Domenica scorsa abbiamo letto il miracolo della moltiplicazione dei pani. Oggi il vangelo ci racconta quel che è successo subito dopo: la folla, entusiasta di Gesù, vuol farlo re: egli ha moltiplicato il cibo all’infinito, li ha sfamati tutti; é uno che fa miracoli, uno potente, uno che deve prendersi cura di loro; uno quindi che deve essere assolutamente il loro capo.
A questo punto Gesù scappa, ma la gente lo insegue, continua a cercarlo ovunque, e lo ritrova sull’altra sponda del lago: lo vogliono loro re ad ogni costo, vogliono avere assicurato ogni giorno il pane di farina.
Gesù questo l’ha capito bene, tant’è che li mette subito con le spalle al muro: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato e vi siete saziati”; e aggiunge immediatamente: “Quello che dovete cercare però non è tanto il cibo materiale, ma il cibo spirituale, quello che non perisce, quello che dura per la vita eterna”.
In greco ci sono due modi per dire “vita”: il primo è “bios”, che è la vita fisica, biologica, quella che inizia e finisce; il secondo è “zoè”, che è la vita interiore, la vita spirituale, quella indistruttibile, senza fine, eterna. E qui Gesù usa proprio questo termine.
Ora, tutti sappiamo bene che se non mangiamo, se non nutriamo la nostra vita fisica (bios), moriamo. È una cosa naturale, ovvia. Ma ciò è altrettanto naturale e ovvio nei confronti della nostra vita interiore (la zoè): se non nutriamo anch’essa, moriamo. Semplice, elementare! Eppure, quanti di noi si preoccupano di nutrire la loro vita spirituale? Chi ci pensa a lei, a chi sta veramente a cuore questa nostra vita spirituale? Una prova? Se ci capita di chiedere alle persone: “Come va la vita?” tutte, indistintamente, ci risponderanno, alludendo esclusivamente a quella fisica: “Si tira a campare; si va avanti; finché c’è la salute!”. E si fermano qui. Per loro l’unica vita è questa. Dimostrano di ignorare di avere un’anima. Oppure lo sanno anche, ma temono di ammetterlo, poiché immediatamente emergerebbero doveri e problematiche nei suoi confronti.
Senza accorgercene ci succede esattamente quanto accadde alla formica e alla cicala nella famosissima favola di Esopo: ricordate? La formica lavora duramente tutta l’estate, mentre la cicala si riposa sull’albero, canta e si diverte senza far nulla. Arrivato l’inverno, la formica ha la dispensa piena, la cicala invece si ritrova senza nulla. Allora va dalla formica e le chiede qualcosa da mangiare. E la formica:“Io ho lavorato duramente tutta l’estate: tu che hai fatto?”; “Ho cantato e mi sono divertita” le risponde la cicala. “Ebbene – conclude la formica - continua anche ora a cantare e divertiti!”.
Noi ci lamentiamo con Dio, ci arrabbiamo con Lui, quando ad un certo punto della nostra vita, sembra che tutto vada a rotoli: cadiamo in depressione, siamo tristi, le nostre relazioni più belle improvvisamente finiscono, si rompono; ci sentiamo abbandonati da tutti e viviamo senza riuscire a dare un senso alla nostra vita. Invece di prendercela con gli altri, chiediamoci: “Cos’ho fatto in concreto fino ad ora?” Nulla, è chiaro: ci siamo cioè comportati come la famosa cicala: non abbiamo costruito nulla.
La vita altro non è che il risultato delle nostre scelte. Alla fine troviamo solo ciò che abbiamo costruito. Tutto ciò di cui non ci prendiamo cura, che non nutriamo, che non coltiviamo, muore, si secca, si perde. All’inizio c’era, poteva crescere, ma privo di ogni nostra cura, è morto.
Se siamo la causa, anche involontaria, della morte di una persona cara, ci disperiamo, lo riteniamo un fatto drammatico, una perdita incalcolabile: perché allora riteniamo meno drammatico far morire la nostra anima? Forse che è meno drammatico far morire la vita interiore che abbiamo? È meno drammatico non poter diventare ciò che avremmo potuto essere?
“Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”.
L’importanza della vita soprannaturale! Ma di cosa si nutre l’anima? Di Dio: della sua conoscenza che ci cambia; della meraviglia, del silenzio, dello stupore di quando lo incontriamo; si nutre insomma di emozioni, di verità, di preghiera, di libertà, di autonomia, di amore, di generosità, di riconoscenza, di gratuità, di entusiasmo, di ardore, di valori, di fermezza, di cielo: in una parola di Dio.
Se non amiamo la nostra anima, se non la nutriamo, se non la usiamo, sicuramente la perderemo. Esattamente come ci succede se non alimentiamo i nostri ideali,le nostre passioni: finiremo per perdere il gusto della vita.
Poi, Gesù prosegue: “Credete in me, in colui che Dio ha mandato” (Gv 6,29).
Ma la fede dei discepoli continua ad essere insicura, non sono completamente convinti, hanno bisogno di ulteriori riscontri; per cui insistono: “Ma tu, quale segno ci dai per poterti credere?” (Gv 6,30).
Questo è il punto. Chi non crede, chiede segni, chiede miracoli, cerca all’esterno quello che non trova dentro di sé. Chi non crede, chiede qualcosa di straordinario che lo convinca a credere, anzi che lo costringa a credere: chiede cioè un segno talmente forte, di fronte al quale lui non possa fare altro che sottomettersi.
Ma non capisce che Dio non vuole dei sottomessi, non gli interessa gente che gli crede perché non può farne a meno; egli non ama le persone tappetino: vuole uomini liberi, che lo seguono non perché costretti da una legge o affascinati da un miracolo, ma perché lo amano, perché lo sentono vivo nel loro cuore.
Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? Gesù rispose loro: Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6,28-29).
Dio vuole che noi crediamo: è la fede che ci viene chiesta: la fede vera, quella mossa dall’amore, la fede che porta con sé le opere, la nostra conversione.
Quindi, niente segni sensazionali, niente giochi da baraccone: Egli non si esibisce su ordinazione. Se di miracoli parliamo, se di segni abbiamo bisogno, allora siamo noi che dobbiamo diventare dei “miracoli”, dei “segni”; e possiamo diventarlo con la nostra vita di convertiti.
Una vita che deve essere frutto di una scelta libera, di una volontà convinta.
Solo così posizioneremo nella sua giusta prospettiva la necessità di nutrimento, senza dover ricorrere, come gli antichi, a Mosè e alla sua manna. Il vero pane, quello che offre l’autentico nutrimento, quello che dona vigore e vita nuova alla nostra anima, è quello che Dio stesso ci fornisce: “Io sono quel pane”, dice Gesù (Gv 6,34-35).
Gesù è quindi il “nostro” pane. Ogni giorno noi abbiamo fame di lui, ogni giorno ne sentiamo un bisogno vitale, ogni giorno sentiamo la necessità di rimangiarlo. E Lui continua a venire ogni giorno da noi; la sua è un’offerta costante di amore, perché sa di questo nostro insaziabile bisogno di Lui. Egli ci rassicura sempre: “Eccomi, sono qui”. E ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia, e gli ripetiamo: “Ti aspettavo, ho bisogno di te!”, Lui, entrando nel nostro cuore, ci risponde dolcemente: “E io non vedevo l’ora di venire. Sono qui solo per te, per aiutarti, per amarti, per darti una mano; per guarirti, nutrirti, servirti, coccolarti, abbracciarti”.
Che c’è allora di più energetico di questo cibo, di più entusiasmante, di più divino?
E allora: per quanto ci sentiamo sporchi, indegni, falliti; per quanto ci sentiamo sopraffatti dai nostri errori, per quanto lo abbiamo rinnegato, non dobbiamo rinunciare ad accoglierlo in noi. Amen.
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