nulla: ma a quel tempo era il luogo in cui
avvenivano gli “incontri” importanti della vita: il pozzo, l’acqua, era l’elemento
fondamentale, indispensabile per la sopravvivenza, per cui tutti andavano al
pozzo, uomini e donne. E data la grande affluenza, era visto come il luogo degli
incontri sentimentali, della “ricerca dell’amore”, un luogo in cui era
possibile trovare l’anima gemella o semplicemente una donna o un uomo.
Gesù
riesce a scavalcare anche qui tutti i luoghi comuni, tutte le “barriere”:
quella del sesso, perché per ad rabbì come lui, era proibito rivolgere la
parola ad una donna fuori di casa; quella della razza, perché i samaritani, a
causa dei matrimoni misti con gli impuri Assiri, erano considerati dei bastardi;
la barriera della nazionalità, in quanto i samaritani, abitanti in una regione
diversa, erano considerati dei forestieri; la barriera della religione, perché erano
considerati scismatici, impuri; infine la barriera della convenienza, perché
rivolgere la parola ad una donna, al pozzo, significava corteggiarla, farle degli
approcci, in una parola “provarci”. Gesù dunque rompendo ogni schema, parla tranquillamente
con la Samaritana.
Nella
sua vita egli fu un uomo libero, e grazie a questa sua libertà, fece degli
incontri meravigliosi. Gesù non giudicava e non condannava a priori le persone,
non si faceva preclusioni su di loro, né aveva pregiudizi: le incontrava e
basta. Non rifiutava mai nessuno. Non ha mai detto: “Questo no perché è ricco (Zaccheo);
questa no perché dicono che è una donna di malaffare (l’adultera, la samaritana);
questo no, perché lo sanno tutti che è un ladro (Levi); questo no, perché la
legge non lo permette (guarire di sabato); questa no, perché è una cosa sconveniente
(la donna che lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò);
questi no, perché sono pagani, eretici (samaritani); questi no, perché sono
peccatori (i pubblicani, le prostitute)”.
Lui
controllava tutto personalmente, voleva rendersi conto di come stavano
realmente le cose.
Un
comportamento decisamente fuori dagli schemi, a causa del quale fu considerato
un anti-dio e condannato a morte: era evidentemente un personaggio scomodo e
inopportuno soprattutto per le autorità de tempio e per tutte quelle persone
piene di regole, dalla mentalità rigida e ristretta.
Gesù
era un uomo assolutamente “libero”: talmente libero da non permettere in alcun
modo che ideologie, barriere religiose, discorsi della gente, o quant’altro, gli
impedissero di incontrare qualunque persona. Di fronte alle “regole”, alle
convenienze che dicevano: “Non incontrare costui”, Gesù diceva: “E perché no?
Lo voglio incontrare di persona, voglio parlarci, sentire il suo cuore... poi
vedremo”.
Gesù
dunque, è stanco, affaticato, accaldato: siamo verso mezzogiorno; vista la
donna che stava sopraggiungendo al pozzo per attingere acqua, senza tanti
preamboli, le chiede da bere.
Gesù è
solo: gli apostoli si erano assentati per andare in paese a cercare del cibo.
La
donna rimane interdetta dalla richiesta di Gesù e gli chiede: “Come mai tu, che fra l’altro sei Giudeo,
chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?”. È giustamente
sospettosa, perché si rende immediatamente conto che l’uomo che le ha rivolto
la parola, oltre ad essere da solo, era oltretutto uno “straniero”. Che poi
quell’uomo fosse anche un rabbino, un “maestro”, era una cosa piuttosto
insolita.
Era
quindi naturale che la donna pensasse a Gesù come ad uno che “ci provasse”. Anche
perché dopo le prime schermaglie, egli porta il discorso su di un livello molto
personale, intimo: “Va a chiamare tuo
marito e ritorna qui”.
La
donna fin dall’inizio continua a rispondere alle pressanti domande di Gesù, eludendo
il loro significato “spirituale”: continua cioè il colloquio mantenendosi su un
piano decisamente materiale, contingente; si difende bene, cerca di essere
brillante, a volte anche sarcastica (ma bene! Se hai di quest’acqua miracolosa,
che come dici tu toglie completamente la sete, dammene in abbondanza, così non
dovrò più sobbarcarmi la fatica di venire qui tutti i giorni al pozzo!); fino a
quando Gesù opera l’affondo decisivo, entrando nella sua vita privata. Con il
suo invito diretto, la mette in difficoltà, la scopre, rivela la sua debolezza.
Impreparata a ciò, la donna, sempre più diffidente, cerca di sottrarsi, fugge a
questo tipo di discorso dicendo: “Non ho
marito”.
Ma
Gesù continua, la mette di fronte alla dura verità: “Sì, dici bene di non aver
marito. Ma non perché tu non ne abbia avuti. Ne hai già avuti cinque di mariti e
questo che hai adesso in effetti non è tuo marito”. Il che tradotto in parole
povere, significa: “sei una donna di facili costumi!”.
Siamo sempre
presso un pozzo e il pozzo è simbolo di profondità. Il pozzo costringe a
scavare, ad andare a fondo per tirare fuori ciò che c’è sotto, ciò che c’è di
nascosto.
Gesù
non fa il moralista; anche se gli era capitata un’occasione unica: lui giudeo
con una donna così “disinvolta” e per giunta samaritana!: “Non ti vergogni! Ma
che razza di donna sei! Vivi nel peccato! Sei impura!”. Egli si limita a
costringere la donna ad ammettere nella sua vita una verità dura e difficile: “Ho
avuto tanti uomini ma nessuno mi ha mai riempito l’anima; nessuno è mai stato
in grado di placare la mia sete interiore”.
Ecco: Gesù
è l’unico che ci mette di fronte alla nostra verità. Gesù non fa sconti sulla
nostra vita; Lui non ci giudica, non ci condanna, ma vuole che scendiamo nel
nostro pozzo, che andiamo dentro di noi, e che tiriamo fuori le cose per come
stanno veramente.
Incontrare
il Signore è dirsi la verità, non mentirsi, non raccontarsi “balle”.
A
volte noi sentiamo che dietro le nostre affermazioni c’è qualcosa che andrebbe rivisto,
indagato, portato fuori, a galla. Ma non ci spingiamo oltre perché è meglio “non
crearci troppi problemi”. Così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all’incontro
con noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore, a tutte le sue potenzialità. Così
facendo viviamo una vita ipocrita, mascherata, non nostra: mostriamo una verità
che non è verità, una immagine falsata, un’immagine distorta, costruita a
beneficio degli altri; e così facendo fuggiamo da noi stessi. Vivere una vita
non nostra non può che portarci inevitabilmente all’insoddisfazione e all’infelicità.
La
verità è difficile da accettare quando abbiamo qualcosa da nascondere, da difendere.
La verità è l’unica strada per raggiungere Dio: perché dirsi la verità, significa
cercarla in profondità, nella nostra anima, dove Dio risiede, e incontrarlo faccia
a faccia.
Se la
donna non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono
ancora affamata d’amore”) non avrebbe potuto incontrare l’Amore vero, il
Signore Gesù, colui che toglie ogni sete.
È
chiaro che se dobbiamo difendere altre “verità”, è impossibile dirci la verità.
Se vogliamo
a tutti i costi che la nostra famiglia sia considerata perfetta, non possiamo certo
ammettere che in casa nostra ci siano dei problemi. E se ci sono, li sminuiamo,
li nascondiamo, li seppelliamo.
Se dobbiamo
difendere la nostra immagine di persone “superiori” non possiamo far vedere di
essere in crisi, non possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di essere
defettibili, non possiamo insomma rivelare la nostra debolezza, le nostre deficienze.
Quando
pensiamo che almeno le persone più care, quelle che amiamo di più, prima o poi riusciranno
a placare il nostro malessere, la nostra inconfessata sete di assoluto, di Amore,
di Dio, ci illudiamo, siamo completamente in errore; perché pretendiamo da loro
qualcosa che non possono darci. Siamo come la Samaritana: affamati di vero amore,
ma senza qualcuno che possa effettivamente soddisfarci; le persone possono farci
l’impossibile, ma a noi non basterà mai, saremo sempre insoddisfatti; inutile
pretendere da qualcuno ciò che non potrà mai darci. Commetteremmo un imperdonabile
“peccato”: peccato, in ebraico, significa appunto “sbagliare centro, non
cogliere l’obiettivo, fallire una scelta”; in tal caso avremmo completamente sbagliato
la “fonte”: perché solo Dio può colmare la nostra inestinguibile sete d’amore. “Avere
fede” significa allora non perdere mai di vista il nostro obiettivo finale, il
motivo per cui ci troviamo in questo mondo, quel “qualcosa” che dobbiamo realizzare,
seguire, vivere: quello insomma per cui Dio ci ha creati. Se viviamo per futili
motivi, se siamo concentrati solo su “obiettivi” transitori, falsi, insicuri, se
la nostra chiamata, la nostra personale “vocazione” è l’ultima delle nostre preoccupazioni,
allora vuol dire che abbiamo mancato in pieno lo scopo della nostra vita.
In
tutti i nostri rapporti umani è importante che ci sia la preghiera, lo spirito,
la fede. Se non c’è la fede facciamo di chiunque altro un falso Dio e gli chiediamo
l’impossibile.
Gesù
nel vangelo si spinge ancor oltre. Non solo dice: “Non fare di nessun uomo il
tuo Dio”, ma addirittura: “Non fare di nessuna autorità, di nessuna esperienza,
di nessuna associazione, di nessun gruppo parrocchiale, il tuo Dio”.
È
decisamente difficile per noi accettare il significato e le conseguenze delle
parole di Gesù:
“È questa l’ora in cui i veri
adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole
che siano quelli che lo adorano”.
Ma
dov’è in concreto questo Dio che dobbiamo adorare? Lo troviamo forse in chiesa,
nei vescovi, nei preti, in una liturgia solenne, nelle persone che si sacrificano
per il prossimo, in noi quando preghiamo? Forse sì, forse no. Dio non è riconoscibile
necessariamente in un “luogo” o in una “persona”. Certo, per noi è più facile e
più gratificante localizzarlo al di fuori di noi: magari seduto su di un trono
celeste, dotato di poteri magici, circondato da creature soprannaturali che lo
servono; oppure incontrarlo nelle grandi feste annuali (Natale, Pasqua), nelle solenni
liturgie, nei dogmi di fede, nelle località “religiose” più celebri e visitate,
o nella maestosità delle cattedrali. In questo modo ci risparmiamo lo sforzo di
scrutarci nel profondo, di esaminarci, di decifrare bene la nostra anima, per riuscire
ad individuare, a restituire concretezza e percepibilità al Dio, Amore assoluto,
che ci inabita.
Perché
Dio non è qui o lì: Dio è soltanto dove c’è Spirito e Verità. Questo è il
criterio. Allora nella nostra vita non dobbiamo tanto preoccuparci di “come” appariamo
esteriormente, di come gli altri ci percepiscono, se siamo brillanti,
professionali, al top, ecc., quanto piuttosto di “chi” siamo interiormente, se cioè
nel nostro parlare, nel nostro agire, nel nostro amare, traspare lo Spirito e la
Verità. Se è così, allora sicuramente Dio è in noi. Perché quando un uomo è
fedele alla sua coscienza, aderente allo Spirito, attento agli slanci del suo
cuore, Dio è in lui. Non importa se si dichiara credente oppure ateo: Dio in ogni
caso, è in lui.
Quando
un uomo trasforma se stesso nella Verità e vive alla luce dello Spirito, Dio è
in lui. Quando un uomo ama, rispetta, onora tutti gli esseri viventi, Dio è in
lui.
Un
giorno durante una conferenza fu chiesto al prete che parlava: “Ma nelle nostre
chiese, nelle nostre parrocchie, c’è Dio?”. E lui rispose: “Se c’è spirito e
verità, allora Dio c’è!”.
Non so
se nelle nostre comunità parrocchiali ci sia Spirito e Verità: so per certo però
che se ci sono, lì c’è Dio. Amen.
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