Anche il vangelo di oggi come quelli di queste domeniche, è tratto dal “Discorso della Montagna”, il “manifesto” di Gesù per eccellenza.
Il testo si apre con una dichiarazione che, a rigor di logica, non rispecchia la realtà: avendo infatti la possibilità di scegliere tra due persone diverse, non è detto che scegliendo l’una, si debba necessariamente disprezzare l’altra: possiamo benissimo stimarle entrambe. Per questo dobbiamo capire bene cosa vuol dire Gesù con le parole “amare” e “odiare”. Egli non intende riferirsi tanto ad uno stato d'animo, a un’emozione del cuore, quanto alludere semplicemente alla decisione di seguire l’una o l’altra. O di qua o di là, o al mare o in montagna. Non è possibile andare contemporaneamente in due direzioni opposte. Ci sono cioè delle scelte che ne escludono tassativamente altre. Così, dice Gesù, non potete “servire Dio e mammona” insieme.
Ma cos’è, poi, cosa vuol dire con “mammona”? “Mammona”, dalla radice aramaico-ebraica aman, indica un qualcosa di cui ci si può fidare, su cui si può fare affidamento. Ora le ricchezze, i beni, le sostanze materiali, costituiscono sicuramente un bene su cui possiamo contare per vivere; senza alcuna connotazione negativa. Soltanto più tardi, nel corso dei secoli, il termine “mammona” ha acquisito l’attuale significato negativo di “il male”, “la ricchezza disonesta”, i patrimoni accumulati ingiustamente. Ed è in questo senso che viene posta come alternativa a Dio.
Le possibilità da seguire sono dunque due, e noi dobbiamo scegliere: o stiamo di qua (Dio, la sicurezza spirituale) o di là (mammona, la sicurezza materiale). La scelta di una, esclude l’altra. Con la nostra scelta, noi ci schieriamo con “questo” e non con “quello”; indirizziamo cioè le nostre risorse, il nostro amore, il nostro potenziale, in un’unica direzione, avendo comunque la possibilità di fare il contrario.
“Scegliere”, in concreto, vuol dire costruire la nostra esistenza in un determinato modo, perché sono le nostre scelte che le danno valore o demerito. La nostra vita non è nient'altro infatti che il frutto delle nostre scelte, delle nostre non scelte: delle nostre scelte di coraggio o di paura. Chiaramente poi ciascuno avrà ciò che lui stesso ha scelto di avere.
Scegliere tra “Dio e mammona” significa pertanto stabilire che tipo di vita vogliamo vivere; Dio e Mammona corrispondono infatti a due modi opposti di vivere, a due differenti livelli di vita. I tesori della terra, (mammona, le ricchezze) sono provvisori, posticci; costituiscono un alimento materiale legato al tempo, sono cibo soltanto per il corpo: anche se in sé non sono completamente negativi, danno ben poco, offrono più preoccupazioni che felicità. I tesori del cielo (Dio, l’amore eterno) sono invece immutabili, sono cibo per l'anima eterna: riempiono per davvero in profondità e ci fanno sentire vivi, vitali e felici anche nel corpo. Dovendo scegliere, siamo stati preventivamente avvisati sulle conseguenze della nostra scelta: inutile lamentarci dopo. Se non abbiamo voluto ascoltare, se abbiamo scelto volutamente di ignorare qualunque “scuola di vita” (il Vangelo), attraverso cui imparare a crescere, a conoscerci, a metterci sempre in gioco, a rinnovarci continuamente, e poi un giorno, improvvisamente, ci ritroviamo a mani vuote, ci accorgiamo cioè che la nostra vita è stata un fallimento, non imprechiamo contro Dio, non bestemmiamolo: perché abbiamo raccolto esattamente ciò che abbiamo liberamente seminato.
Se noi pensiamo unicamente ai soldi, alla paura di essere giudicati dagli altri, se la nostra unica preoccupazione è che gli altri sono più ricchi di noi, se il nostro interesse si limita a organizzare soltanto feste, divertimenti e vacanze, vuol dire che abbiamo già scelto a che livello vogliamo vivere. Se vogliamo vivere sulle vette, in alta quota, lontani da ogni inquinamento, dobbiamo scegliere la montagna; se non amiamo la fatica del salire, se non vogliamo arrampicarci sui sentieri rocciosi della perfezione, scegliamo pure di vivere in pianura; non è un problema, ma non lamentiamoci poi dello smog, dell’aria irrespirabile, dell’afa, dei rumori assordanti, del chiasso alienante!
Perché dalla nostra vita noi avremo un risultato finale esattamente congruo a ciò che abbiamo fatto, coerente con la passione che abbiamo impiegato, con l’amore che abbiamo investito, con la nostra volontà di servire, di faticare, di lottare.
Ma Gesù con queste parole vuol dirci anche un'altra cosa: in pratica vuol farci fare un esame di coscienza: “Cos'è prioritario nella tua vita? Cosa c'è al primo posto nel tuo cuore, nei tuoi pensieri?”. Non è difficile individuarlo: se pensiamo continuamente che sono soltanto i soldi che ci fanno star bene, allora vuol dire che al primo posto ci sono i soldi. Se siamo convinti che la gente che ci circonda è disonesta, pronta ad imbrogliarci, avara ed egoista, allora al primo posto c'è la diffidenza, il sospetto. Se pensiamo che tutti sparlano di noi, che siamo al centro di continue insinuazioni, maldicenze e cattiverie da parte degli altri, al primo posto c'è la rabbia. Se pensiamo solo ai vestiti da indossare, ad essere sempre eleganti e in perfetta forma, al primo posto c'è l'apparire, il far bella figura. Se siamo sempre in ansia per quello che facciamo, se è giusto o sbagliato come lo facciamo, allora al primo posto c'è l’insicurezza, la paura di sbagliare. Ma se al contrario vediamo sempre il lato buono e positivo della vita, se siamo felici della felicità altrui, disponibili a condividere se necessario le loro sofferenze, allora al primo posto c'è l'amore. Se cerchiamo di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, anziché mezzo vuoto, allora al primo posto c'è l’ottimismo. Se vediamo che nel profondo di ogni uomo c'è del bene, pur nelle sue debolezze e cadute, e siamo sempre disponibili a correre in suo aiuto, allora è Dio che vediamo in ogni creatura.
Fermiamoci allora un istante e chiediamoci: “Cos'è prioritario nella mia vita? A cosa penso continuamente?” Perché tutti abbiamo dei pensieri “fissi”; tutti siamo “servi” di qualcuno o di qualcosa; tutti “dipendiamo” da ciò che occupa il primo posto nella gerarchia delle nostre priorità. Perché quello diventerà il nostro Dio; a quello noi saremo sottomessi, a quello noi saremo servitori fedeli.
La seconda parte del vangelo, ci offre poi un'autentica poesia, un'ode, un inno, un canto di Gesù. Sono parole che nascono dal cuore, da una profondità, da un'anima che è già in Dio.
Ma per capirle, queste parole, dobbiamo approfondire alcuni concetti.
Prima di tutto dobbiamo capire cosa vuol dire qui Gesù con “preoccuparsi”. Il termine greco merimnao (preoccuparsi, affannarsi, angustiarsi) viene ripetuto in queste poche righe, per ben quattro volte. Ma con un significato diverso da quello nostro: noi ci “preoccupiamo” perché nostro figlio è in ritardo di mezz'ora: poi arriva e la preoccupazione scompare. Ci preoccupiamo per un esame che vogliamo superare brillantemente; perché abbiamo degli ospiti a cena e vogliamo fare bella figura; perché vogliamo arrivare puntuali ad un appuntamento importante, ecc. La preoccupazione riguarda quindi un aspetto frequente della nostra vita.
Ma nel vangelo, quando Gesù parla come qui di “preoccupazione”, non la collega ad un fatto importante ma passeggero, ad un qualcosa di temporale e transitorio; ma allude alla “costante” di una vita, ad un qualcosa che assorbe continuamente la totalità dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni, dei nostri interessi; un qualcosa che ci coinvolge totalmente; un qualcosa, oltretutto, che può essere capito, perseguito e realizzato soltanto mediante la fede.
L’autentica comprensione di questo vangelo presuppone infatti la fede. Senza fede non lo si può capire. Quando leggiamo infatti che non dobbiamo “preoccuparci” del cibo e del vestito, ma che dobbiamo affidarci completamente alla provvidenza divina, come fanno gli uccelli e i fiori, la nostra esperienza ci documenta che la realtà è ben altra, ci dice che non è vero. Possiamo dire infatti, che gli uccelli del cielo sono nutriti dal padre celeste? No, perché anch’essi devono faticare e volare continuamente per trovare erbe e animaletti con cui nutrirsi; anch’essi cioè si “preoccupano” se non hanno cibo. Possiamo affermare che i gigli del campo, i fiori, le piante, non lavorano? No, perché dentro la pianta, nelle sue radici, c'è un lavorio continuo ed enorme. Possiamo sostenere che mangiare e bere ci viene dato “in aggiunta”, gratis? Decisamente no, perché cibo e acqua non ci cadono dal cielo. Da un punto di vista materiale, dunque, tutto dipende da noi: se non ci diamo da fare non mangiamo e non beviamo, questo è sicuro.
Ma se leggiamo queste stesse parole dal punto di vista della fede, allora ci rendiamo conto che effettivamente tutto dipende da Dio: gli uccelli sono nutriti dal padre celeste? Certo. I gigli dei campi sono vestiti meglio di Salomone? Certamente! E lo stesso vale anche per le cose che ci riguardano, come per esempio per i nostri figli: è ovvio che siamo noi a crescerli materialmente; ma se guardiamo con altri occhi, come possiamo dire di essere noi? Tutto ciò che li riguarda è un miracolo, è un dono: la nascita, la crescita, lo sviluppo, l’intelligenza, la maturità ecc... insomma, non siamo noi che li abbiamo creati così come sono, è qualcun Altro.
Se guardiamo un tramonto meraviglioso, le stelle e la luna che brillano nel cielo, conosciamo bene le loro proprietà sotto il profilo astronomico o fisico; ma se guardiamo con altri occhi, dobbiamo riconoscere che tutto l’universo è ordinato da una mente sublime, da Lui.
Quando siamo veramente felici, quando trabocchiamo di gioia e di amore, noi ci rendiamo conto che l'amore è in noi, che viviamo nell’amore; ma, se riflettiamo, siamo noi ad aver creato questo amore? Viene da noi? È vero, lo sentiamo in noi, ne godiamo pienamente, ma nello stesso tempo non percepiamo di far parte di un progetto d’amore universale, di essere creature volute da un Essere divino e soprannaturale, che è Amore e felicità totale?
È vero: se guardiamo alla nostra vita realizzata e felice, pensiamo subito che tutto è merito nostro; ma con occhi più profondi, con gli occhi della fede, dobbiamo riconoscere che un “Angelo” ci ha sempre protetto e indirizzato nelle nostre scelte.
Avere fede vuol dire dunque guardare la vita oltre ciò che appare. Gesù infatti ci dice: “Guarda oltre gli uccelli del cielo; non riesci a guardare oltre i gigli del campo? Guarda sempre oltre, e troverai qualcos'altro, troverai Qualcun altro”. Allora, quando guardiamo una cosa... guardiamo sempre oltre. Quando guardiamo una persona... guardiamo oltre, guardiamo “dentro” di lei.
Superficialità è fermarsi alla superficie delle cose: la montagna è solo un ammasso di detriti, sassi, alberi e terra; un tramonto sul mare, un concentrato di microparticelle infinitesimali illuminate dai raggi tenui del sole; le persone che incontriamo, soltanto un insieme ordinato di muscoli, tessuti, nervi, cellule, ecc... Ma è tutto qui? No: avere fede vuol dire non fermarsi a guardare le cose solo per come ci appaiono; vuol dire non essere ciechi, vuol dire non essere fuori dalla realtà. Fede è vedere oltre, dentro le cose, dentro le persone, dentro gli avvenimenti; vedere la vera realtà, la vera essenza di ogni cosa, oltre la crosta, oltre l’apparire.
Questo vangelo allora ci fa riflettere e ci interroga; ci fa capire che per trasmettere la fede, dobbiamo conoscere e parlare il linguaggio della fede: che non è “parole” ma “mistero”. “Mistero” vuol dire appunto “rimanere senza parole, a bocca aperta”. È la sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di troppo grande, di così grande, forte, intenso, bello, enorme, che nessuna parola può in realtà contenere. Il linguaggio della fede è la musica e la danza dell’universo. È lo stupore, la meraviglia, l'entusiasmo (entusiasmo in greco = “avere Dio dentro”); è la commozione, il pianto, la vulnerabilità, la tenerezza, la compassione. È la “passione”: il percepire, il sentire, il patire con gli altri. Fede è la percezione del Mistero di Dio che ci abita. È parlare con Dio. Nella nostra vita sappiamo piangere? Sappiamo emozionarci? Sappiamo mostrarci nella nostra vulnerabilità? Sappiamo chiedere scusa? Sappiamo gioire? Sappiamo innamorarci? Sappiamo commuoverci? Sappiamo entusiasmarci? Se sì, è allora che viviamo di fede.
Allora avere fede, vuol dire non aver paura: perché la fede è il contrario della paura, è non lasciarsi bloccare dalla paura. Nella Bibbia l'espressione “non temere” ricorre ben 365 volte, esattamente come i giorni dell'anno: per cui ogni mattina dobbiamo alzarci armandoci di tanta fede, allontanando decisamente dalla nostra mente ogni presagio di paura. Con questo però non vuol dire che tutto andrà automaticamente bene: ma che, in ogni caso, sapremo affrontare con fiducia ciò che ci capita. Fede (in Dio) è sapere che, comunque, avremo le risorse, le capacità, l’aiuto divino, per affrontare e superare ciò che la vita ci chiama ogni giorno ad affrontare e superare.
E concludo: siamo sempre aperti e positivi con tutto quello che incontriamo; avventuriamoci nel tempo, plasmiamo il mondo, ma non facciamoci assorbire da esso. Cerchiamo la nostra forza interiore, che sta nella dedizione verso gli altri e non nell'io. Non perdiamoci nell’esteriorità, nell’apparire, ma tutto ciò che facciamo, facciamolo col cuore, guardando in alto. Viviamo i nostri valori, e non giudichiamo gli altri. Combattiamo per i nostri ideali, per i nostri obiettivi, ma cerchiamo soprattutto la pace interiore. Affrontiamo le nostre paure, non neghiamole, ma trasformiamole in forza di vita. Accettiamo il nostro essere “finiti”, mortali, ma con la certezza di essere vivi e amati dall’Amore infinito. Amen.
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