giovedì 6 agosto 2015

9 Agosto 2015 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,41-51).
 
La protesta dei Giudei, la loro “mormorazione” nei confronti di Gesù, altro non è che un tentativo di manipolare, alterare, rendere diversa, quella che è la realtà, cercando di compromettere alla base la sua credibilità: “Ma costui non è il figlio del carpentiere? Conosciamo bene suo padre e sua madre, come può dire tali stupidaggini?”. Praticamente cercano di convincere se stessi e gli altri che quanto Lui dice non può essere vero. Per questo si agitano, mormorano e protestano.
Già la protesta: siamo tutti maestri in questo. Basta che un nonnulla si scosti dai nostri parametri che immediatamente scatta la nostra reazione. Ma contro la realtà, qualunque protesta è inutile: la realtà non si cambia, va accettata e vissuta.
Quando stiamo per protestare, dovremmo prima chiederci: “Quale realtà dovrei accettare, e non mi riesce?”. Eppure c’è solo l’imbarazzo della scelta: le realtà che dovremmo accettare a priori sono veramente tante: per esempio che non siamo unici, che tantissime persone sono più sensibili, più intelligenti, più attraenti, più affascinanti di noi; persone che in tutto sono sicuramente più di noi; e questo non ci piace: perché, anche se pubblicamente ammettiamo che è vero, in cuor nostro siamo comunque convinti di essere superiori o quantomeno come loro.
Nel nostro egocentrismo siamo convinti di essere l’epicentro dell’universo, il perno su cui ruota il mondo. La realtà invece è che il mondo, la vita, va avanti anche senza di noi. Noi siamo soltanto una insignificante goccia del mare, una foglia d’albero in una foresta, una microscopica parte dell’universo. Non ci piace ammetterlo, ma è così.
Siamo ininfluenti: ma noi vorremmo invece essere “qualcuno”, vorremmo che i posteri ci ricordassero con ammirazione, vorremmo essere nel cuore di tutta la gente, menzionati perfino nei libri di storia.
Ma quello che noi facciamo, o abbiamo fatto nella nostra vita, in famiglia, nel sociale, nel lavoro, tutto, dopo un po’, viene dimenticato. Chi verrà dopo di noi farà delle scelte diverse dalle nostre, adotterà strategie completamente opposte, e tutto continuerà a procedere come prima, o meglio di prima. È normale, è giusto che sia così.

Nella vita tutto inizia e tutto finisce, tutto si evolve troppo in fretta. Noi vorremmo che certi momenti non finissero mai: come certe serate particolarmente felici con i nostri cari, i momenti di serenità a contatto con la natura, le gioie dell’amore con i nostri cari, con le persone che ci stanno a cuore. E invece no; tutto finisce, tutto passa inesorabilmente. Tutto quello che stoltamente pensavamo eterno, si è rivelato caduco e provvisorio. La nostra stessa vita, il nostro essere, è strettamente legato all’evolversi delle cose. “Panta rei” dicevano gli antichi: tutto scorre, tutto passa, tutto diviene, tutto prosegue: il tempo è inarrestabile.
Noi ne siamo condizionati, dominati; pensiamo di essere noi i protagonisti, di essere noi a predisporre il domani, a scegliere la nostra esistenza, i cibi che ci piacciono, le amicizie che vogliamo, il lavoro, la professione più congeniale, la donna o l’uomo da sposare. E invece non è così. Pensiamo di essere noi i manovratori del treno e invece è lui che ci porta dove è diretto. Non ci piace ma questa è la realtà!
Tutti abbiamo bisogno degli altri. Vorremmo farne volentieri a meno, vorremmo essere completamente autonomi, poiché autonomia è sinonimo di maturità; vorremmo organizzare la nostra vita liberamente, senza alcuna interferenza, senza essere costretti a sorbirci il giudizio della gente, ad ascoltare ciò che pensano di noi. Vorremmo...
E, invece, ci ritroviamo deboli, insufficienti, incapaci, dipendenti, legati; talmente bisognosi degli altri, da non riuscire a stare da soli nemmeno pochi giorni della nostra vita; ci ritroviamo ad elemosinare compagnia e amore in mille modi, talvolta in maniera avvilente.
Ebbene, queste sono le realtà contro cui non possiamo nulla, contro le quali la nostra “mormorazione” è inutile. Noi le vorremmo completamente diverse: le vorremmo come le immaginiamo o le vogliamo noi, come ci piacciono. Ma le realtà della vita sono sempre più grandi di noi, sono sempre diverse da noi. Abbiamo la pretesa di cambiarle, ma dobbiamo arrenderci ad esse. Quante volte diciamo: “Questa prova proprio no! Questa non mi doveva capitare, Dio non me la doveva mandare!”. Dobbiamo imparare a non opporci alla realtà del momento: accettiamola come viene, forse ci vuole insegnare proprio ciò che dovremmo imparare e che noi non vogliamo; forse ci vuol far scoprire proprio quello che ci è difficile accettare, quello che dobbiamo vivere, e che non rientra nei nostri piani. La realtà, Dio, la Vita, sono più grandi di noi: avere fede, avere fiducia, significa accettarli, accoglierli, fidarci di loro e lasciarci portare. Tutto ha un senso anche se noi non lo capiamo.

Ma torniamo al vangelo: mentre dunque Gesù parla di un pane che scende dal cielo, i giudei non capiscono e mormorano. Praticamente Gesù sta ad un livello, i suoi ascoltatori su di un altro.
Un detto cinese dice: “Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda solo il dito”.
È quanto succede ai Giudei: Gesù sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta mostrando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la vera fame, e loro non riescono ad andare oltre il dito. Per loro Gesù non può che essere il figlio di Giuseppe; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è solo uno da pregare perché faccia vincere i nemici o tenga lontani dalle disgrazie.
Gesù dirà: “Siete ciechi... Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo... se non cambierete modo di vedere, morirete nei vostri peccati” (Gv 8, 23-24).
Se noi non sappiamo andare oltre le apparenze, se non sappiamo cioè entrare dentro all’apparenza esteriore, noi decretiamo la morte della nostra anima.
La felicità per molte persone è “avere” qualcosa. Felicità per loro è avere tanto denaro, una elevata posizione sociale, un’auto fuori serie, un’abitazione sontuosa da esibire, una dote artistica, un’attitudine particolare, con cui puntare al successo ed essere stimati. Sono ciechi. Felicità è poter sentire la Vita che ci abita dentro, che cresce, che diviene, che si espande. Felicità è poter vivere bene quel che siamo, essere consapevoli di quanto valiamo e gustare le nostre piccole conquiste. Felicità è percepire al nostro fianco la presenza amorevole di Dio.
Dio, per molte persone, è solo una preghiera da dire, un rito da compiere, una “rottura” da evitare, un impiccio di cui non sanno che farsene. Sono ciechi. Dio è Vita, è la sensazione di essere immersi in Qualcosa di più grande, di più profondo; è vivere l’esperienza di essere parte di un di Più incalcolabile, di essere immersi in una corrente impetuosa che ci trascina al sicuro; è sentirsi amati nonostante il nostro male quotidiano; è sentirsi degni di esistere, perché Qualcuno ci ha voluto in questa vita; è sentire che non c’è mai motivo di aver paura perché c’è un grande Abbraccio che ci aspetta e che ci difenderà da ogni pericolo.
Tutto nella nostra vita è importante. Prendiamo per esempio i figli: per molte persone, i figli rappresentano il successo, la realizzazione della propria vita: se non li hanno, la vita non ha senso; se li hanno, devono obbedire, devono essere sottomessi, devono renderle felici e non deluderle; devono diventare bravi. Sono persone cieche. I figli sono il dono della vita per noi perché possiamo esprimere l’amore che ci portiamo dentro; sono il mezzo perché la nostra vita si realizzi, il mezzo per esprimere la nostra fecondità, per dare senso alle nostre giornate, alla nostra esistenza. Ma sono il mezzo non il fine. I figli sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui impariamo la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo anche se ci lasceranno), l’alterità (sono altri, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.
Prendiamo anche la malattia: per molti la malattia è la cosa peggiore che ci sia. Siamo d’accordo che non è piacevole, eppure è una grande amica. Se ci ammaliamo forse non è un caso. Questa malattia ci sta parlando, ci vuole dire qualcosa, ci sta comunicando che c’è qualcosa in noi a cui dobbiamo (o dovevamo) dare attenzione.
E così vale per tutte le cose. Tutto nella nostra vita può essere banale, insignificante o tutto può essere profondo, divino. Dipende dalla direzione del nostro sguardo: se al dito del saggio, oppure alla luna.

Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. C’è un pane vivo e c’è un pane morto. C’è un pane che nutre solo il corpo e c’è un pane che nutre l’anima.
Il pane con cui nutriamo il nostro corpo lo conosciamo; ma qual è il pane della nostra anima? Cos’è che ci nutre per davvero?
La più grande fame è quella d’amore. Siamo bisognosi d’amore. Abbiamo bisogno di essere amati, che qualcuno creda in noi, che qualcuno ci apprezzi, ci dia valore e fiducia. Se non siamo amati, non siamo nessuno, non valiamo nulla: allora esserci o non esserci è la stessa cosa; allora vivere o morire non cambia nulla.
Le storie e le vicissitudini della gente sono le storie di uomini e donne con dei vuoti d’amore enormi che ognuno chiede disperatamente al proprio partner di riempire. Ma nessuno in questa vita potrà mai riempire del tutto il nostro enorme vuoto d’amore.
E non possiamo delegare a nessuno questo compito. Tocca a noi prenderci cura del nostro vuoto e lavorarci sopra. Quando ci capita di sentirci soli chiamiamo un amico; quando ci sentiamo giù di morale, cerchiamo qualcuno che ci ascolti. Ma quando sentiamo questa fame terribile di amore, dobbiamo capire che niente e nessuno ce la può saziare: l’unica soluzione è di agganciarci a Lui, di sentire che ci possiamo fidare di Lui, di percepire che Egli non ci lascerà mai soli, che non saremo dimenticati, che non finirà tutto. Noi abbiamo bisogno di Qualcuno che ci dica: “Ti porto nel palmo delle mie mani, non ti lascerò mai cadere al di fuori di esse. Tranquillo, ci sono io”. Abbiamo bisogno di Lui, di quel pane che è sceso dal cielo, di quel pane Vero, di quel pane che nutre la parte migliore di noi stessi, ciò che siamo dentro, la nostra parte divina, la nostra anima. Amen.

 

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