Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,51-58).
Giovanni
ha scritto un vangelo diverso dagli altri; più che sugli avvenimenti che
riguardavano la persona di Gesù, la sua attenzione era concentrata sulle sue
parole, sugli insegnamenti. Egli ha lungamente “ragionato” su questi elementi, ha
voluto capirli, interpretarli, dare loro un senso, spiegarli, applicarli alla
nostra vita: per questo il suo è un vangelo difficile da capire, eminentemente spirituale;
egli parla da “mistico”; fa teologia piuttosto che cronistoria.
A lui,
per esempio, non interessa neppure il fondamentale racconto dell’ultima cena:
tant’è che non riporta alcun particolare dei preparativi, del luogo dove
avviene, della sua ambientazione storica; al contrario egli è concentrato
esclusivamente sul celebre discorso del Pane di vita, sul significato di questo
cibo particolare, sul senso e sulle implicazioni che esso doveva avere sulla
vita spirituale dei discepoli presenti e su quella di ogni suo discepolo futuro. Dal
suo vangelo risulta che Gesù ha sì celebrato con i suoi discepoli un rito pasquale
di saluto, di offerta e di memoria, prima di accomiatarsi da questo mondo
(ultima cena); ma ciò che emerge dal suo racconto, è soprattutto la
preoccupazione di far capire l’importanza che Gesù ha attribuito a questo cibo
e quindi la necessità per tutti i discepoli futuri di accettare il suo invito a
reiterare lo stesso rito, facendone “memoria”, cibandosi di quel pane di
vita che è Gesù stesso.Questo modo introspettivo di porsi di fronte agli eventi, diventa fondamentale anche per noi. Nella nostra vita ci succedono ogni giorno tante cose, più o meno importanti. Ebbene, se noi ci fermiamo solo all’esterno di ciò che ci succede, alla sua crosta storica, se rimaniamo solo in superficie, non entreremo mai dentro la vita, alla nostra vita. È invece fondamentale per noi entrarvi dentro, cogliere il senso profondo di ciò che ci accade. In pratica capire dove la vita vuole farci andare. Allora niente rimane più senza senso, perché in questo modo acconsentiamo alla Vita (Dio) di insegnarci ciò che ci deve insegnare, e a noi di capire, di imparare ad essere suoi discepoli. “Discepolo”, sia in greco che in latino, è infatti “colui che impara”: vivendo così, quindi, impariamo sempre, diventiamo sempre diversi e nuovi, senza annoiarci mai; è così che la Vita ci forgia, ci plasma e ci evolve.
Vivendo così nulla è estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto diventa parte della nostra vita, tutto è un messaggio per noi, possiamo accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni persona. Perfino i fatti più tragici, come le malattie e la morte, pur rimanendo tragici, hanno comunque un senso, hanno qualcosa da dirci e da farci capire, diventano maestri per la nostra vita.
È chiaro che i Giudei non capiscono le parole di Gesù: “Se uno mangia questo pane vivrà in eterno” e “Io darò la mia carne per la vita del mondo”. Nei primi anni della chiesa era addirittura diffusa l’idea che i cristiani mangiassero carne umana (mangiavano il Cristo!) e addirittura i bambini.
I Giudei quindi, molto banalmente, si chiedono: “Ma come può costui darci da mangiare la sua carne?”. I suoi stessi discepoli gli diranno: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.
Il termine “Sarx”, carne, indica la realtà terrena. Mangiare la sua carne vuol dire cibarsi di Gesù in maniera molto reale, terrena, “carnale”. Mangiare di Gesù, per Giovanni, è il massimo!
Per molte persone “nutrirsi di Dio” è invece un qualcosa di indefinito, di spirituale, di impalpabile, al pari di una preghiera, di una messa ogni tanto, di un pensierino a Lui quando capita; e questo, convinti di essere ottimi cristiani.
Ma per Giovanni “nutrirsi di Dio” vuol dire “cambiare vita”, abbandonare i vecchi modelli di comportamento, gli schemi antichi e perversi; vuol dire relazionarci con gli altri in maniera completamente nuova, più sana. “Nutrirsi di Dio” significa farlo entrare nelle pieghe e nelle fibre della nostra esistenza.
Egli vuole metterci in guardia da quel tipo di spiritualismo “disincarnato”, che anche oggi è molto di moda. Per questo usa un termine così forte come “mangiare”, nel senso di masticare, di triturare, di maciullare,per poi digerire, metabolizzare. Si tratta, cioè, e questa è la cosa essenziale, di assimilare, di assorbire, di fare nostri lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Di “trasformarlo” nella nostra vita.
In pratica Giovanni dice: “Fai attenzione tu che vai a prendere l’Eucarestia; per il fatto che assumi il corpo di Cristo, non vuol dire che mangi veramente la carne di Gesù”. In altre parole se il corpo di Cristo non ci cambia, non ci “altera”, nel senso che ci rende “altri”, diversi da quelli che siamo; se non scuote i nostri modi di vivere e di pensare, se non ci mette completamente in discussione, possiamo mangiare tutte le Eucarestie che vogliamo, ma non mangeremo mai la “carne di Cristo”. Troppo riduttivamente nella Chiesa è stata identificata la carne di Cristo con l’ostia domenicale. Il che è vero, verissimo, ma per Giovanni la “carne di Cristo” è tale, solo se provoca in noi l’incontro trasformante in Lui. Altrimenti è niente.
Il missionario Arturo Paoli diceva: «La chiesa sa bene che ci sono persone o gruppi a cui bisognerebbe dire di starsene a casa. Ci guadagnerebbero a non frequentare l’Eucarestia, perché, in questo modo, altro non fanno che andare a mangiare la loro condanna”. Ma a chi dovrebbe dire questo la Chiesa? Beh, prima di tutto dovrebbe dirlo a quelli che puntano il dito senza pietà e giudicano senza cognizione alcuna, a quelli che rubano, a quelli che sfruttano gli operai, a quelli che non hanno misericordia, a quelli che maltrattano e uccidono il prossimo anche solo a parole, a quelli che si credono gli unici perfetti e giusti, a quelli che non vogliono lasciarsi coinvolgere dall’amore del prossimo, a quelli che detengono armi sia fisiche, che psicologiche, mediatiche, intellettuali e le usano per affermarsi egoisticamente, per esibire il loro potere. A tutti questi la Chiesa dovrebbe dire: Fuori di qui. In voi tante ostie, ma niente carne di Cristo. Mangiare la carne di Cristo non significa tante comunioni, ma tanta comunione con i vostri fratelli».
Allora chiediamoci: “quando andiamo a messa, usciamo avendo fatto veramente la comunione?” (Tra l’altro non si capisce perché molta gente non la faccia: è come andare dalla persona amata e non darle un bacio, oppure andare a trovare un amico e non salutarlo, non parlargli). “Abbiamo veramente mangiato la carne di Cristo, oppure abbiamo ingerito solo un po’ di pane azzimo?”.
“Chi mangia la mia carne ha la vita eterna… dimora in me ed io in lui… vivrà per me in eterno”.
Espressioni come queste, contenute nel vangelo di oggi, hanno un senso solo se diamo al termine “vita” il suo significato autentico.
Giovanni fa prima di tutto una netta distinzione tra “Bios”, vita fisica, e “Zoè” che indica il principio della vita, la vitalità, la pienezza, l’essenza stessa della vita. Per lui solo “Zoè” è la vita vera, la vita in cui Cristo vive, in cui Lui abita. Solo chi ha la “Zoè” potrà quindi entrare nel regno della Vita. Chi invece preferisce la “Bios”, la “non-vita”, la morte spirituale, avrà la morte.
Quante persone incontriamo che sono dei morti viventi; vivono anagraficamente, ma in pratica sono morti. Come? Quando non ci commuoviamo più, quando il nostro cuore è diventato duro come una pietra e non sappiamo più piangere, quando non proviamo più tenerezza, misericordia, siamo morti, la vita non scorre più in noi. Quando non proviamo più dolore per nulla, quando i sentimenti non affiorano più, quando siamo una maschera priva di qualunque emozione, la morte è già dentro di noi. Quanto non sappiamo più appassionarci per un’idea, per una proposta, per una scoperta, ma tutto ci scivola via senza sussulti, nella totale indifferenza, allora siamo morti. Quando non sappiamo più innamorarci e il nostro cuore non vibra più, non freme più, quando non sappiamo emozionarci di fronte a chi ci ama e non ci vien voglia di fare qualche piccola pazzia per chi amiamo, allora non è l’amore che è finito, ma siamo noi che siamo finiti, che ci siamo sclerotizzati, che siamo morti dentro. La vita non scorre più in noi.
Guardando dunque gli occhi e i volti di molte persone, è lecito chiederci: “Che fine ha fatto la loro vita?”.
Giorgio Faletti, il comico, scrittore e cantautore recentemente scomparso, in una sua canzone diceva: “Che la morte mi colga vivo”. Già, che la morte ci colga vivi! Non si tratta quindi di essere in vita ma di essere vivi.
Allora, ogni mattina quando ci alziamo, ripetiamoci: “Io voglio vivere. Voglio vivere per davvero; non voglio essere un soprammobile dell’esistenza. Io voglio sentire, vibrare, appassionarmi, amare, ridere, piangere, entusiasmarmi, angosciarmi; voglio “sentire” la vita in tutta la sua ricchezza. Voglio “mangiare” Cristo, perché voglio la vita vera; la voglio oggi, la voglio domani e sempre!”. Amen.
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