giovedì 29 settembre 2016

2 Ottobre 2016 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli apostoli dissero al Signore: Accresci in noi la fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,5-10).

Siamo nel capitolo 17 del vangelo di Luca, e Gesù, lungo il percorso che lo porta a Gerusalemme, continua la sua catechesi itinerante. Il Vangelo di oggi si apre con gli apostoli che rivolgono a Gesù una richiesta accorata: “Signore, aumenta la nostra fede!”.
A che proposito? Come mai avanzano una tale richiesta? Per quale motivo affrontano qui il tema della fede?
Ci sono due spiegazioni logiche a questi interrogativi: la prima vede questo intervento sulla fede strettamente legato ad un contesto più ampio: sarebbe quindi un chiarimento di fatti e parole che lo precedono. La seconda invece pone la richiesta degli apostoli come un pretesto offerto a Gesù per cambiare discorso, per affrontare un nuovo argomento, in questo caso la fede.
In Luca il primo caso non appare subito così evidente e comprensibile. Perlomeno non come in Matteo, in cui il tema della fede è strettamente sequenziale al contesto che lo precede: un uomo ha un figlio epilettico, lo porta da Gesù perché lo guarisca, visto che i suoi discepoli in precedenza non erano riusciti. Gesù lo guarisce e a questo punto i discepoli gli chiedono: “Perché noi non ci siamo riusciti?”. E Gesù: “Per la vostra poca fede!” (Mt 17,14-19). E qui il tema della fede si lega in maniera perfetta e logica: se i discepoli avessero una fede grande anche “quanto un chicco di senape”, quindi in misura infinitesimale, riuscirebbero agevolmente a spostare le montagne.
In Luca, invece, la richiesta degli apostoli di aumentare la loro fede non appare così chiaramente legata al testo che la precede: qui infatti Gesù parla degli “scandali” (Lc 17,1-3), del perdono (Lc 17,3-4) e soprattutto che bisogna perdonare non una, ma “sette volte al giorno”, cioè sempre. Ora, che c’entra l’argomento della fede con lo scandalo e il perdonare? Apparentemente nulla, ma c’entra eccome: la spiegazione? Sta nella impossibilità da parte degli apostoli, umili e ignoranti pescatori, di accettare questa direttiva di Gesù, per loro assolutamente incomprensibile e contraria alla loro cultura: “Come? Perdonare sempre? Dare sempre un’altra possibilità? Dopo un torto, uno scandalo, un insulto così grande, dobbiamo ancora perdonare?”. Ecco, la molla che fa scattare la loro richiesta sta tutta qui: si rendono conto cioè dei loro limiti umani, capiscono che con la loro mentalità non potranno mai, in assoluto, concedere sempre il loro perdono, indipendentemente da tutto: “È troppo per noi, Gesù. Così come siamo ora, non ce la faremo mai; per questo, Signore, aumenta la nostra fede”.
Troviamo però altrettanto valida anche la seconda possibilità: che cioè la richiesta degli apostoli sia un escamotage “lucano” per cambiare argomento, per dare l’opportunità a Gesù di cominciare una nuova catechesi: da dove si capisce? Leggiamo il testo che precede: Gesù “un giorno” (17,1) si mette a spiegare ai discepoli (in greco mathetai), come gli scandali siano inevitabili: è un male che purtroppo esiste da sempre in tutte le comunità: una piaga che neppure Dio può eliminare, per non compromettere il libero arbitrio dell’uomo; tuttavia, pur condannandolo fermamente (“guai a colui che li provoca”), ordina ai suoi di perdonare il peccatore pentito: e non una volta, ma sempre. Punto: termina il v. 4 e l’argomento è chiuso. Inizia il versetto 5 e cambia scena: se prima era stato Gesù, spontaneamente, a voler parlare di scandali e perdono, ora sono gli apostoli, in greco apostoloi, che intervengono con una richiesta ben mirata: “Signore, aumenta la nostra fede”. Sono dunque “altre” persone, più qualificate rispetto alle precedenti, che erano semplici mathetai, “simpatizzanti” (sappiamo infatti che nei vangeli apostoli e discepoli appartengono a due gruppi ben precisi e distinti); si tratta di “collaboratori” di Gesù, che di punto in bianco, costringono Gesù a cambiare argomento.
Comunque sia, quello che preme qui a Luca è di riportare gli insegnamenti di Gesù sulla fede.
Seguiamo la tesi del nesso logico esistente tra il vangelo di oggi e il contesto che lo precede: è chiaro, in quest’ottica, che gli apostoli non si sentono ancora adeguatamente pronti per seguire quelle indicazioni di Gesù, per loro così difficili, innaturali, così “rivoluzionarie”: nel loro cuore avvertono però il bisogno di crescere, di migliorare la loro fede, di aumentarla: “Signore, aumenta la nostra fede”; si rendono conto che hanno ancora molto da imparare, da cambiare, da evolvere. Fanno comunque capire di essere nello stato d’animo ottimale per intraprendere un serio cammino di sequela: così come sono non basta; non si sentono adeguati, vogliono migliorare, progredire, andare sempre più in avanti, verso l’alto. A volte non credono, sono scettici, non arrivano a dare un senso agli insegnamenti del loro Maestro: per questo vogliono una fede “più”, in tutti i sensi.
È la fede, dunque, il loro assillo. Sappiamo che tutti gli interventi salvifici di Gesù sono sempre legati alla fede. Ma noi, che tipo di fede dobbiamo avere? Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede del malato o bisognoso di turno che lo salva, ma è la potenza di Dio. La fede però ne è il presupposto, la condizione essenziale: senza la fede anche la potenza di Dio si annulla. Come mai? Perché “aver fede” significa riconoscere la nostra totale impotenza e, nello stesso tempo, porre ogni nostra fiducia nella potenza del Signore. La fede è il rifiuto di contare su di noi stessi, per contare unicamente su Dio. Questa è la condizione interiore che Egli ritiene indispensabile per esercitare la sua potenza, per donarci la salvezza, il coraggio che ci serve per seguirlo. Ma se la fede è questo, allora è chiaro che non possiamo trovarcela da soli, è chiaro che non possiamo crearcela autonomamente: anche la fede è un dono di Dio. A noi allora non rimane che chiederla umilmente, come giustamente hanno fatto gli apostoli: “Signore aumenta la nostra fede”.
Molte persone, purtroppo, pur avendone bisogno, non sentono affatto il desiderio della fede, non si pongono neppure il problema, la considerano una cosa per donnette ignoranti, di poco conto. Altre invece sono talmente diffidenti da respingere qualunque possibilità di iniziare nuovi percorsi, si bloccano, terrorizzate, all’idea stessa di cambiare, di crescere, di affrontare situazioni che aumenterebbero inevitabilmente le loro responsabilità. Per questo “Signore aumenta la nostra fede” deve essere invece la nostra preghiera quotidiana a Dio.
Alla domanda degli apostoli, Gesù non risponde con un “fate questo”, o “fate quell'altro”; e neppure risponde “Sì”, o “no”. Gesù offre loro semplicemente un criterio per poter stabilire da soli la qualità della loro fede: “Se aveste fede quanto un granello di senape potreste farlo”; cioè, potreste sradicare qualunque ostacolo vi si pari davanti, qualunque blocco mentale, qualunque decisione apparentemente impossibile da superare, come per esempio, questa vostra incapacità di perdonare sempre, di concedere sempre e comunque alle persone un’altra possibilità di riscatto, prima di sentenziare la loro morte spirituale.
Le caratteristiche della nostra fede stanno dunque tutte nella vittoria che essa può conseguire nello scontro titanico, alla Davide e Golia, tra la sua piccolezza, la sua debolezza pari ad un “granello di senape”, e la fermezza, la potenza poderosa di un albero centenario come il gelso. Un confronto tra due poli estremi: in Palestina era infatti proverbiale citare un “granello di senape” per indicare una cosa piccolissima, infinitesimale; oggi diremmo è “un niente”, una cosa insignificante, senza forza. Il gelso, invece, era notoriamente conosciuto come un albero difficilmente sradicabile, per la profondità delle sue robuste e lunghe radici, che gli consentivano di vegetare anche per 600 anni.
Ebbene, cosa vuol dirci in pratica Gesù con tale paragone? Che una cosa piccolissima, inerme, senza forza, è in grado di vincere, di sradicare, di sopraffare una cosa enorme, robusta, inamovibile. È l’assurdo della fede.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa:“qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti pregano senza fede anche tra i preti; quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue! E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! La fede non è legata al nostro stare in un posto sacro, in un Santuario piuttosto che in un altro, a Medjugorje piuttosto che nella nostra Parrocchia.
La fede è una disposizione dell’anima, è attenzione a Dio, è fiducia pura in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di essere protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi. Questo significa avere fede!
La fede in Dio allora non è quello che sappiamo, quello che abbiamo studiato, i trattati di mistica che abbiamo letto; non è la laurea in teologia; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quello che abbiamo dentro, che sentiamo dentro: in una parola è sentimento, forza, energia, amore, emozioni incondizionate, che regolano la nostra esistenza.
Il contrario della fede è la “fissazione”, è quando cioè siamo irremovibili su una nostra convinzione, su un’idea, e non vogliamo in alcun modo cambiarla: un’altra grave deficienza del nostro essere veri cristiani. Quante persone per esempio sono convinte, sono fissate, che certe espressioni, certe azioni, certi comportamenti siano espressione di fede! Così, certi segni di croce, certe corone del rosario al collo, certe preghiere biascicate in fretta, certe “messe” per i defunti in cui deve essere necessariamente citato il nome della buonanima altrimenti la messa anche se “pagata” non vale, sono autentiche manie, fissazioni appunto, che nulla hanno a che vedere con la fede! In questo caso siamo come il gelso, dalle possenti radici, caparbiamente fissati sulle nostre idee, sulle nostre regole rigide, sui nostri pregiudizi, sui nostri credo indiscutibili: ma così rimaniamo fermi, immobili, impossibilitati a procedere; veramente più nulla ci è possibile.
Il più grande modello di fede presentatoci dai Vangeli? Maria ovviamente. Pensiamoci un istante: era impossibile per lei, umile ragazza di campagna, accettare quello che l’angelo Gabriele le proponeva, di diventare cioè la madre di Dio; cosa che solo a pensarla significava essere eretica: una donna madre di Dio? Subito la pena di morte!; accettare di rimanere incinta, ma non dal suo uomo, Giuseppe? Significava cercarsi almeno la lapidazione. Ma Lei ebbe fede, una fede incrollabile, una fede autentica: “Non so come farò, ma mi fido; avvenga di me quello che tu vuoi; tutto ciò che tu mi dirai, io lo farò”. E così fu.
Ma torniamo al seguito del nostro vangelo: all’insegnamento sulla fede, Luca fa seguire una parabola, una sua esclusiva (Lc 17,7-10). Indirizzata in particolare agli apostoli, agli operai della vigna del Signore e a quanti col battesimo hanno scelto di seguire le sue orme, questa parabola avverte che non ci si può mai fermare sui risultati acquisiti, mai riposarsi pensando di aver lavorato abbastanza. È una piccola parabola che non intende tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: che deve essere nei suoi confronti un comportamento di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
Ma cosa vorrà mai dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, reso in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola non sono stati inutili; è una parola di difficile traduzione, un termine che implica un particolare atteggiamento di modestia, tipico di persone “misere”, degli “schiavi”; l’atteggiamento di coloro cioè che lavorano stando al proprio posto con umiltà, senza ostentazione o presunzioni; che sono consapevoli di essere dei servi e che tutto quanto fanno rientra, nella normalità del loro stato: in loro nulla di eclatante, nulla di eccezionale. Sappiamo infatti che servire Dio è per sua stessa natura gratuito, rientra nella logica del dono: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
In particolare questa parabola colpisce una certa mentalità del tempo, che accampava pretese verso Dio: stabilisce cioè che il padrone indiscusso è Dio e che i suoi discepoli sono dei servi, privi di qualunque pretesa. Per alcune persone dell’epoca, invece, le opere buone, la fedeltà alla Legge e alle regole, costituiva un merito, un titolo di credito, che assicurava dei diritti nei confronti di Dio. Era un “do ut des”, uno scambio: “Sono bravo, ubbidiente, non faccio nulla di male, e quindi merito il paradiso, merito di essere amato da te, è un mio diritto, perché mi comporto da bravo cristiano!”.
È un rischio sempre presente anche ai nostri giorni. Soprattutto quando preghiamo: abbiamo fatto delle donazioni, delle offerte, siamo stati sempre caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, abbiamo frequentato la Chiesa, abbiamo assistito a liturgie particolari e impegnative? sono tutte cose che non ci danno alcun diritto di pretendere da Dio questo o quello, di chiedere grazie e benefici, come di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, di stabilire la pace nel mondo, ecc.”; quando preghiamo dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio, a non aver la presunzione di “comprarlo”, vantando in contropartita eventuali nostre opere “meritorie”.
Quando preghiamo Dio, lo dobbiamo pregare per ringraziarlo di quanto ha fatto e continua a fare per noi, per assicurargli il nostro amore, per donargli la nostra vita. Lo dobbiamo pregare perché ci dia la forza di affrontare ciò che, nella nostra debolezza, dobbiamo affrontare; la forza di fare le nostre scelte, di prenderci le nostre responsabilità, di accettare i limiti imposti dalla vita, ecc.
La preghiera non è uno scambio: “io ti prego un tanto e tu mi devi dare altrettanto”. Dio sa bene ciò di cui abbiamo bisogno: lasciamo decidere a Lui cosa, come e quando darcela; non pretendiamo di insegnarli come deve fare il mestiere di Dio!
Quante volte ci capita di sentire gente che mormora: “Sono arrabbiato con Dio, perché nonostante tutte le preghiere che gli ho rivolto non mi ha esaudito!”. Ed ha fatto bene! Dio non è questo, la preghiera non serve a questo. La preghiera non è il nostro strumento per “convincere” Dio a darci quello che ci interessa. La preghiera non serve per fare i “furbi” con Dio, per cercare di “raggirarlo”. La preghiera serve solo per convertire il nostro cuore, la nostra anima, per diventare più docili alla Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10). Amen.


giovedì 22 settembre 2016

25 Settembre 2016 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,19-31).

Il vangelo di oggi non parla dell’oltretomba, della vita dopo la morte, ma parla dell’al di qua, di questa nostra vita: ci dice cioè come dobbiamo vivere ora, per non correre il rischio di finire poi, nell’al di là, come il ricco; ci dice in pratica che se ora ci disinteressiamo del povero che urla alla nostra porta, nell’altra vita finiremo sicuramente nei tormenti come il ricco della parabola.
Ci sono dunque due personaggi in primo piano: il ricco e il povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, segno di grande agiatezza e di alta posizione sociale, una casa, cibo a volontà per cui ogni giorno mangia lautamente e abbondantemente; ha fratelli, cioè amici, relazioni, amore; ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, anzi si preoccupa dei suoi fratelli; non è malvagio; non fa niente di male. Egli ha tutto, non gli manca proprio niente. L’unica cosa che non ha è il nome.
Poi c’è Lazzaro. Lazzaro, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i cani. Lazzaro è indifeso, è mendicante, bisognoso, affamato e solo, malato e ricoperto di piaghe. L’unica cosa che possiede è un nome.
Per la Bibbia, il nome riassume un po’ la vita della persona che lo porta, la rappresenta, è la sua immagine speculare; persona e nome sono la stessa cosa, coincidono. Allora conoscere il proprio nome, vuol dire conoscere se stessi, la propria identità, avere un programma preciso da realizzare, insomma, vuol dire essere vivi. “Lazzaro” è il nome del povero: il suo significato è “Dio aiuta”: un nome che sintetizza infatti la sua vita: egli ha bisogno che qualcuno lo aiuti, che qualcuno si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione, ha bisogno di Dio.
Il ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome: in questo caso il ricco non ha nome perché è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa o attira la sua attenzione, neppure ciò che gli succede praticamente in casa; non ha insomma alcun potere sulla sua vita. Non si accorge neppure di Lazzaro: ma come avrà fatto a non vederlo? Egli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere. Ecco, questo è stato il suo problema, la causa della sua condanna: non accorgersi, non voler prendere coscienza di nulla.
Ebbene, questo, dice il vangelo, è quanto sicuramente ci capiterà, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere, addirittura in casa nostra!
Viviamo pure come quel ricco: insensibili, indifferenti a ciò che reclama la nostra attenzione, il nostro intervento, le nostre cure; sicuramente ci condanneremo da soli, già in questa vita ma soprattutto nell’altra, eterna, a tormenti e disagi senza fine. Viviamo pure superficialmente, ignoriamo volutamente o per ignoranza le cose di Dio, e ci troveremo nelle sofferenze del nostro inferno.
L’inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi: continuiamo a perderci in chiacchiere insulse, evitiamo furbescamente di porci domande che ci scombussolerebbero la “quiete”, non affrontiamo volutamente questioni profonde e vitali, non scaviamo dentro di noi, evitiamo le difficoltà, i problemi, sbarazziamoci di tutto ciò che è scomodo, che ci crea fastidio, non ascoltiamo mai la voce della nostra anima, del nostro cuore: poi vedremo cosa ci capiterà!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di amore, di aiuto, di tenerezza, di comprensione e non ci sono arrivati! Non sentirci amati, aiutati, considerati, è stato sicuramente drammatico. Certo, sarebbe piaciuto anche a noi vivere come quel ricco nelle comodità, senza aver bisognoso di nessuno, autosufficienti in tutto! Fa così male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, umiliarsi perché qualcuno ci presti attenzione, ascoltandoci, colmando il nostro vuoto abissale: c’è sempre il terrore di ricevere un no, di essere ancora ignorati, rifiutati!. E così viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e buttiamo la nostra vita nella ricerca irrazionale dell’effimero riconoscimento altrui, di apparire almeno esteriormente importanti, di sembrare qualcuno.
Ma “Lazzaro” sono anche quelli che ci stanno vicini: sono le persone che sono tristi, che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: e noi spesso facciamo finta di nulla, di non sentirle: vediamole, queste persone, accogliamole, ascoltiamole! Se chi ci è vicino non parla mai, ammutolisce, è sempre chiuso in se stesso, vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Se chi ci è vicino è sempre di malumore, non ci rivolge la parola, anzi ci evita, vediamolo, ascoltiamolo, cerchiamo di capire i motivi del suo urlo silenzioso. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito, i nostri figli, hanno bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che hanno bisogno di noi, del nostro apprezzamento, di sentirsi valorizzati, delle nostre dimostrazioni di stima? Come facciamo a non vedere l’angoscia di quanti ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che si tengono dentro il loro cuore? Lazzaro ci è vicino, pressante nella sua discrezione, ma noi non lo vediamo, non lo sentiamo, siamo distratti, occupati nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri passatempo.
E non ci accorgiamo, come l’uomo ricco, che viviamo già fin d’ora nell’inferno: perché il nostro inferno è la mancanza di amore, è la solitudine, è credere che nessuno mai potrà entrare in noi per chiederci e offrirci amore; inferno è chiudere con l’egoismo la porta del nostro cuore, della nostra mente, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L’inferno è la chiusura a Dio: è non permettergli di entrare con la sua luce dentro di noi, dove c’è tormento, solitudine e sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono e misericordia.
L’inferno o il paradiso è dunque nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra Lazzaro o se lasciarlo fuori.
La conversione è il momento preciso in cui smettiamo di ignorarlo, di resistergli e, con il cuore in lacrime, con dolore ma con un senso di liberazione, accettiamo che lui ci appartiene, che Lazzaro siamo noi: e proprio in quell’istante sperimenteremo su di noi il significato del suo nome: “Dio salva”.
Nella seconda parte della parabola poi, che si svolge in cielo, troviamo il ricco che rivolge al Padre Abramo l’accorata richiesta di mandare il povero Lazzaro dai suoi fratelli, su questa terra, per indurli a cambiare vita, per non fare la sua stessa fine.
Ma, dice Abramo, ciò non è possibile, oltretutto non serve a nulla; in altre parole: se uno ha il cuore indurito, se uno per principio non vuol credere, niente e nessuno potrebbe fargli cambiare idea, non crederebbe neppure se Cristo stesso ritornasse a predicare sulla terra. Del resto, prosegue Abramo, gli elementi, i segnali per credere, ci sono già tutti: chiunque può vederli, basta che lo voglia; chi invece testardamente non vuol vederli, non li vedrà mai!
Tutti abbiamo a disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molte persone vivono una vita insensata, da sordi; si tappano le orecchie per non udire, vivono ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione. Hanno in questa vita tutte le possibilità per imparare, per fare esperienza, per crescere, per coltivare la loro sensibilità, per prestare attenzione non soltanto al loro “Lazzaro”, alla loro anima, ma anche per soccorrere tutti i “Lazzaro” che soffrono accanto a loro. Hanno tutto, ma non fanno nulla! Altri profeti, altri miracoli per salvarsi? No: è la fede che ci indica il come, e la carità che lo mette in pratica! È credere in Dio, vivere alla sua presenza, credere e confidare nella sua bontà, nel suo Amore misericordioso, nella bontà e nella perfezione delle sue creature, nella bellezza del creato intero.
I miracoli li viviamo ogni giorno: esseri vivi, risvegliarsi al mattino, è già da solo un miracolo strepitoso che Dio compie ogni giorno per noi; i computer, i robots, le conquiste tecnologiche più estreme, fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della Vita. Ma questo pensiero neppure ci sfiora; siamo immersi in un continuo e meraviglioso miracolo che si chiama vita, che si chiama amore di Dio, e questo non ci impressiona, non ci stupisce, non ci commuove.
È proprio vero: chi non vuol credere, chi pensa di sapere tutto, chi vive orgogliosamente nella sua ostinazione, nel suo isolamento, non crederà mai, neppure se vedesse un morto alzarsi e camminare!
Noi su questa terra siamo esseri di luce e di ombra: siamo spiritualmente i poveri “Lazzaro” e materialmente i ricchi gaudenti; siamo cioè i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti, i prediletti di Dio, quelli che godono della Sua luce divina, ma siamo anche, e forse più, quelli che non guardano nessuno in faccia, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita non facendo nulla, i gaudenti di questo mondo, quelli insomma che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo. È vero, siamo divini ma anche terribilmente umani.
Il grande compito della nostra vita è pertanto portare luce dove c’è buio, dove c’è il diavolo, il male, perché egli ama il buio, l’oscurità, la notte, il sotterfugio, il nascondersi, l’anonimato.
Ma chi vuol scendere nel buio? Nessuno. Il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa terribilmente paura. Chi vuole proiettare un raggio di luce in certi inferni della vita? Nessuno, ovviamente; per quanto ci riguarda, il più delle volte preferiamo seguire la soluzione del ricco, la più semplice: chiudere gli occhi e far finta di nulla; negare cioè l’esistenza del male, dei malesseri interiori, delle sofferenze: non li vediamo, quindi non ci sono! Ma siamo degli illusi! Non abbiamo bisogno di altre profezie per saperlo! Quante volte abbiamo provato, noi personalmente, l’esperienza del buio, del nostro inferno: viviamo immersi nel niente; non abbiamo più riferimenti, il nostro spirito è smarrito, ci sentiamo perduti, il dramma della nostra anima che brancola nell’oscurità più totale, ci destabilizza. Ma se ad un tratto una persona pia riesce a far filtrare in queste nostre tenebre, in questo nulla, anche una piccolissima scintilla di Luce, ci accorgiamo immediatamente che il nostro inferno si attenua, diventa sopportabile, vivibile. Come mai? L’importanza della nostra missione! Perché noi, nonostante la nostra inadeguatezza, siamo figli della Luce, siamo figli del Dio che ha creato la luce; siamo figli destinati a vivere nella luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente ci aspetta per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen.


giovedì 15 settembre 2016

18 Settembre 2016 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare» (Lc 16,1-13).

La parabola di oggi, al primo impatto, potrebbe risultare quanto meno sconcertante, poiché Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro. Dopo le “parabole della misericordia” di domenica scorsa, siamo passati nel capitolo 16 del Vangelo di Luca, con la parabola del fattore infedele.
C’è un uomo ricco e, come tutti i ricchi, ha un amministratore dei suoi beni che è accusato di sperperare i suoi averi. Il padrone lo chiama e gli dice: “Rendimi conto della tua amministrazione, perché da adesso sei licenziato” (Lc 16,1-2). L’uomo, consapevole che il suo comportamento disonesto gli avrebbe procurato il licenziamento in tronco, cerca di risolvere al meglio questo problema imprevisto, ricorrendo astutamente ad uno stratagemma, in grado di creargli amicizie e connivenze importanti per il suo domani.
Ma osserviamo più da vicino i fatti: nella parabola l’amministratore non ammette le sue colpe, non si pente e non chiede scusa. Anzi, considerato che non ha più l’età per affrontare un nuovo lavoro manuale, decisamente più pesante, e che si vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, che fa? S’inventa una mossa in contropiede molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo padrone, ma questa volta a fini “pensionistici”, investendo per il futuro l’utile del suo malaffare . È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava allora, gli paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul totale delle entrate, ovviamente ad incasso avvenuto; allora convoca tutti i debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, e detrae da esso l’importo che egli riteneva destinato a lui. Insomma una truffa in piena regola, ma che per lui truffa non è: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò incassare più dal mio padrone, ma le investo ora che ho ancora l’autorità, per poterle riavere un giorno dai miei debitori, in termini di amicizia, di aiuto, di collaborazione. Sono certo che essi, a seguito della sostanziale riduzione dei loro debiti da me registrata, mi saranno sicuramente riconoscenti!”.
È chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver fatto sottoscrivere ai debitori delle “cambiali” con l’importo falsificato, è da furfante, non certo imputabile a motivazioni spirituali, teologiche o caritatevoli.
È in questa sua scaltrezza mefistofelica che sta infatti la sua “grandezza”: perso per perso, costretto a rinunciare di punto in bianco alla sua sicurezza economica, allo stipendio, al denaro contante, si crea, finché è ancora in tempo, un investimento per il futuro che, sebbene rischioso in termini di denaro e di ricchezza immediata, gli assicurerà comunque un ritorno di riconoscenza, di legami commerciali, di amicizie, di collaborazione negli affari, tutti elementi ottimali per poter ricominciare una nuova attività redditizia.
Dice il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8). Una conclusione che per noi è piuttosto difficile da concordare con l’esempio di vita e gli insegnamenti di Gesù. Ma qui Gesù non elogia la disonestà, la malafede, l’ingiustizia, i furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata è la sua furbizia, la sua intraprendenza, la sua intuizione, la sua prontezza di spirito. Doti per nulla negative, ma assolutamente condivisibili e consigliabili a chi si adopera nel fare il bene; doti raramente riscontrabili in chi lo vuol seguire. Tant’è che Gesù conclude la parabola, costatando un po’ amaramente: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Una constatazione che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato: suo malgrado, dopo tanto impegno da parte sua, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli delle tenebre, nei loro comportamenti negativi, sono più scaltri, più furbi, più “svegli” dei “suoi” figli, i figli della luce. Parole, le sue, che contengono un chiaro a pressante invito ai suoi di adottare nel bene una pari scaltrezza, di agire da insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta furbizia e inventiva.
Per avere tuttavia una visione più completa del messaggio di questa pagina del vangelo, dobbiamo tener conto anche di altre considerazioni più tecniche.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che ha molto a cuore il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi, con annessi e connessi. Egli infatti riporta sempre puntualmente gli interventi che Gesù fa a questo proposito: come per esempio nel capitolo 12, in cui parla della insensatezza di quell’uomo molto ricco che pensa solo ad aumentare le ricchezze fino all’inverosimile, rimandando continuamente nel tempo la possibilità di godersi la vita, senza capire che nessuno è padrone del tempo; per lui la ricchezza è garanzia di felicità, ma egli “muore” da subito, infelice, perché troppo attaccato ai soldi, perché fonda la sua vita soltanto sull’avere e non sull’essere.
Sempre lui, Luca, ritorna sul tema della ricchezza in questo capitolo 16, con il testo di oggi e con quello di domenica prossima, in cui leggeremo la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro.
Ora, il contrasto ricchezza-povertà era una questione sociale di grande attualità anche ai tempi di Gesù. Il termine di riferimento era il “Mammona”, cioè la ricchezza, che veniva comunemente distinta in ricchezza onesta e ricchezza disonesta. Ma per Gesù non c’è distinzione: la ricchezza è sempre, in ogni caso, “disonesta” (“adikia” in greco); per Lui l’arricchimento è sempre ingiusto, perché chi “accumula” solo per sé, inevitabilmente “sottrae” a qualcun altro: e questo si chiama “egoismo”.
Se però scendiamo un po’ più in profondità, vediamo che il termine “Mammona”, tradotto con “ricchezza”, in ebraico contiene la stessa radice di “amen”, un termine che conosciamo bene e che vuol dire “così sia”: un termine che introduce il significato di accettazione, di benestare, dell’augurarsi un qualcosa di sicuro, di certo; un termine insomma che dà sicurezza, su cui si può contare. E cosa c’è nella vita di veramente certo, cos’è che dà fiducia, che infonde sicurezza? Certamente, come abbiamo visto, non è il denaro, non l’accumulo di beni, non le ricchezze: pensare infatti che i beni materiali procurino felicità, è pura illusione. Allora, qual è la cosa che ci dà tranquillità, su cui possiamo contare, quella cosa che possiamo procurarci tramite il “mammona”, la ricchezza, vivendo cioè con la mentalità di questo mondo? Solo l’amicizia, la “filìa”. Ce lo dice chiaramente il testo: “mammona”, la ricchezza, che in sé è sempre “disonesta”, deve servirci solo per procurarci “degli amici” (fìlus), “procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Attenzione però: chi sono questi “amici” in grado di accoglierci nelle “dimore eterne”? Certamente nessun amico “fisico”, umano, materiale, può farlo. Solamente un amico “spirituale”, un amico sincero e fedele in qualunque frangente, un amico cui sta a cuore la salvezza della nostra anima: un amico che si chiama “la nostra fede”, “il nostro credo”; insomma, l’unico e vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne”, è Dio stesso.
In questo mondo possiamo dunque farci un solo “amico” che manterrà ogni sua promessa, un “amico” che ci salverà, che ci toglierà da ogni delusione: Dio.
Per noi cristiani la vera ricchezza è Dio, il vero “amico” è Lui, è la fede in Lui, l’abbandono in Lui: con Lui, la morte, il crollo di ogni nostra certezza materiale, non è più un dramma, ma sarà il mezzo per prendere il definitivo possesso della Vera Ricchezza, quella che non viene mai meno, quella che niente e nessuno potrà mai distruggere.
“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?” (Lc 16,10-12). Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una speciale nel molto. La fedeltà è unica.
Ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Come possiamo definirla? È una virtù, una dote, un “modus operandi” che ci proviene dalla fede; è la ferma convinzione che la nostra unica, autentica ricchezza, è Dio. Se siamo convinti di ciò, allora i beni terreni non contano, vivremo senza l’assillo continuo della loro crescita: useremo la ricchezza per quel che serve, in nessun caso vivremo per essa; anzi la condivideremo volentieri, senza alcun rammarico, perché non ne siamo schiavi.
Se non possediamo questa unica “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “disonesti” verso di Lui e verso i fratelli, nel poco come nel molto. Perché “nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona” (Lc 16,17).
In altre parole, solo servendo Dio possiamo vivere affrancati dalla schiavitù del denaro: lo usiamo, ma non ci attacchiamo ad esso, non è il nostro Dio, non rappresenta per noi la certezza, l’assoluto. Solo in questo modo Dio è il nostro Dio; solo così il nostro cuore diventa “generosità”, “servizio”, “agape”; solo così il nostro cuore sarà aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del prossimo, e solo così un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della Vita.
Dio, nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere scadenza, di essere imperdibile e irrinunciabile. Per questo vivere con Lui significa tranquillità, serenità, beatitudine, gioia vera, Vita!
Noi però, nostro malgrado, continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai beni terreni (soldi, buon nome, prestigio, carriera, riconoscimenti sociali, potere): siamo purtroppo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezze, che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque momento; per essi siamo spesso disponibili a vendere anche l’anima. Viviamo una non vita in continua tensione: abbiamo paura di perderli, questi beni; cerchiamo di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “Mammona” non è un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce solo a soffocarci con l’ansia e la paura, che ci rende la vita, di per sé meravigliosa, sterile, vuota, arida, invivibile. Amen.



giovedì 8 settembre 2016

11 Settembre 2016 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,1-32).

Quello di oggi è un “pezzo” classico del vangelo: una pagina che tutti conoscono, in cui tre parabole dette “della misericordia”, dominano la scena; parabole delle quali tutti, ma proprio tutti almeno una volta, ne abbiamo sentito parlare.
Il testo inizia dicendo che i pubblicani e i peccatori si avvicinano a Gesù per ascoltarlo. Uno pensa: “Beh, le autorità religiose saranno contente che Egli riesca ad attirare gli ultimi, i lontani, soprattutto i peccatori”. E invece no. I farisei e gli scribi, le autorità, “mormorano”; giudicano, cioè, e disprezzano il comportamento di Gesù. Come evidenzia il testo, Lo odiano così intensamente da evitare perfino di nominarlo: si riferiscono a lui chiamandolo: “Costui”.
Ebbene, è proprio “per loro” che Gesù dice queste parabole.
Sappiamo che i farisei e gli scribi erano la “crema” spirituale del popolo. Attraverso preghiere, sacrifici, offerte e una vita irreprensibile, seguendo cioè tutte le norme religiose, anche le più piccole, si ritenevano automaticamente santi e migliori degli altri, che consideravano “gentaglia”, peccatori: tutta gente, questi peccatori, che essi non solo non li avrebbero mai fatti entrare in chiesa, non solo non li avrebbero mai assolti, ma li avrebbero volentieri distrutti, fatti sparire dalla faccia della terra: ovviamente in nome di Dio!
D’altronde si rifacevano alle Scritture, alla loro religione, che in proposito erano abbastanza chiare: i peccatori vanno eliminati, sterminati, depennati (Cfr. Is 13,9; Sal 139,9).
Proprio per certi estremismi umani la religione spesso rischia di essere pericolosa: perché mentre Dio è disceso sulla terra per incontrare gli uomini, facendoci capire che possiamo incontrarlo sempre proprio qui, tra gli uomini, la religione al contrario per incontrare Dio, sale nell’alto dei cieli, allontanandosi dagli uomini, con il rischio di non incontrarlo mai. Saranno infatti proprio i “religiosi” che condanneranno a morte Gesù. Perché dove non c’è amore per il prossimo, per i fratelli sfortunati, sicuramente non c’è neppure Dio.
Tutta la vita di Gesù ce lo insegna: Egli infatti si intrattiene continuamente proprio con quella gente che, Bibbia alla mano, le autorità religiose avrebbero voluto solo eliminare. E questo per loro era una provocazione troppo grave, insostenibile: soprattutto per la loro mentalità, era impensabile il fatto che Gesù “mangiasse” con loro: nel mondo palestinese, infatti, il cibo era servito in un unico piatto dal quale tutti si servivano, per cui “mangiare insieme” significava condivisione, “comunione di vita”. Per loro, quindi, Gesù è un impuro perché ha condiviso il cibo, lo ha “toccato”, con persone impure (l’impurità si trasmetteva); e Dio non si concede agli impuri; Dio si dà solo ai puri, ai santi. Una mentalità discriminante che è arrivata fino a noi: “Tu sei puro? Sì? Allora puoi andare in chiesa, puoi avvicinarti a Dio, ecc.”. “Tu non sei puro? No? Allora non puoi avvicinarti a Dio. Sei una persona condannata, destinata all’inferno per i tuoi peccati: Dio ti respinge, non sa che farsene di uno come te.
Solo però che il Dio del Vangelo, il Dio di Gesù, è l’esatto contrario. Nel Vangelo è proprio Gesù che va dagli ultimi, dai peccatori, dai disgraziati. Ed è ovvio: Gesù va da chi ne ha più bisogno, non fa distinzioni tra buoni e cattivi, va da tutti, a condizione che siano disponibili ad accoglierlo.
Pertanto, se la “religione” dice: “Dio ce l’hai, se te lo meriti. Se sei bravo, se sei puro, se righi dritto, perché solo così Dio è con te”, il Vangelo dice un’altra cosa, esattamente il contrario: “Non devi essere puro per avere Dio. È il suo amore, la sua accoglienza che ti rende puro. Dio è sempre con te, puro o no che tu sia... accoglilo, lasciati amare, accetta il suo amore”.
È dunque proprio per far capire questa novità, a quei tempi impensabile, che Gesù racconta le tre parabole famose: della pecora perduta, della dramma perduta, del figlio perduto; in esse Egli chiarisce di essere venuto in questa terra per cercare proprio chi si è perduto. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che sono amati da Lui. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che Dio è un dono assolutamente gratuito di amore, di misericordia.
Mi soffermo in particolare sulla parabola del “figliol prodigo”.
Ebbene: quel Padre che fa festa quando il figlio torna a casa, è Dio. Il fratello maggiore, invidioso, asservito al Padre, rappresenta gli scribi e i farisei, “servi” di Dio, ma non “figli” di Dio. Al padre essi diranno: “Ecco, da tanti anni io ti “servo” (in greco dulèuo, sono schiavo) e tu non mi hai mai dato un capretto...”. Ma i capretti, per tutti quegli anni, erano già tutti a loro disposizione!
La religione senza l’amore, crea solo persone giudicanti, invidiose di chi ha di più, di chi riesce meglio, di chi è felice. La religione senza l’amore non sa sorridere, non sa far festa, perché è corrosa dalla rabbia che cova dentro di sé.
La parabola però è anche una stupenda fotografia di uno spaccato famigliare, di come cioè si svolgano in realtà le relazioni tra i componenti di una famiglia.
La parabola parla di “un padre con due figli”. E la madre? La madre talvolta non c’è, o se c’è, è come se non ci fosse. Sono le madri aspirapolvere, le madri lavastoviglie, le madri che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto il giorno, che, dicono loro, “sacrificano la loro vita per i figli”, ma che in realtà non ci sono, non dimostrano il loro amore, sono come assenti. Fare tanto per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo “fare tanto”. Amare è al contrario valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, rendere autonomi i figli, aver fiducia in loro, non essere ansiosi; amare è avere qualcosa da dare al figlio; amare non è fare un figlio per ricevere qualcosa in cambio, perché qualcuno ci ami!
Da un’indagine risulta che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa (76%), più delle mamme tedesche (56%) o di quelle svedesi (40%). La mamma italiana soffre di “figliolite”: crede, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di lei. Sorge il dubbio che sia lei ad aver bisogno di lui.
I due figli della parabola sono dunque diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Sono nati entrambi dallo stesso padre, che non è riuscito a trasmettere loro l’amore; un padre che entrambi considerano un “ostacolo”, un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.
Il primo, il minore, dice al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ma non gli spetta niente! Egli cerca solo di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l’amore del padre. Anzi va contro di lui. L’eredità si otteneva solo dopo la morte del padre: dicendogli così, in pratica gli dice: “Tu sei già morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!”.
Il maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. Egli si percepisce come un servo del padre, come uno schiavo: non fa altro che ubbidire ai suoi ordini, ma dentro cova rabbia.
La loro diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre. Il maggiore si sottomette: è il suo dovere. Rinuncia alla sua vita perché “deve” rispetto e obbedienza al proprio padre. Ma una persona che “fa tutto quello che deve”, una persona brava, che non si ribella, che non trasgredisce mai, è sicuramente molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere l’amore mediante una ubbidienza meticolosa, con una vita di precisione; cerca cioè di ottenere comunque, ciò che sente di non poter avere altrimenti (ma l’amore è gratuito!). La sua strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, per ottenere in cambio il tuo amore”. I genitori: “Ti amo se vai bene a scuola”: e il bambino si sottomette per avere l’approvazione del genitore. “Ti amo se non disturbi”: e il bambino si sottomette e diventa adulto per avere l’approvazione. “Ti amo se fai così”: e il bambino si sottomette per avere l’amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come si sentirà dentro? Ovviamente come il maggiore: pieno di rabbia.
Il minore, invece, non sentendosi accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi rifiuti? Ti rifiuto anch’io!”. D’altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi la stima del padre, facendo il figlio bravo e ubbidiente. A lui non rimaneva altro che differenziarsi dal fratello. Se in casa c’è già chi fa il bravo, all’altro non rimane che fare il contrario. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro dovrà per forza farne un’altra! D’altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, efficiente fuori casa: è infatti ciò che fa il figlio minore: se ne va in giro per il mondo.
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera, e sono diversissimi tra loro. Ma guai se i figli fossero uguali! Ogni figlio esige una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli, perché essi hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose per tutti.
I due fratelli della parabola infatti non si incontrano mai! Il maggiore non lo chiama mai “fratello”, ma si rivolgerà al padre dicendogli: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia? Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene con te; perché tratti mio fratello esattamente come me?”.
“Con le prostitute”: un particolare che non risulta dal racconto. Che sia vero o no, non è forse un tentativo del maggiore di screditare il minore, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo? Non sappiamo infatti se egli sia andato con le prostitute. Forse non ci ha mai pensato, ma il maggiore sì. Il cervello non conosce altri che noi, e quindi quando parliamo degli altri, parliamo sempre di noi!
Cosa c’è dunque in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre. A quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli andavano i due terzi dell’eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il maggiore vinceva, il minore perdeva. Era così.
Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per non morire di fame.
Ma il padre dov’era? Come ha fatto a non vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai nulla”? Inoltre: non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Non si era mai accorto che voleva un “capretto”, un riconoscimento, un gesto d’approvazione, d’affetto, solo per sé? E quando il minore se ne va perché in padre non lo interpella,visto che era parte in causa?
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Ma guarda cos’è successo!?”. Per forza, erano ciechi!
È chiaro che il padre non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosce il suo di cuore, non può certo conoscere il cuore degli altri, di suo figlio!
L’unica cosa che sa fare è “dare” comunque, a ciascuno, le “cose” che gli spettano: al minore come al maggiore. Ma quando un genitore dà le proprie cose al figlio, vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozioni, vitalità, niente di sé da passargli. È il fallimento dell’educazione.
Molti genitori riempiono i loro figli di cose, di giocattoli, di vacanze, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): ma tutto questo non può sostituire la cosa più importante, l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore, di un rapporto concreto con lui, ha bisogno delle sue parole, di momenti esclusivi con lui, di abbracci. Un figlio contemporaneamente ha bisogno della madre, del suo amore, di un rapporto con lei, fatto di parole, di carezze, di sentimenti. L’uno non sostituisce l’altra. In nessun caso. Inutile cercare oggi di dimostrare il contrario! È un’assurdità!
I genitori a volte dicono spazientiti: “Hai tutto!”. È vero, perché danno tutto di materiale; ma non trasmettono nulla di spirituale, nulla dell’anima, nessun sentimento, nessuna emozione intima. Non c’è colloquio, non c’è scambio di emozioni.
La parabola del figliol prodigo, sotto questo profilo, è infatti la parabola del “non detto”, della non comunicazione; in essa nessuno parla: per metà racconto nessuno dice niente, nessuno si rivolge a qualcun altro, eccetto la frase iniziale del minore. E cosa dice? Di che cosa parla? Del suo errore, di ciò che ha capito, del suo pentimento, della sua fame d’amore. Il padre parla quando vede il figlio e si commuove. E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante. Il maggiore infine parla della sua rabbia, del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello.
I personaggi iniziano ciascuno un proprio viaggio da infelici, chiusi ermeticamente in loro stessi: cambiano improvvisamente quando si parlano, quando comunicano tra loro, aprendosi.
È il quadro di tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”. E, invece, ci sono un sacco di cose che non vanno, parole che non vengono dette, che rimangono dentro; un sacco di emozioni che non sono espresse, che sono rinchiuse dentro, ignorate, accantonate. Di problemi in famiglia ce ne sono sempre in abbondanza, ma non se ne parla apertamente, ognuno fa finta di niente. Per la tranquillità di tutti, “per il bene dei figli” è sempre meglio non parlarne, è meglio fingere che tutto vada bene!
Quando poi i problemi esplodono, tutti cadono dalle nuvole: “Cos’è successo? Come mai? Chi l’avrebbe mai pensato?”.
I problemi vanno invece affrontati sempre: con carità, lealtà, onestà! Quand’è che la parabola ha una svolta? Quand’è che cambia? Quand’è che in quella famiglia torna la normalità, la serenità, una nuova vita? Quando i personaggi iniziano a parlarsi. Quando l’amore prende il sopravvento.
Così vale per noi. Se stiamo male come il minore, parliamone del nostro male. Non facciamo finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori, discutiamo di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona profondamente ferita. Se siamo felici, emozionati, pieni di vitalità come il padre, esprimiamoli questi sentimenti. Perché il minore e il padre, aprendosi, “guariscono”. Il maggiore, nel racconto, non lo è ancora, ma si capisce che ha iniziato un suo nuovo percorso di vita!
Apriamoci, dunque: comunichiamo, parliamo di ciò che abbiamo dentro; perché se non ci apriamo, se non comunichiamo, moriamo dentro. È inevitabile. Inoltre, se non ci apriamo, nessuno potrà mai conoscerci, nessuno potrà mai ammirare la nostra bellezza interiore. Amen.


venerdì 2 settembre 2016

4 Settembre 2016 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-33).

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù prosegue il suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste di ciò che dice e di ciò che fa. Lo vogliono seguire per questo, solo che non sanno bene cosa voglia dire “seguire” Gesù.
Essere infatti entusiasti di Gesù e seguirlo, sono due cose molto, ma molto, diverse tra loro. Un conto è ammirarlo, un altro è seguirlo: perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa dover tirare conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione solenne, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno, scambiato tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, risoluto, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua ormai imminente morte in croce, la sua apoteosi d’amore. Vi sono poi quelli che lo seguono: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza, iniziano a mugugnare, a brontolare, hanno insomma di che lagnarsi della situazione. Seguirlo non è cosa facile: “È troppo impegnativo! Pretende troppo da noi! È impossibile stargli dietro!”. Un borbottio che progressivamente cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quelli che lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti che iniziamo con entusiasmo un certo percorso, salvo poi ad abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile!”. Sissignori! È vero: nella vita tutto è difficile, prima che, mettendoci impegno, diventi facile! Dobbiamo però capire che se ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere” contro ogni difficoltà, perdiamo tutto, ci troviamo senza più nulla in mano, anche quel poco che avevamo conquistato, senza poter più raggiungere alcun obiettivo. Diventiamo come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono serio e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Ora, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI), non potremmo assolutamente attribuirla a Gesù. Ma dice proprio che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma ha usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato,“miseo”, in greco significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, a scanso di equivoci, va detto prima di tutto che, in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare” qualcuno, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro. Anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci hanno donato, poiché nulla, vita compresa, ci era dovuto! Gesù qui si riferisce non ad un “sentimento”, ma ad un “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere, che ci renda veramente “liberi”. Per dirlo, ha usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per farci capire quanto sia importante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, essere completamente “libero”. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Egli usa il verbo “odiare”, un verbo di “contrasto, per dirci chiaramente che in certi momenti non possiamo scendere a patti, a compromessi: dobbiamo rifiutare qualunque soluzione alternativa, e dobbiamo farlo in modo radicale, deciso, risoluto.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che si presta ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stauros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fero” o “dechomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambano”, “prendere” volontariamente, o “bastazo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi vuol vivere da uomo “libero”, e quindi disponibile ad accettare tutte le conseguenze della sua scelta.
Pertanto, “portare la croce” non significa subire forzatamente, da rassegnati, tutto ciò che di brutto ci offre la vita; ma è accettare volontariamente, gioiosamente e liberamente, come conseguenza della nostra adesione a Cristo, la progressiva distruzione, da parte del mondo, della nostra considerazione e di noi stessi: “Sarete odiati da tutti a causa mia!” (Lc 21,17).
La croce altro non è quindi che accettare le conseguenze, naturalmente riservate a quanti vogliono vivere, già su questa terra, il “Regno di Dio”: in altre parole, vuol dire fare come ha fatto Gesù, comportarsi “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del vivere comune: quindi condivisione e non accumulo, uguaglianza e non prestigio, servizio e non dominio. Solo se siamo veramente liberi possiamo amare Dio e il prossimo, metterci a servizio degli altri, rinunciando alla nostra reputazione, disinteressandoci completamente di ciò che gli altri dicono e pensano di noi. Ovviamente, perdere la stima degli altri non significa perdere la nostra dignità: spesso infatti proprio per non perdere la nostra dignità, dobbiamo rinunciare alla stima degli altri!
Possiamo dire, insomma, che “portare la propria croce” significa “vivere come ha vissuto Gesù”: liberi, felici, in pace con il Padre e con noi stessi, pronti a superare serenamente e con coraggio tutte le prove che il mondo, le forze del male, continueranno a seminare sul nostro cammino. Amen.