«Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla
luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva
dare testimonianza alla luce…».
Anche
questa domenica il vangelo si concentra sulla figura del Battista. Ma oggi
Giovanni non è l’asceta duro di domenica scorsa, non è il profeta austero,
intransigente, l’annunciatore di catastrofi nel caso gli uomini non si convertano.Oggi ci viene dipinto da Giovanni, suo omonimo l'evangelista, come un “testimone”, un “indicatore”; noi moderni diremmo come un “navigatore satellitare”, un cartello segnalatore che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me; dovete guardare verso la direzione che io vi indico”.
Qui il Battista è enigmatico, non spiega, non dice chi verrà e come verrà. Dice soltanto: “Preparate la via… verrà uno che non conoscete… e io di fronte a lui sono niente”.
Bene, fratelli: è proprio questa l’essenza dell’avvento. Giovanni “sente” che qualcosa deve succedere, che qualcosa deve avvenire; e attende, aspetta. Sente che sta per arrivare qualcuno, ma non sa chi.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Dobbiamo conservare la sorpresa, l'imprevisto, il poter essere “sorpresi”, perché se conosciamo già tutto, se abbiamo già provato e scritto tutto, che Natale è? Che Avvento è?
Prepararsi pertanto vuol dire: “Acconsenti che ti succeda qualcosa di cui non puoi disporre, che non puoi controllare, che non puoi gestire. Permetti che la vita ti faccia delle sorprese”.
Noi tendiamo a controllare tutto. Pianifichiamo tutto. Gestiamo tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il “più in là”. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia rendendoci svegli, dandoci conto di certe cose, non è Dio.
Dio lo troviamo molto di più negli imprevisti che non in tutto ciò che pre-vediamo. Lasciamo allora, fratelli, che la vita ci sorprenda! Permettiamo alla vita di manifestare tutta la sua ampiezza e ricchezza. Ricordiamoci che la Vita lavora sempre con noi e mai contro di voi; se la ostacoliamo, ostacoliamo noi stessi.
Nel vangelo viene posta a Giovanni Battista una domanda che dovrebbe farci molto riflettere: “Chi sei tu?”. Già: “Chi siamo noi?”. “Sono un uomo, una donna, un marito, una mamma, un bravo cristiano…”. Sì, d'accordo, è tutto vero, ma non è tutto. Semmai questo è il nostro “ruolo”, è il vestito che indossiamo, ma dentro… chi siamo?
Il ruolo, quello visibile, quello che tutti vedono, è limitato, è limitante: ci permette di vivere una parte, ma solo una parte della vita. Molti di noi si sono investiti in un ruolo e continuano a vivere sempre e solo quello. Del resto vivere interpretando sempre lo stesso personaggio ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile; lo conosciamo bene, ma ci limita. Il ruolo ci ingabbia; ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone si è smarrita la persona ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, al suo interno non troveremmo niente.
Ma la domanda rimane: “Al di là di tutti i ruoli, di tutti i vestiti, chi siamo noi?”. Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimità dell’anima? Questa è la grande domanda. Cos’è, cioè, che ci fa originali, irripetibili, esclusivi rispetto agli altri? Cos’è che ci rende diversi da tutti? Cos’è che ci rende insostituibili, unici davanti a Dio? Perché se non troviamo questo elemento distintivo, vuol dire che siamo uguali agli altri, che noi e altri siamo la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che uguali a noi ce ne sono a migliaia; vuol dire che invece dell'originale, siamo una fotocopia, un doppione, uno sbaglio: come se la vita, qualunque vita, si riducesse ad essere una semplice fotocopia! Impossibile: e se per assurdo fossimo uguali agli altri, allora vorrebbe dire che non stiamo vivendo la nostra vita, che abbiamo fallito tutto, che la nostra vita non ha alcun senso.
«Tu, chi sei? Egli confessò e non negò...». Il Battista inizia a dire prima di tutto cosa non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”. È importante, fratelli, rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci incollano; è importante ribellarsi e dire agli altri: “No, non sono uguale a voi, non sono come voi! Io sono io; non sono te e nessun altro. Io ho il mio nome. Non vi piaccio come sono? Non soddisfo le vostre aspettative? Non rientro nei vostri schemi? Pazienza!”. È l’inizio della libertà, fratelli. Della nostra libertà. Perché noi siamo “altri”!
Il primo passo da fare sulla strada della vera vita è quindi liberarsi da ciò che non si è.
La prima grande scelta, come quella del Battista, è non voler essere come gli altri: “No, io non sono questo! Io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere di non essere ciò che gli altri vorrebbero, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative, le incrostazioni che gli altri ci hanno imposto, è un’operazione molto impegnativa, difficile, spesso anche dolorosa. Ma se coraggiosamente ci togliamo di dosso ciò che non è nostro, ciò che deturpa la nostra unicità, pian piano emergerà chi siamo, ciò che ci rende immagine e somiglianza di Dio. E ne varrà sicuramente la pena, fratelli!
“Io sono voce di uno che grida: Preparate la strada”. Giovanni è dunque un profeta; è questo il suo ruolo: ma oltre a ciò, egli ha trovato chi è veramente, la sua vera identità, ha capito qual è esattamente la sua missione: “Essere voce”. Egli ha trovato il vero motivo per cui vivere, la ragione per cui è stato creato, ciò che dà senso e valore alla sua vita. Lui è la “voce” che deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate; il Signore vi passerà vicino, non lasciatevelo scappare! Dio c’è, ma se voi insistete a tenere gli occhi chiusi, non lo vedrete mai”.
È testimone della luce, illumina anche, ma non è la Luce. È come la luna che riflette una luce non sua; non è lei la fonte della luce: la sua “luce” viene dal sole. Come il Battista, anche noi dobbiamo essere“voce”; dobbiamo essere strumento, mezzo, veicolo di Qualcun altro. Dobbiamo cioè essere l’altoparlante di Colui che sussurra al microfono del nostro cuore. È questo, fratelli, il nostro primo compito: dar voce all’Infinito, al Dio, all’Oltre; dare voce alla Forza, allo Spirito che ci scuote dentro, ma che non ci appartiene. L’uomo è chiamato a testimoniare l’invisibile, il di più che si porta dentro. Questo è appunto il nostro servizio che dobbiamo a Dio: dare voce a ciò che abbiamo dentro!
Certo però, che se non lo ascoltiamo mai, è piuttosto difficile avere qualcosa "dentro"! Anzi impossibile.
Essere “strumenti” di Dio vuol dire permettere che sia Dio a scegliere, che sia Lui a utilizzarci come meglio crede; che sia Lui a farci la chiamata che ritiene più consona per noi. Sì, fratelli, perché noi viviamo in Lui e per Lui. La vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Siamo un verbo, ma non siamo il soggetto che lo coniuga. Il soggetto è sempre e solo Dio. È Lui che parla, è Lui che ispira, è Lui che chiama.
Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Sentirle sue, quando non lo sono affatto. L’uomo è soltanto un amministratore, è semplicemente voce.
Nel vangelo c’è poi una sfumatura che merita di essere colta: “In mezzo a voi sta uno che non conoscete”. Una frase che detta così non è particolarmente incisiva; ma, se tradotta bene dal greco, diventa molto forte. Dice infatti: “In mezzo a voi ci sta uno che voi non volete conoscere”; non semplicemente, come suona il testo italiano, “uno che non conoscete”; la differenza sostanziale introduce una nuova situazione, ossia la scelta di “non conoscere” volutamente, di proposito. Di norma infatti, il verbo “conoscere”, in greco, viene espresso con gignèskw. Qui, invece, Giovanni usa un altro verbo: o‡date, che indica il “voler sapere, il conoscere con cognizione di causa, il conoscere senza dubbi, il vedere con i propri occhi. Quindi il verbo “non conoscete” acquista una coloritura volutamente negativa, come a dire: in mezzo a voi c’è uno che voi “non conoscete perché non avete voglia di conoscerlo, non lo volete conoscere perché non lo vedete con i vostri occhi, e quindi non ammettete ripensamenti su di lui. In altre parole, si vuole evidenziare il fatto che i Giudei e i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, di non avere nulla a che spartire con “Colui che viene”. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui successivamente faccia o dica – e la storia lo confermerà – non riuscirà in alcun modo a cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista può urlare, scuotere, gridare, strattonare: ma non servirà. Se nella nostra testa abbiamo deciso a priori che una cosa non ci interessa, niente e nessuno potrà mai farci cambiare idea. Se abbiamo deciso che l'idea di Dio è ininfluente per la nostra vita, un accessorio senza alcuna importanza, nessuna predicazione ci potrà convertire, nessun grido profetico potrà mai scalfirci. Se abbiamo deciso di non metterci in gioco, non impareremo mai nulla dalla vita, perché una vita così non avrà mai nulla da insegnarci. Una situazione che è stata determinante soprattutto nel calo verticale subito dalla religiosità dei cristiani di oggi. Molti osservatori non condividono tale analisi; anzi la contestano, e fanno notare come, per esempio, la notte e il giorno di Natale le chiese siano sempre piene.
Non facciamoci illusioni, fratelli: le chiese saranno anche piene a Natale, ma in tutte le altre occasioni? Se potessimo leggere nel cuore di tanti di questi fedeli "occasionali", se potessimo fotografare il segreto del loro cuore, rimarremmo molto delusi: “Ma che ci sto a fare qui? Speriamo finisca presto; è tempo perso, non mi interessa; mi son lasciato coinvolgere dai figli, dalla moglie, giusto per farli contenti, ma a me questa storiella sdolcinata del Dio bambino, mi fa solo sorridere; e poi, io non so cosa farmene di Dio; a cosa mi servirebbe? Forse viene Lui a risolvere i miei problemi per arrivare a fine mese?”.
Fratelli miei, se l'uomo si ostina a non credere, a non volersi convertire, a non voler cambiare, statene certi, non lo farebbe neppure se Dio decidesse di tornare ancora lui su questa terra! Non crederebbe neppure se vedesse Dio faccia a faccia; neppure se Dio facesse chissà quali e quanti miracoli! Purtroppo, chi ha deciso di non credere, di non conoscere Dio, non crederà e non lo conoscerà. Non c’è niente da fare.
Voi mi direte che arrivare a tali conclusioni è semplicemente frutto di una mente pessimistica, contorta, maliziosa. Sono casi limite, inverosimili. E invece no, fratelli: sono anzi situazioni molto frequenti, tant'è che il Vangelo le chiama peccato contro lo Spirito Santo; l’unico peccato umano imperdonabile, perché è una strafottente e insensata negazione dell'amore di Dio.
Ecco, fratelli miei: quest’anno preghiamo per questi nostri fratelli, tanti o pochi che siano; la Luce del Natale rischiari finalmente le fitte tenebre del loro cuore.
E noi? Anche quest’anno Dio busserà al nostro cuore. Vuole ancora una volta ri-nascere dentro di noi. Gli apriremo il nostro cuore? Lo riconosceremo? Gli crederemo?
Fermiamoci un istante per tempo, e pensiamoci. Seriamente. Amen.
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