venerdì 27 gennaio 2017

29 Gennaio 2017 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-12).

Il vangelo di oggi ci propone le “beatitudini”: un condensato di norme comportamentali che Gesù indica come insostituibili per quanti vogliono seguirlo come discepoli.
È la legge definitiva del nuovo corso di vita instaurato da Gesù: una legge però che, nello stile di Dio, non impone “cosa” dobbiamo fare o non fare, ma ci spiega semplicemente “come” dobbiamo essere: quindi non una legge “negativa”, nel senso che “vieta”, ma “propositiva”, nel senso che esorta a fare nostro il nuovo stile di vita improntato sulla carità.
Le beatitudini in pratica ci indicano il percorso che dobbiamo fare se vogliamo raggiungere il massimo delle nostre aspirazioni: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole per te e questa è la tua unica felicità. Tu non immagini neppure le possibilità che hai, come puoi vivere, come puoi sentirti soddisfatto e felice! Non immagini neppure la grandezza del tuo cuore, la potenza del tuo amore, la profondità dei tuoi rapporti, dei tuoi sentimenti, delle tue percezioni. Non immagini quanto tu possa sentirti ricco, ricolmo di vita, forte, pur non possedendo nulla”.
Le beatitudini, certo, non ci insegnano a vivere senza contrasti, senza conflitti, perché purtroppo vivere senza tale zavorra è impossibile. Non insegnano a scansare le contrarietà della vita ma ad entrarci dentro, a superarle; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (sarebbe comodo), ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io”; e di noi: “Tu puoi vivere meglio di come pensi”.
Le beatitudini infatti non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza. Non dicono che la povertà è un bene: la povertà è miseria, ma appartiene realisticamente alla nostra condizione umana. Non dicono che è un bene essere perseguitati: no, è terribile e crudele; chi lo cerca è un masochista, un ammalato! Ma non possiamo neppure vivere pensando di essere sempre bene accetti da tutti. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. Solo che piangere ci trasforma, ci purifica; è il modo naturale di esprimere le nostre sofferenze, i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti, le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà: non è bello, ma è necessario. Non dicono che dobbiamo chiudere gli occhi e subire le malefatte degli uomini: dicono invece che dobbiamo essere misericordiosi, che dobbiamo avere un cuore grande che giudica solo le azioni, i comportamenti umani, non gli uomini. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura; per questo diventano aggressivi, violenti, indisponenti. Ciò non significa tuttavia che dobbiamo subire tutto. Quando c’è da dire un “no”, da puntare i piedi contro qualcuno, facciamolo con tutta la nostra forza, tenendo però in considerazione la persona che sta dall’altra parte, commiserandola per la sua situazione.
Le beatitudini dunque non sono dei comandi: “Devi vivere così”. Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. Ci offre una possibilità: possiamo sceglierla o meno. Tocca a noi scegliere. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa dobbiamo fare per essere dei bravi cristiani!”, sono un cammino.
Dio dice: “Sii te stesso”. Dobbiamo cioè vivere la nostra vita. La società invece impone la competizione: “vivi imitando i più forti, i più potenti, superali!”. Molte persone si sono adattate talmente agli altri per compiacerli, da perdere se stesse; non ricordano più neppure chi siano. Dobbiamo rimanere noi stessi, perché essere qualcun altro è il fallimento della nostra esistenza. Viviamo la nostra vita: viverne un’altra non potrà mai farci felici.
Dio dice: “A me non devi dimostrare nulla, puoi vivere serenamente la tua vita anche se non hai successo!”. La società invece dice: “Puoi vivere solo se sei ricco, se hai profitti, se sei famoso, se sei bravo”. Per questo molte persone lavorano sempre di più. Non riescono a star ferme, sono sempre in movimento. E giustificano tutta questa loro iperattività come “agire”, che a seconda  dei casi definiscono come attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per i figli.
Altre persone invece sono convinte di non valere, di non essere poi così importanti, e allora cercano in tutti i modi la visibilità, l’esserci. È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per il prossimo sarò sicuramente un ottimo cristiano, un ottimo padre, un’ottima madre!”. Ma non è quello che facciamo che ci rende bravi cristiani, bravi genitori. È ciò che abbiamo dentro che ci rende tali. Dio non ci ama perché facciamo tanto. Dio ci ama perché siamo noi, perché siamo tornati ad essere sua somiglianza. Tutto quello che facciamo esteriormente, non ci rende più belli o più graditi ai suoi occhi.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore assolutamente sicuro che ci aspetta alla fine del nostro percorso!
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”. La nostra cultura dice invece: “No, non rivelare mai i tuoi sentimenti, soprattutto quelli più personali e profondi”.
Molte persone hanno imparato che non è bello farsi vedere deboli: chi è forte non piange mai. E per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma ciò non li rende affatto uomini forti, ma solo persone insensibili, rigide e gelide come il marmo. Il pianto è una reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha addolorati. Smettere di piangere non ci rende meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo. Tensione e dolore rimangono forzatamente dentro di noi, nascondendo la verità: facciamo credere che tutto vada bene, quando invece dentro di noi siamo profondamente scossi.
Al contrario molte persone credono che arrabbiarsi sia male. Nossignori: è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni di odio. Ogni volta che veniamo feriti nella nostra dignità, è normale per noi arrabbiarci. E una volta che siamo arrabbiati, dobbiamo accettare di esserlo, perché vuol dire che una ragione c’è: solo così possiamo iniziare a gestire la nostra rabbia e a buttarla fuori.
Molte persone, poi, hanno imparato a non aver mai paura. Così sono convinti di non aver paura di nulla; ma aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura. Non dobbiamo nascondere la paura dietro una maschera allegra o sorridente. Non dobbiamo resistere alla paura con tutte le nostre forze, la paura ci appartiene. Ci dice che ciò che stiamo facendo ci costa, ci mette in gioco, è qualcosa d’importante; sappiamo però di essere noi i più forti.
Altre persone infine si vergognano di come vivono, di ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore talmente grande da contenere ogni cosa; Lui non ha paura di ciò che a noi fa paura o di ciò che ci fa sentire in colpa; la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta qualunque cosa facciamo. Dobbiamo solo comunicare con Lui, condividendo ciò che proviamo. Non dobbiamo nascondergli nulla perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle nostre “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che noi non riusciamo ad amare. E quando non avremo più nulla da nascondere, allora ai suoi occhi saremo finalmente liberi e liberati.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Già questa prima beatitudine le racchiude tutte.
Il “povero” è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso. Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa uno che vive distaccato dalle cose, totalmente immerso in esse, ma senza aggrapparsi ad esse.
Pensiamo ad una cosa e diciamole: “Tu sei mia”. A che cosa possiamo dire: “Tu sei mia!”? Il marito, la moglie, sono nostri? I figli sono nostri? La vita è nostra? No, neppure la vita è nostra. Non ci sembra allora di essere i poveri più poveri? Non possediamo nulla, nemmeno la vita!
La povertà, l’essere nulla (diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente, ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
Quando si ama, ad esempio, la paura di perdere l’altro ci può distruggere. Iniziamo a temere che qualcuno ce lo sottragga, diventiamo gelosi e iniziamo a controllarlo. Iniziamo a temere che l’amore finisca o cambi, e leggiamo ogni situazione alla luce di questa paura, vedendo non la realtà, ma ciò che i nostri occhi vogliono vedere. Iniziamo a volerlo trattenere, ad aver paura quando esce di casa, a proteggerlo troppo, a sentirci soli quando non c’è. Iniziamo a pensare a quando non ci sarà più, a come sarà la nostra vita senza di lui, e se potremmo vivere ancora. Se poi si insinua il dubbio che l’altro non ci ami più, allora è la fine. La verità, in ogni caso, è che prima o poi, nella nostra vita, quest’amore lo perderemo in ogni caso. È la realtà! Ma se riusciamo a vincere questa paura, se ce ne liberiamo, possiamo amare con tutta la forza della nostra anima e con tutto il sentimento del nostro cuore, senza calcoli, senza riserve, senza paure, senza eccessivi attaccamenti, senza possederlo.
Ringraziamo Dio di ciò che viviamo e se le cose un giorno cambieranno, le affronteremo con la pienezza dell’oggi, che diventerà la nostra forza per il domani.
La prima beatitudine, dunque, dice la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ci appoggiamo? Su cosa possiamo davvero fidaci? Sulle cose? Passano tutte, tutte si usurano. Sulla gloria? Forse rimarrà un nome, ma noi non ci saremo più. Sulle persone? Non ci salvano.
Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa a cui ci possiamo appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Nella lingua ebraica “zerà”, oltre a “zero, niente”, significa anche “seme”. Ebbene, noi siamo “zero, nulla”, siamo vuoti, poveri di tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere “niente”, è nascosto, come in un “seme”, il nostro essere tutto.
Nel nostro niente c’è il Tutto. Nella nostra povertà c’è la Ricchezza. E più noi ci spogliamo, smettendo di confidare in noi stessi, più possiamo metterci nelle mani di Dio ed essere al sicuro.

Perché quando non avremo più nulla, è allora che avremo il Tutto. E quando saremo spogli di ogni cosa, è allora che saremo rivestiti di eternità. E quando tutto morirà, allora ci sarà la Vita. E quando tutto alla fine cadrà, allora per noi sarà l’Inizio. Amen.



Nessun commento: