venerdì 18 novembre 2011

20 Novembre 2011 – Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».
Con questa domenica si conclude l’anno liturgico. E come meditazione finale, la Chiesa ci propone una visione apocalittica: Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di accantonare nella nostra mente, ma che a tutti, inutile negarlo, incute una seria preoccupazione.
Di fronte a tale scenario noi restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso e compassionevole?
Due aspetti, quelli di oggi, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Prima di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante e ieratica che male si adatta anche questa al Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che necessita di un cartello per essere identificato, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?
C’è poi la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Ripeto: potrebbe sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei secoli.
Dire che Cristo è "sovrano" della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui ha senso il nostro percorso di vita e di fede. E, permettetemi, è molto consolante, alla fine dell’anno liturgico, ribadire con forza, tutti insieme, questa nostra convinzione. Sì, fratelli, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giusto e inflessibile giudice”; un re che Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto gli abbiamo promesso; in una parola, se siamo stati o no all’altezza del suo amore, donando anche noi amore.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non giudica, fratelli, Dio “svela”. Dio cioè farà vedere quello che non abbiamo voluto far vedere, quello che noi ci siamo nascosti, quello che abbiamo lasciato appositamente nell’ombra.
Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la situazione reale di ciascuno, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà più rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto apparirà nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.
Il testo di Matteo pone una insistenza quasi puntigliosa su alcuni “bisogni”: fame, sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; ed è in funzione della loro “soddisfazione”, che noi saremo chiamati a documentare pubblicamente il nostro operato: È chiaro che si tratta di una provocazione voluta: sono tutti “bisogni” che implicano “azione”, esigono cioè da parte nostra un amore concreto, attivo, un amore che non si deve fermare alle belle parole; un amore azione, interessamento, preoccupazione, un reale darsi da fare.
Ci sono milioni di uomini che muoiono di fame ogni anno: conosciamo bene questa realtà, perché ciclicamente viene riproposta all’attenzione del mondo da alcune organizzazioni internazionali. Ma parliamo, parliamo, e poi nessuno fa nulla: il nostro alibi è che c’è già chi ci deve pensare; e poi noi abbiamo il lavoro, la spesa da fare, mille cose da sbrigare, le pulizie di casa che non finiscono mai, guardare la tv, qualche meritato divertimento. Insomma ci sono tante cose per noi ben più importanti dei cinquanta milioni di morti di fame.
Ancora: un miliardo di persone bevono acqua non potabile, contraendo ogni genere di infezione, o ne sono completamente senza. Allucinante al giorno d’oggi. E noi che facciamo? Anche qui grandi conferenze, grandi parole, grandi convegni. Certo per noi è facile parlare, con il frigo e la dispensa pieni di bevande, o con l’acqua potabile che scorre in abbondanza quando apriamo il rubinetto di casa. Anzi, guai se per caso dovessero temporaneamente sospenderne l’erogazione: andremmo in mille escandescenze. Ci arrabbieremmo. Per così poco? Dovremmo invece pensare un pò di più a chi non ce l’ha mai, a chi muore per la sua mancanza!
I forestieri sono i vicini, quelli che vivono attorno a noi: sono gli immigrati, quelli che vengono da altre città, quelli che abitano qui per lavoro, quelli che per necessità hanno abbandonato il loro ambiente, la loro famiglia, quelli che non hanno amicizie o compagnie. Forestieri sono anche persone che conosciamo, persone anziane, colleghi di lavoro, che per i motivi più disparati non hanno nessuno con cui condividere una gioia, una bella notizia, un dispiacere; non hanno nessuno con cui passare qualche ora, andare al cinema, passeggiare, mangiare una pizza. Piccole cose di una serena convivenza. Ma tanto si sa, noi siamo a posto: noi gli amici li abbiamo già, che possiamo farci?
I nudi sono quelle persone che nessuno copre, che nessuno difende, che nessuno considera; quelli che sono privi di qualunque conforto umano, che vivono alla deriva, ai quali viene negata la loro dignità di persone: una esagerazione? Nossignori; facciamo un giro per le grandi città, nelle periferie, e ce ne renderemo conto!
I malati. Quante persone sono malate nel fisico o nell’anima. Per chi è in ospedale, nella solitudine, avere qualcuno vicino è come vedere la luce alla fine di un tunnel completamente buio. Quando un malato è triste, disperato, quando non intravvede alcuna soluzione possibile, quando si sente infermo anche nell’anima, quando con tutte le forze cerca qualcuno che si interessi a lui, che lo ascolti, che condivida le sue sofferenze, ecco: avere questo qualcuno vicino potrebbe essere la sua salvezza. Noi, come ci comportiamo in proposito?
Le nostre carceri sono sovraffollate. Ma non è solo questo il dramma. Il dramma è la solitudine, lo squallore di certi ambienti. Il dramma è che il carcere è un’onta dalla quale non ci si riprende più. Il dramma è che nessuno vuole più il carcerato nel mondo del lavoro, nella società. Il dramma è che se uno non era un criminale incallito, in carcere impara a diventarlo. Hai voglia a strombazzare di “recupero”: spesso la cura è peggiore del male. Non possiamo proprio far niente in proposito?
Ecco: il “tesario d'esame” è questo: situazioni che esigono tutte un nostro coinvolgimento. Non grandi cose, ma anche piccole condivisioni, una fraterna comprensione, un piccolo slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un pio desiderio. Ripeto: non saremo giudicati sui nostri pii propositi; non saremo giudicati su quello che avremmo voluto fare, se avessimo avuto tempo o possibilità; non saremo giudicati sulle nostre buone intenzioni, ma su ciò che concretamente abbiamo fatto, su come l’abbiamo fatto, sulla nostra buona volontà.
Dopo l’esame personale di ciascuno, il testo del Vangelo introduce, come risultato, due possibilità diverse, due destinazioni opposte, in funzione dei singoli comportamenti: una per gli eletti, l’altra per i condannati. Uno è invece l'elemento che giustifica questa scelta: una domanda accorata che sgorga da entrambe le schiere: consolante per i primi, tragica e disperata per i secondi: “Quando Signore?”. Già, “quando”? Nessuno se n'era accorto; nessuno aveva capito di aver avuto a che fare non con dei bisognosi, ma con Dio in persona: non ci avevano mai pensato. Sì, fratelli, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso. E tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni hanno amato l’uomo e, pur non vedendo in lui Dio, lo hanno comunque amato; gli altri, non amando l’uomo, hanno rifiutato anche Dio.
L’amore per Dio, quando si ama il prossimo, è un amore inconsapevole, inconscio. Nessun santo sapeva di essere santo amando il prossimo. Chi ama Dio non “sa” di amarlo. Se noi amassimo uno sapendo che poi erediteremo le sue ricchezze, è chiaro che lo stiamo usando. Lo stessa cosa succede quando noi amiamo il prossimo per avvicinarci a Dio! Anche in questo caso noi stiamo usando qualcuno. Perché, se noi amiamo il prossimo semplicemente per essere dei cristiani in regola, per sentirci a posto con Dio, perché c’è un comandamento che ce lo impone, scusate, ma che razza di amore è il nostro? Stiamo veramente amando, o stiamo facendo dei progetti per il futuro? L’amore non va mai strumentalizzato; in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Pertanto, e lo ripeto per maggior chiarezza, non “dobbiamo” amare il prossimo per “amare Dio”, perché in questo modo lo facciamo per nostra comodità, per avere un tornaconto, elevato quanto si vuole (Dio), ma pur sempre un tornaconto. Invece il fratello, il prossimo, va amato per se stesso, perché ci entra dentro l’anima, perché il suo volto ci penetra dentro, ci tocca il cuore.
La prima preoccupazione di chi cerca la perfezione, è di sapere se la sua vita è gradita o no a Dio, se piace o no a Lui, di sapere se è bravo o no, se ha fatto giusto il suo compitino: non lo saprà mai. “Quando Signore?” Nessuno lo sa: d’altronde, se Dio venisse qui da noi in veste ufficiale, tutti faremmo a gara per aiutarlo, per metterlo a suo agio, per farcelo immediatamente “amico”; vorremmo ovviamente entrare tutti nelle sue grazie, tra i suoi intimi, perché tutti vorremmo essere presentati da Lui al Padre, essere considerati bravi figli, bravi discepoli. Ma Dio non è visibile in questo mondo, fratelli; se lo fosse, amarlo sarebbe molto facile per tutti; difficile è invece amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto. Diceva Madre Teresa: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
C’è dunque una diversa destinazione: quelli a destra, sono i salvati; quelli a sinistra, i dannati. Ma perché mai “destra” e “sinistra”?
La destra, per gli antichi, è il segno della luce, della ragione, di chi vede le cose e se ne preoccupa. La sinistra, invece, è segno del buio, dell’inconsapevolezza, del non accorgersi, del disinteresse. Ecco, la differenza tra i due schieramenti è proprio qui: c’è chi si lascia toccare, colpire, segnare da chi incontra, c’è chi gli parla, chi si immedesima con lui, e chi, invece, alza una barriera, si protegge, si schernisce, si difende. La differenza quindi è tra chi “sente” la vita dell’altro e vi partecipa con la sua, e chi al contrario ne rimane fuori, non entra, non si lascia coinvolgere, non si lascia toccare da ciò che l’altro vive; rimane insensibile, indifferente, schermato, menefreghista.
C’è una parola moderna che stabilisce bene ciò che differenzia le due schiere: è l’“empatia”.
Empatia vuol dire infatti entrare dentro, sentire dentro; percepire, cioè, quello che anche l’altro percepisce. Viene dalla parola greca “patos” - che vuol dire sentire, patire, e indica un sentimento forte e profondo, simile alla sofferenza - e dalla desinenza “in” che vuol dire dentro.
L’empatia è dunque la capacità di lasciarsi toccare dalle persone. Noi piangiamo con facilità davanti alle scene commoventi di un film, ci identifichiamo con i nostri campioni sportivi ed esultiamo con essi per la vittoria. Ma ci risulta difficile “sentire” cosa l’altro sente, “vivere” quel che l’altro vive; non riusciamo a percepire il suo dolore, la sua sofferenza, l’intensità delle sue parole e dei suoi gesti. Non siamo in sintonia con lui, gli siamo fuori e lui non ci è dentro. In questo caso, fratelli, non può esserci amore: dove c’è distacco, divisione, non esiste amore. L’amore è invece vicinanza, è unione, è entrare dentro l’altro: è, insomma, “empatia”, un sentimento che ci cambia, che ci fa diversi, che ci modella, che ci fa vedere le cose da altre prospettive.
Ma il vangelo non si esaurisce qui: lo stesso impegno che dobbiamo avere verso il prossimo, dobbiamo averlo anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare, oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, fratelli, perché succede anche a noi di essere affamati, di essere assetati, e dobbiamo quindi darci da “mangiare e da bere”. Chi di noi non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Io non ho bisogno di nessuno!?” Solo un pazzo, solo un esaltato. Dobbiamo invece tener sempre nel giusto conto anche il nostro bisogno di amore, di tenerezza, di affetto, di complimenti; di stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.
L’amore è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.
Ascoltiamo dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente perché capita anche a noi di sentirci forestieri e carcerati; anche noi ci sentiamo talvolta di vivere in un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è qui, in questo momento, che abbiamo bisogno anche noi di accoglienza, di un consiglio, di una buona parola, di assicurazioni.
Invece spesso noi ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto. Siamo così orgogliosi da preferire di star male, piuttosto che ammettere la nostra debolezza. Ma il nostro orgoglio non ci ripaga mai, fratelli, ricordiamocelo. Se ci sentiamo tremendamente soli, forse dipende dal fatto che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse siamo noi che non vogliamo farci amare!
Quando ci guardiamo nello specchio dell’anima, succede a volte di sentirci nudi, di vederci cioè per quelli che siamo in realtà, al di là di tutte le maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo non vivere certe cose e non fare certi pensieri. Ecco, è proprio in questi momenti che ci dobbiamo amare e accogliere per quello che siamo. È difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità, che possiamo ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre. Un “medico”? Sissignori: perché quando il nostro cuore si irrigidisce e rifiuta di aprirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando il nostro spirito si rifiuta di perdonare, allora soprattutto abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo pretendere di essere Dio e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi stessi. Non possiamo infine essere così stupidi di credere di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno, neppure di Dio.
È una faccenda molto seria, fratelli. Perché alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà, al Re dell’universo, dovremo dare testimonianza anche su questo.
Il risultato? “I maledetti al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”. Non c’è alternativa.
Fratelli miei: mettiamo allora da parte il nostro bel “taccuino” su cui abbiamo segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni, le opere buone e i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quanto ci è stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nel solo, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene. Il giudizio sarà tutto sulla carità che abbiamo praticato. E sul cuore con cui l’abbiamo praticata.
La nostra messa domenicale, fratelli, non può, non deve esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di amore col Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada a piedi o in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore da dentro a fuori, da vicino a lontano, se sapremo riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto di chi incontriamo ogni giorno.
Non c’è altro da dire, fratelli. Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da oggi, da ora, da subito, immediatamente; perché in quel giorno non avremo più tempo di far nulla, tutto sarà già compiuto. Allora Cristo sarà nostro Signore e Re nei secoli eterni se avremo amato veramente, diventando trasparenza della sua misericordia e testimoni credibili della sua compassione. Amen.


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