giovedì 3 novembre 2011

6 Novembre 2011 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono…»
La parabola delle dieci vergini che aspettano lo sposo, ci invita a pensare alle cose ultime della nostra vita, alle cose veramente importanti, a quelle che sistematicamente accantoniamo, quando invece dovremmo pensare più spesso e più seriamente che in questo mondo non ci stiamo in pianta stabile, che siamo solo provvisori, perché la vita non è nostra.
Abbiamo ricordato da alcuni giorni i nostri cari defunti che ci hanno preceduto là dove anche noi dovremo un giorno andare. Si, fratelli, perché, anche se non ci pensiamo, non rimarremo eternamente su questa terra. La vita è soltanto un passaggio: il cammino da un punto di partenza ad uno di arrivo, dalla nascita alla morte: nessuno può esimersi; giorno dopo giorno, il nostro nome sta avanzando inesorabilmente sulla lista dei chiamati; siamo tutti in attesa del nostro turno per l’incontro finale con lo Sposo, il nostro Creatore e Signore.
Ecco, sono proprio queste due le parole importanti che ci vengono proposte alla meditazione dal Vangelo di oggi: “attesa” e “passaggio”.
“Vigilate, tenetevi pronti, perché non sapete quando il vostro Signore verrà".
La nostra vita è prima di tutto “attesa”. Una definizione curiosa, con un significato molto intrigante: attesa di chi? di che cosa? per quale motivo mi devo condizionare la vita nell’attesa di un qualcuno che viene quando piace a lui? Certo, tra le mille preoccupazioni quotidiane, quella dell’attesa di Dio non rientra proprio tra i nostri pensieri più importanti. Abbiamo ben altro cui pensare. Se però riflettiamo un poco, ci rendiamo conto che l’attendere, l’aspettare che qualcuno o qualcosa si materializzi nella nostra vita, è una categoria mentale che è parte integrante del nostro comportamento. Tutti, in qualche modo, siamo in “attesa”: in genere ciò che aspettiamo, proviene dal mondo che ci circonda, proviene da altri, dall’esterno: un qualcosa che ci spetta quasi di diritto e che prima o poi deve arrivare: dal lavoro, dai figli, dalla famiglia, dagli anni che passano. Costruiamo esperienze, proviamo emozioni, ci struggiamo per ottenere risultati, sia nell’immediato che per il domani. E ci aspettiamo quindi le conseguenze: perché tutto ciò che facciamo, in fondo, è motivato soltanto dal desiderio, anche se inespresso, di avere in cambio un beneficio concreto: essere felici, essere appagati e ripagati, avere il cuore ricolmo, sazio, soddisfatto. Questo è naturale per tutti.
Ma per chi ha fede, anche se spesso superficiale e di maniera, l’attesa assume un valore più importante e impegnativo, è un qualcosa di più intimo, di soprannaturale, un qualcosa che non si arriva a capire del tutto, ma che si “sente” come parte integrante del nostro essere. Siamo in attesa di una “chiamata”, del richiamo di Dio: è la voce dello Spirito, il richiamo inappellabile di Colui che ha permesso la nostra esistenza, di Colui che ha impresso il suo marchio di fabbrica nei nostri cuori.
Col passare degli anni, però, questa sensazione purtroppo si va affievolendo: constatando che i nostri egoismi continuano a rimanere tali, vedendo che il mondo non cambia come vorremmo, sopraffatti dal contingente, dall’immediato concreto, di fronte ad un costante progresso del benessere, la nostra “attesa” perde di tensione, pian piano si smorza, la disillusione cresce nel nostro cuore, non ci aspettiamo più nulla che non sia legato al nostro vivere qui e ora: di fronte all’inevitabile fallimento dei nostri sogni, delle nostre aspettative, nella nostra anima finisce col prevalere la stanchezza, se va bene, il cinismo, se va male.
La delusione più amara arriva ovviamente per chi ha investito la propria “attesa” esclusivamente sulla realizzazione della propria immagine, sull’apparire, sull'essere splendidi, sul potere, sulla gloria, sul possedere. Del resto le suadenti sirene del mondo, della società dei consumi, blandiscono continuamente, spingono, esaltano ben bene su questo cammino: dicono che bisogna lavorare, lottare, produrre, se si vuole ottenere, sfondare, riuscire. E l'uomo tecnologico, schiavo del ventunesimo secolo, è invogliato a lavorare senza sosta, per produrre ricchezza, benessere, rinunciando a qualsiasi forma di vita alternativa, rinunciando alla vita dello spirito. Dio diventa un accessorio inutile, anzi una zavorra ingombrante di cui liberarsi.
Prima o poi, però, diventerà anch’egli preda, facile e prevedibile, della insoddisfazione, del rimorso, dell’amara sensazione di aver sbagliato tutto, di aver sperperato le occasioni migliori: dopo una vita delirante, sente prima o poi un vuoto assoluto, un’assenza stridente, divorante: l’assenza di un qualcosa che non sa bene cosa sia, che lui stoltamente attribuisce al mancato conseguimento di un certo risultato, di un certo target di benessere, alla mancanza di un corpo perfetto, sano e vigoroso, di una bellezza esteriore rispondente ai canoni della moda, alla impossibilità di realizzare i propri sogni, di possedere tutto e subito, persone e cose. Stupidaggini, fratelli miei: sono tutte e solo stupidaggini, idiozia acuta, lo sappiamo bene.
Sì, noi conosciamo molto bene la vera natura di quel malessere: noi, fratelli miei, noi cercatori di Dio, sappiamo che non c’è nulla di più deprimente nella vita dell’uomo che la constatazione del proprio fallimento, di non essere stati all’altezza della “chiamata”, di aver tradito la fiducia di Dio, di aver trasformato l’attesa in “disattesa”. Anche noi, che siamo partiti con entusiasmo, che abbiamo vegliato notti intere nell’attesa dello Sposo, noi che abbiamo abbandonato “il mondo” per seguirlo - e che poi pian piano ce lo siamo ripreso tutto questo mondo, con tanto di interessi – noi che, in fondo, conosciamo un po' lo Sposo, ebbene anche noi non riusciamo a vegliare fino al suo ritorno: nonostante il nostro cuore sia inquieto, soffra per la sua assenza, per non averlo vicino, per non sentirlo, non vederlo.
Così facendo abbiamo sbagliato, fratelli miei; sbagliamo e, non sia mai, continueremo a sbagliare! Perché non è il "fuori" che può riempire la nostra anima: quello la inebria di falsa gratificazione, la stordisce, la inganna, ma non riuscirà mai ad appagarla. È il “dentro” che conta, è con la fede, con la generosità del nostro cuore, con la carità che possiamo contrastare il nostro vuoto di Dio; un vuoto che fatichiamo a riempire, a colmare, a calmare. Puntare ogni nostra “attesa” sull’appagamento dei falsi bisogni del consumismo, è irrimediabilmente deludente, rischioso e controproducente.
La vita è dunque “attesa”, fratelli, e noi dobbiamo riporre la nostra speranza, la nostra intelligenza, il nostro cuore, unicamente nell'attesa di Colui che, da solo, può saziare realmente ogni nostra aspettativa.
Questo in sostanza è anche il vero significato di “transito”, di “passaggio”.
Dobbiamo essere sempre vigili come le sentinelle, in attesa che lo Sposo celeste passi per condurci alle nozze senza fine; egli passa sicuramente, lo possiamo constatare ogni giorno: ma non sappiamo quando verrà per noi. Allora, concentriamoci seriamente su questa sacrosanta verità: il Signore ad un certo momento verrà a prenderci.
Non prendiamola come un pensiero triste, fratelli, perché incontrarsi con Lui è un pensiero di grande sicurezza e serenità: è questa l'idea che ci deve accompagnare tutti i giorni nella gioia dell’attesa: perché, ogni giorno che passa, ci avvicina sempre più a tale incontro col Signore; ogni giorno della nostra vita è un passo in avanti non verso l'ignoto, ma verso le braccia spalancate del Padre nostro misericordioso, che aspetta di accoglierci nel suo amore infinito.
La morte è per alcuni un pensiero fastidioso. "Gli uomini, non potendo evitare la morte, hanno deciso di non pensarci. Ma è un rimedio ben misero", scriveva Pascal. Per il pensiero laico moderno, la morte è tabù: meno se ne parla, meglio è. "Non sappiamo da dove veniamo né dove andiamo, e non ci importa neppure saperlo". Così si pensa oggi.
E invece no, fratelli; il Vangelo ci insegna che Dio ci ha creati e che il nostro destino è di tornare a Lui. Per questo dobbiamo vegliare. Ma cosa vuol dire agli effetti pratici, “vegliare”, questo stare svegli, pronti, questo essere in costante attesa del Signore che deve venire? Vuol dire impegnarci a fare il bene, a mettere in pratica i suoi insegnamenti: i vasetti dell’olio di riserva delle vergini prudenti, altro non sono che le nostre opere buone: e dobbiamo affrettarci a farne grande riserva, perché non conosciamo quanto tempo manchi all'incontro. Anche in noi,come nei santi, il pensiero della morte che si avvicina, deve moltiplicare il nostro entusiasmo e le nostre energie.
A volte pensiamo che dopo i 60-70 anni, una volta in pensione, siamo finalmente liberi di starcene un po' tranquilli, di dare uno stacco significativo alla nostra esistenza, di pensare a cose più piacevoli, più distensive, più divertenti. Illusi! Per quanti dei nostri conoscenti e amici questo desiderio è rimasto soltanto un miraggio, una fantasia, null’altro che un sogno infranto! Lo sposo è arrivato immediatamente, senza preavviso, e hanno dovuto abbandonare sul nascere tutti i loro bei progetti.
Non abbassiamo la guardia, fratelli miei: Il lavoro per il regno dei cieli non termina mai; non esiste pensione che tenga! Anzi, più passano gli anni e più il lavoro deve essere febbrile, perché l’arrivo dello Sposo è sempre più vicino. Da giovani, giustamente, ci siamo impegnati in tante cose, come costruirci un futuro, fondare una famiglia, raggiungere una certa posizione professionale; ma quando raggiungiamo una certa età e queste tensioni diminuiscono, non possiamo campare altre scuse; non creiamoci ad arte impegni, progetti velleitari, per svicolare dal vero problema; ogni momento è buono, ma è soprattutto col crescere degli anni che dobbiamo dedicarci in maniera prioritaria alla “vera” attesa. Non serve più costruire per questo mondo, dobbiamo farlo solo per il cielo. Approfittiamo del tempo che il Signore ancora ci concede, per fare finalmente qualcosa di più importante e decisivo, visto che negli anni già trascorsi abbiamo fatto sicuramente molto poco. E questo vale sia per gli anziani che per i giovani: quello che è stato è stato, ma non scommettiamo mai sul domani! Potremmo non avere un domani.
Non serve a niente, fratelli miei, avere posizioni di prestigio, onori, ricchezze, se poi ci manca completamente l’olio dell’amore e delle opere buone. Non dimentichiamo che tra i sette vizi capitali ce n'è uno meno conosciuto, l'accidia, che è appunto la negligenza, il menefreghismo, la svogliatezza di fare il bene, di compiere i propri doveri di cristiano. Perché tutto è più importante per noi! Beh, come stiamo a questo riguardo?
Il tempo che il Signore ci dà, lo ripeto, è uno dei doni più preziosi. Non può essere buttato via, sciupato, vissuto male. Molti si giustificano di non poter fare molto per il Signore e per i propri fratelli, proprio per mancanza di tempo: possibile mai? Possibile che non abbiano neppure pochi minuti per fare una visita, una telefonata, ad un parente, ad un amico, a un conoscente in difficoltà? Che non abbiano un po’ di tempo per migliorare la relazione con il proprio coniuge, con i figli? Pochi minuti al giorno per la formazione, per la preghiera, per la lettura di un buon libro? Capite bene che una simile scusa è improponibile.
La nostra vita deve essere da subito, immediatamente, “attesa” dello Sposo. Un’attesa gioiosa come per il ritorno di una persona fortemente amata. Le nostre ore devono passare condizionate da tale pensiero. Ne più ne meno come se vivessimo la vigilia di un evento importantissimo, un evento destinato a cambiarci radicalmente la vita, a darle un nuovo significato, una svolta decisiva, una nuova allettante prospettiva.
Ecco, è questo il clima descritto nella parabola di oggi: la tensione dei preparativi cresce, perfino l'aria diventa frizzante; è tutto un via vai febbrile… l’agitazione per non dimenticare nulla, il correre frenetico, l'ansia che si tocca con mano.
Anche per noi, fratelli, deve essere così: perché questo ci impone anche la nostra “storia” personale; pensiamoci un istante: nella nostra vita abbiamo accolto il Vangelo, ci siamo convertiti, abbiamo cercato di configurarci a Cristo, di seguirlo fedelmente; gli abbiamo promesso sempre la massima fedeltà; gli abbiamo assicurato continuamente il nostro amore; magari abbiamo anche già provato un assaggio della sua presenza reale, dolcissima, magari per qualche istante ("raptim" come dice Agostino), forse durante una veglia di preghiera, un pellegrinaggio in Terra Santa o a Lourdes, o in qualche particolare ritiro. Ne siamo rimasti affascinati, attratti, stregati; ma la sua presenza è stata fuggevole, è stata un "già" e "non ancora", tormento e sicurezza. Ma tutto ciò non è stato determinante per la nostra santificazione. Non è bastato: dopo quei momenti di particolare entusiasmo inebriante, di innamoramento esaltante di Dio, è calata la notte del silenzio, la quotidianità, e i problemi contingenti ci hanno travolto.
Oggi è l’occasione per scuoterci: da oggi, da questo momento, rimettiamoci in vigile “attesa”, fratelli; prepariamoci come si deve, aspettiamo… Non stanchiamoci, perché non ci sono dubbi, Egli tornerà! Lo sappiamo e per questo dobbiamo essere pronti: “Estote parati”, siate pronti! ci ricorda oggi il vangelo.
Nella notte dell’anima, aspettiamo la luce del suo amore. Sì, la nostra vita deve essere un'attesa d'amore; e come tale dobbiamo viverla. Tutto qui.
Se la viviamo così, non importa se nella vita non è andato tutto come volevamo: pazienza se i nostri sogni, i nostri progetti, non si sono realizzati. Pazienza. Tutto passa.
Se la viviamo così, tutto ciò che ci accade lo mettiamo in riferimento con qualcosa di più grande, di immenso, lo mettiamo direttamente nel cuore stesso di Dio; successi e sconfitte le leggiamo alla luce di questo orizzonte, cento volte più ampio, mille volte più luminoso.
Se la viviamo così, sentiamo il senso dei nostri limiti come necessario, come un qualcosa di benevolo, come una opportunità ulteriore che ci viene data per poter capire il senso profondo della vita.
Se la viviamo così, la nostra vita sarà incoraggiamento, sarà uno sprone, per noi e per i nostri fratelli, a rimanere svegli, vigili, nell’ansia amorosa di incontrare lo Sposo da un momento all’altro.
E allora una preghiera sgorgherà spontanea dal nostro cuore: Signore, donaci la vera sapienza, allontana da noi la stoltezza, fa' che siamo capaci di alimentare continuamente le nostre lampade, per poterti correre incontro senza inciampare, ed entrare speditamente con Te nel tuo regno d’amore. Amen.


Nessun commento: