giovedì 23 luglio 2015

26 Luglio 2015 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Allora Gesù, alzati gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere» (Gv 6,1-15).

Oggi il vangelo ci presenta il miracolo della moltiplicazione dei pani: un fatto sconvolgente, enorme, che si è impresso profondamente nel cuore e nella mente della gente del tempo.
Ovviamente, per capire questo miracolo, dobbiamo tener presente alcune cose, perché in questo racconto convergono fatti diversi,accaduti in tempi diversi, con una grande quantità di insegnamenti.
Per esempio, è successo anche altre volte, nell’Antico Testamento, che un profeta abbia sfamato un gran numero di persone. Molto simile a quest’episodio è infatti la distribuzione di cibo fatta da Eliseo (I lettura) che ricalca il miracolo di Gesù. Eliseo ordina al suo servo di dar da mangiare a cento persone con due pani d’orzo e di farro. Nonostante le sue perplessità il servo obbedisce e la gente è sfamata, e ne avanza anche. Che vuol dire? Se Gesù con cinque pani e due pesci sfama cinquemila uomini (mentre Eliseo ne ha sfamati cento con due pani) allora Gesù è ben più potente di Eliseo (ed Eliseo era considerato uno dei più grandi profeti!). Nessuno cioè riesce a fare quel che fa Gesù. Lui è davvero il più grande di tutti!
Le parole del vangelo sono inoltre parole evocative e simboliche. Queste di oggi, in maniera particolare, sono parole fondamentali perché ci ricordano l’Ultima Cena di Gesù, il suo donarsi a noi fino in fondo.
In altre parole, Gesù continua a venire a noi oggi, domani, dopodomani, ogni giorno. Gesù stesso è un pane che ci nutre, ma è un pane che, a differenza di quello del mondo, della terra, non si esaurisce e non finisce mai. È infatti il pane del cielo. Gesù sfama e nutre sempre; Gesù c’è sempre.
Sempre a proposito del mangiare, c’è poi una cosa sconvolgente che Gesù fa, una cosa che è motivo di scandalo per le autorità: Egli cioè siede e mangia con i peccatori, con la gente malfamata, con i pubblicani.
Chi erano i peccatori? I peccatori erano coloro che avevano trasgredito l’Alleanza in maniera deliberata e che non si erano pentiti di averlo fatto. Oggi noi diremo i “cattivi cristiani”, quelli che “non sono in grazia”. E i pubblicani chi erano? Erano le persone che riscuotevano le tasse: un’attività che li etichettava automaticamente come ladri, come gente impura. Dire pubblicano ad una persona equivaleva a darle del “ladro”: una identificazione più che ovvia.
Ma non solo: Gesù ammette alla sua tavola anche le donne, le prostitute. Le prostitute del tempo lavoravano in piccoli bordelli (in genere tenuti da schiavi), erano anch’esse schiave, donne vendute dai genitori, donne ripudiate o vedove senza protettore. Si accostavano a feste e banchetti in cerca di clienti. Questa cosa era uno scandalo totale. “Ma come? Un uomo di Dio che mangia con questa gente? Che vergogna! Che schifo! E si proclama pure Figlio di Dio!?”.
Del resto se ti invito alla mia tavola e siedo con te, vuol dire che per te io nutro rispetto, fiducia, amicizia. Non si mangia con chiunque, non si va a tavola con i nemici e non si va in casa di chi non si sopporta. In tutte le società il pasto è un microcosmo, un’occasione privilegiata in cui si rinsaldano le relazioni e se ne creano di nuove. I ricchi mangiano con i ricchi; i poveri con i poveri; quelli famosi in certi locali elitari, gli altri in altri più comuni. Dimmi con chi mangi - potremmo dire - e ti dirò chi sei.
Gesù che fa invece? Si siede e mangia a tavola con tutti. La sua tavola è aperta a tutti: nessuno si deve sentire escluso, non occorre essere puri e non è neppure necessario lavarsi le mani. Sei peccatore? Vieni a tavola! Sei impuro? Vieni a mangiare! Sei fuori dalla religione? Siediti con noi!
Gesù stabilisce, nel gesto trasgressivo e provocatorio della tavola, la sua legge: “Misericordia io voglio e non sacrificio, giudizio o esclusione”.
Ebbene, tutto questo era impensabile per i “derelitti” per quanti sapevano di non meritare un simile trattamento, che non si aspettavano assolutamente un invito così esclusivo: “Dio vuole anche noi?”. “Sì, anche voi!”. “Ma noi siamo peccatori, siamo esclusi, siamo gentaglia, siamo impuri!”. “Non importa venite a mangiare anche voi! Dio vi ama lo stesso, anzi di più, perché ne avete più bisogno”. Questo chiaramente creava un’invidia e una rabbia incredibile nei “giusti”, nei “perfetti”, nei “buoni”, in quanti pensavano di essere i soli ad averne diritto!
Ma c’è di più. Gesù dice: “Guardate che Dio è proprio così. Dio non vuole un banchetto di brava gente; Dio vuole un banchetto dove ci siano tutti”. E quando parla del Regno di Dio spesso usa l’immagine delle nozze, di una gran festa e di un gran pranzo dove tutti sono presenti, anche gli storpi, gli zoppi, i ciechi e gli ultimi. Per questo le persone che si sentono discriminate, marchiate inesorabilmente dalla colpa, indegne di vivere, quando lasciano penetrare quest’annuncio fino al loro cuore, cambiano vita, ne sono contagiate, appassionate e non possono che seguirlo.
Gesù su questo è chiaro: tutti sono invitati a tavola. E anche noi, come Chiesa dobbiamo riflettere su questo; se la Chiesa esclude qualcuno, fa qualcosa che va contro l’insegnamento di Gesù. È questo il vero significato della moltiplicazione dei pani: Gesù si dà a tutti, indistintamente. Dio vuole essere Pane per tutti, il banchetto celeste è aperto a tutti: sta a noi, ai singoli, avere il buon senso di presentarci con la “veste nuziale”. Il suo amore è incondizionato per tutti: dimostrare di esserne degni non è una sua condizione, ma una nostra risposta d’amore.
In particolare, cosa vuol dirci questo vangelo? È pieno di insegnamenti: ad esempio che tutto inizia da un nulla; che tutto ciò che oggi è grande, un giorno è stato piccolo; che più condividiamo, più le cose si moltiplicano; che più ci mettiamo insieme e più i miracoli si avverano; che se ognuno fa la sua parte, l’impossibile diventa possibile; che dobbiamo fidarci di noi e della Vita.
Ecco allora il motivo per cui, mentre la società tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a singolarizzarci, noi dobbiamo unirci, metterci insieme, aiutarci, condividere, ciascuno offrendo ciò che può offrire. Un singolo bastone può essere spezzato; ma nessuno mai riuscirà a piegare e a spezzare un fascio di bastoni uniti saldamente tra loro: è così che possiamo compiere l’impossibile.
Se condividiamo le nostre risorse, se le mettiamo in circolo, possiamo compiere miracoli. La condivisione di idee genera moltiplicazione di soluzioni. La condivisione delle nostre capacità genera la moltiplicazione delle iniziative. La condivisione dei sentimenti genera la moltiplicazione dell’unione. Accettiamo ciò che siamo. Ma mettiamoci comunque a disposizione.
Sono poco, cinque pani e due pesci? Non importa; prendiamo quel poco e ringraziamo per quello che è. Se amiamo quel poco, accadrà il miracolo: raggiungerà improvvisamente una quantità incalcolabile. Cinque pani e due pesci sono veramente pochissimo, se guardiamo a noi, alle nostre possibilità, o se accampiamo scuse; sono moltissimo, se guardiamo a Lui e crediamo in Lui e in noi.
I presenti, vedendo che le ceste ricolme di pani e pesci non accennavano ad esaurirsi, che tutti potevano ripetutamente servirsi a volontà, mangiando anche oltre il necessario, avranno pensato sicuramente che Gesù fosse lì per sfamare la gente gratuitamente: finalmente con Lui la fame non sarebbe più stata un problema! Non capiscono invece che Gesù, con questo gesto, vuol far capire una cosa fondamentale: che davanti alle difficoltà, anche se non abbiamo le forze, anche se ci sentiamo inadatti, dobbiamo comunque metterci in gioco donando quel poco che abbiamo; perché quel poco, messo generosamente a disposizione, diventerà un miracolo di enorme condivisione.
Sembra facile ma non è. I discepoli stessi, non credevano nelle loro possibilità: di fronte a quella enorme folla, al nulla che avevano, all’ordine perentorio di Gesù, avranno pensato: “Ma Gesù, non scherzare! Che pretendi da noi?”. È il nostro identico pensiero. Quante volte capita anche a noi di non accettarci, di sentirci ridicoli con i nostri cinque miseri pani e due pesci, di fronte a cinquemila uomini! E allora iniziamo a defilarci dicendo: “Ci sono altri che possono farlo: io non ho il loro talento; non ho la loro forza; io non ho la loro volontà; non ho la loro simpatia, la loro cultura, la loro esperienza, la loro fantasia; io non ho il loro dinamismo; non ho le loro qualità”.
Invece di osare, di darci da fare col poco che abbiamo, perdiamo il nostro tempo a vedere cosa fanno gli altri, a confrontarci con loro. Ma il vero vincente, fa capire Gesù, non è colui che supera gli altri, ma colui che supera se stesso!
In altre parole dobbiamo prendere ciò che siamo, senza dire: “È tanto, è poco, è niente, non sono capace”; ma al contrario: “Io ho questo, sono questo: mi accetto e amo quel poco che ho”. E se metteremo con slancio a disposizione degli altri questo nostro poco, accadrà il miracolo.
È difficile accettarsi, è difficile prendersi sul serio, amarsi, credere ancora nelle nostre deboli forze, soprattutto dopo esperienze decisamente negative. Ma se non amiamo quel poco che siamo, non potremo mai “moltiplicarci”; e conseguentemente non ci sarà felicità, pienezza, intensità.
L’osservazione finale del vangelo, è propositiva al massimo: “con i pezzi avanzati dei cinque pani, raccolsero e riempirono due canestri”. Se abbiamo il coraggio di accettarci per quello che siamo, la nostra vita sarà decisamente sovrabbondante, ricca, piena. Se ci fidiamo di quel poco che siamo, scopriremo l’infinita ricchezza della nostra vita. E questo è già da solo un miracolo, perché per scoprirlo dobbiamo osare sul serio. Amen.
 
 

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