sabato 19 settembre 2009

20 Settembre 2009 - XXV Domenica del Tempo Ordinario

La discussione dei discepoli su chi tra loro fosse più grande ci sorprende: sembra alquanto infantile e un po’ ridicola, indegna fra gente che ha rinunciato a tutto per seguire il Signore. Se poi consideriamo il contesto immediato dell’annuncio della sua passione rimaniamo sconcertati: è mai possibile tanta superficialità? Stare con Gesù (Mc 3,14) non ha cambiato il modo di pensare dei discepoli?
Una cosa è evidente: il cuore dell’uomo è e rimane un abisso di fragilità anche negli amministratori della grazia divina, e non c’è nessuno tra i battezzati che possa presumere di mantenersi sempre fedele con le proprie forze. Pur non volendolo, rinnegare il Signore anche in materia grave è sventura del tutto possibile, data la nostra natura, e il triplice rinnegamento di Pietro di fronte alla giovane portinaia è monito eloquente per tutti (Gv18,17). Tuttavia sappiamo che Dio non permetterà mai che siamo tentati al di sopra delle nostre forze, se sapremo essere vigilanti. Ma la disonorevole discussione degli apostoli non rimanda solo alla sabbia della nostra natura e alla roccia della Parola del Signore. Scopriamo, infatti, che la questione di chi sia il più grande occupa anche la gran parte dei nostri discorsi, costituendo in tal modo un’attitudine peccaminosa profonda.
Lo dimostra la propensione quotidiana al giudizio; la pratica della critica sistematica verso familiari, verso i politici nazionali e locali; la mormorazione verso i sacerdoti, i vescovi, il Papa; le più che ingenerose considerazioni sui vicini di casa, sui colleghi, sugli amici, ecc. Ora è chiaro che tutta questa inesauribile e ricorrente materia di confessione scaturisce da un implicito confronto: “io non sono così; io non farei mai una cosa simile; io, se fossi al posto suo...”. In altre e più vere parole: “io sono più grande di lui, di lei, di loro”.
Un minimo di pudore e una buona dose di falsa umiltà impediscono quest’ultima e più sfacciata affermazione, ma i nove decimi dell’iceberg dell’amor proprio che affiora sulla superficie della nostra coscienza, sono questi. E’ vero che molto spesso taluni comportamenti altrui meritano oggettiva disapprovazione, ma il tono e il sentimento con cui ne parliamo rivelano inesorabilmente che in quel momento ci stiamo collocando nel mezzo del tempio, in compagnia del fariseo soddisfatto di non essere come gli altri, in particolare come quel pubblicano là dietro, in fondo alla chiesa, intento a battersi il petto per sua colpa, sua colpa, sua massima colpa (Lc 18,9-14).
Ecco, oggi Gesù ci mostra anzitutto l’iceberg sommerso del nostro orgoglio ed egoismo originale, dopodichè ci insegna come fare per cominciare a scioglierlo: “Se uno vuole essere il primo – (questo istintivamente ci piace, ma subito viene la doccia fredda...) – sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (Mc 9,35). Uno shock, se prendiamo alla lettera queste parole! Ma con questo deciso scossone il Signore non vuole gettare a terra nessuno: al contrario vuole solamente aiutarci a camminare sicuri in una nuova e più lieta direzione: quella dell’accoglienza reciproca nell’abbraccio dell’ amore del Padre.
Il senso delle parole drastiche di Gesù potrei esprimerlo così: “non cercate mai di primeggiare, ma siate disponibili ed accoglienti verso tutti; abbiate un atteggiamento pronto al servizio e fatevi prossimo di chi ha bisogno del vostro soccorso, specialmente dei più deboli e poveri, quelli lasciati e tenuti ai margini di questa società, quelli che si trovano nelle necessità più gravi ed urgenti. Sì, accoglieteli nel vostro cuore come se accoglieste me, poiché siamo tutti fratelli, siamo tutti dentro l’abbraccio amorevole del Padre mio e Padre vostro”.
Vediamo, infatti, che Gesù prende la mano di uno tra i suoi più piccoli ascoltatori presenti (probabilmente gli unici non scandalizzati), lo mette in mezzo (come a dire: state attenti perché vi sto mostrando il cuore della questione), lo abbraccia e ci esorta a fare nostra questa sua concreta tenerezza. In effetti, al tempo di Gesù, il bambino, pur godendo una grande stima in Israele come premio e benedizione di Dio, era l’ultimo nella scala sociale, del tutto privo di considerazione.
Oggi il bambino messo al centro ed abbracciato da Gesù è la vita umana, la vita al suo sorgere e la vita al suo tramonto, semplicemente la vita! Ma più di tutto è la vita dell’uomo nel grembo la più inerme ed innocente, la più minacciata ed odiata, la più bisognosa di quell’accoglienza che nemmeno nel luogo più sicuro del mondo e da parte delle persone più fidate (i genitori), trova più. E’ assolutamente imprescindibile, affinché si sviluppi nella società globalizzata la civiltà dell’amore e della pace, che al centro di tutto sia messa la vita umana, cioè ogni bambino concepito che Dio stesso fa essere, nel suo Figlio, il cuore del mondo.
Lo fa intendere esplicitamente Benedetto XVI: “L’apertura alla vita è il centro del vero sviluppo. Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni necessarie per adoperarsi al servizio del bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche le altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono. L’accoglienza alla vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco” (Enciclica “Caritas in veritate”, n° 28).
E’ questa la strada della fiducia in Dio, in direzione opposta a quella dell’orgogliosa e presuntuosa autosufficienza, strada maestra dell’affidamento totale a Lui, nella certezza di fede che tutto è governato dalla divina provvidenza del Padre. E’ l’atteggiamento stesso di Gesù, sempre abbandonato alla volontà del Padre ed Egli stesso Via della semplicità e dell’umiltà, Verità da conoscere e Vita da accogliere. E’ Lui la “Sapienza che viene dall’alto, anzitutto pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera” (Gc 3,17).
Preghiamo allora la Madre della Vita perché affretti il compimento della Parola di oggi:
O Maria, aurora di un mondo nuovo, siamo consapevoli che la vita è costantemente nel mezzo di una grande lotta. Il Maligno, omicida fin dal principio, attenta continuamente alla vita dell’uomo e dell’umanità. A te è affidato il compito di difenderci dal dragone infernale, fino al giorno in cui il Frutto del tuo seno riporterà la vittoria definitiva. Accogli, o Maria, i nostri grandi desideri per la vita, falli passare per il tuo Cuore Immacolato e presentali a Gesù, come facesti a Cana, dicendogli: “Non hanno più vino!”; e noi, ammaestrati dalla tua sapienza materna, faremo quello che Gesù ti dirà per far vincere la Vita. Amen

Servire o farsi servire? Qual è la nostra situazione? Cioè il clima, la mentalità corrente, il comportamento delle persone? Lo sappiamo e ne vediamo i frutti nell’arrivismo, nelle sopraffazioni, nella lotta per il potere o nell’affanno per una posizione più alta… ma questo non dà gioia e pace, ma nervosismo, chiusura del cuore, a volte cattiveria, insoddisfazione. Gesù vive e insegna una via piccola, ma sicura: la via del servizio, del mettersi al servizio degli altri: per realizzare veramente se stessi, per avere la gioia e offrirne tanta agli altri, per avere la pace del cuore.
Servire o farsi servire? Mettiamoci ad esaminare concretamente la nostra vita di ogni giorno. Bisognerebbe innanzitutto elencare tutte le volte in cui ci facciamo servire e non ci vergogniamo di farci servire o esigiamo che gli altri ci servano subito: in casa, a scuola, nel lavoro, nella vita sociale, nelle relazioni con le persone, nella vita di parrocchia, persino a messa. Quando invitiamo alla partecipazione attiva nella liturgia e negli altri campi della vita parrocchiale, cosa si nota? Tanta gente che vuole la Messa (possibilmente alla propria maniera), vuole e invoca una vita parrocchiale piena di iniziative per i giovani, per le famiglie, per gli anziani… e di fatto ogni persona rimane chiusa in se stessa; con la fatica persino di farsi avanti, di aprir la bocca per imparare un canto, rispondere ad una preghiera, a fare anche il più piccolo servizio liturgico. La vita parrocchiale sembra che la debbano portare avanti sempre gli altri; altri parteciperanno, altri ci saranno… “io ho da fare”. Invece quanto tempo ci dà il Signore, quanto tempo sciupiamo in altre cose, quanti interessi per tutte le cose mondane (pur lecite)!. Ma abbiamo degli esempi di persone e di famiglie che hanno situazioni ben più impegnative delle nostre e sanno vivere invece scelte di apertura, di amore, di partecipazione, di servizio vero. E li vedi contenti: Il Signore non si smentisce, sa dare la gioia e la vita quando ci si preoccupa della gioia e della vita degli altri. Possibile che tante persone in più non possano essere presenti o fare qualche piccola opera nella comunità cristiana? E non è questione di tempo, se la stessa pigrizia la si avverte anche quando siamo in chiesa, dove viviamo un tempo davanti al Signore: allora è questione di atteggiamento interiore o di chiusura, di farsi servire.
Vogliamo allora aprirci a tutte le possibilità del servire, di metterci a servizio, di essere attivi e partecipi, di fare il più possibile, di risparmiare le fatiche agli altri e di assumerle per noi con serenità, nella vita di famiglia, nelle relazioni con gli altri, nella comunità cristiana, in concreto nella vita della parrocchia in tutti i suoi aspetti e nelle iniziative che si cerca di costruire insieme. Se siamo una comunità di servi, di persone che cercano il più possibile di vivere il servizio agli altri… sarà tutta un’altra cosa la messa e tutta la vita spirituale, la catechesi e le attività formative, la carità e all’aiuto al prossimo, l’animazione delle varie attività che abbiamo in parrocchia, nelle Zone, nelle feste. Saremo una comunità che reagisce a tutte le istigazioni e le tentazioni di chiusura, di diffidenza, di borghesismo, di autosufficienza e isolamento; una comunità di persone che vivono una vita vera, fatta di relazioni, di apertura, di amore, di comprensione, di impegno e aiuto a più gente possibile, di persone che vivono “da fratelli”, che hanno fervore cristiano, che portano avanti nella storia la fede, la speranza, la carità, che sono un seme di novità e di salvezza nella società, che sanno trovare o hanno già trovato una gioia vera nel vivere come Gesù, a servizio.

giovedì 11 giugno 2009

14 giugno 2009 - Ss. Corpo e Sangue di Cristo

Il momento culminante della vita di ogni uomo ha sempre il sapore del mistero. Mistero... perché negli ultimi istanti si condensano, in pochi gesti e in scarne parole, gli insegnamenti più forti che gocciolano come un distillato di tutta la vita... E' il vero testamento di saggezza e di amore, e solo il tempo permetterà di conoscerne l'arcano significato e il profondo messaggio.
Per noi cristiani l'ultima cena rimane l'eredità densa di significato e il testamento che, nonostante i secoli e le infinite considerazioni, ancora cela profondità di sentimento e di comunicazione, tanto che, ben a proposito, ciò che si realizza su quella tavola lo si chiama “grande mistero”. È una cena festosa, che non perde la sua caratteristica di dolce convivialità e di dono gratuito, nonostante l'insorgere di progetti ostili.
Valenti pittori e artisti hanno sigillato per sempre sui volti degli apostoli e di Gesù le sensazioni di quello straordinario incontro nel quale si intrecciano dolcezza e drammaticità, affetto e delusione, amabilità e ostilità.
Quella scena ha sempre rappresentato nei nostri ambienti l'amore oltre ogni limite, ci ha sempre parlato di donazione incondizionata.
Ora, dopo molti secoli, un abile dissacratore fantasioso, con il suo Codice da Vinci, ne infanga la sacralità e il rispetto facendola diventare un insieme di simboli profanatori e sacrileghi.
Se un codice esiste in quel “banchetto”, esso è immortalato dalla serenità di Gesù che all'umanità turbolenta e deludente, rappresentata dagli apostoli, continua a dare amore e fiducia, non in maniera teorica e astratta, ma offrendo addirittura il suo stesso corpo come cibo.
È una visione profetica degli avvenimenti che si realizzeranno in quelle poche ore che andranno dall'incontro con l'uomo con la brocca, che indicherà il cenacolo, fino all'orto degli ulivi e al Golgota...
È lì, attorno ad una tavola, che si anticipa profeticamente il dono totale di una vita offerta senz'indugio per saziare l'ingordigia d'amore dell'uomo, ma anche la sua sete di violenza.
"Prima che tu, uomo, creda di distruggermi, io, Dio, mi offro a te".
È l'incredibile sorpresa di un Dio che non risponde mai con la stessa moneta, non ripaga la violenza con altrettanta violenza, non distrugge chi gli va contro, non chiama nemico neppure chi sta per tradirlo, come non risparmia il Suo amore verso chi dimostrerà paura, codardia e rinnegamento.
È una sfida di fedeltà giocata sul tavolo dell'amicizia in una sala da pranzo, e che troverà concretezza, poi, sul legno della croce.
Non può perdere questa sfida un Dio che ha la caratteristica di fare sempre il primo passo, un passo coraggioso e rischioso che annulla le distanze e Lo porta più vicino all'uomo, ma che non sempre ottiene il risultato di avvicinare il suo cuore...
Eppure, il Suo amore non cambia e il Suo dono è offerto anche nella consapevolezza di sedere alla stessa mensa col suo traditore. Anzi, se potesse, gli risparmierebbe anche il complotto, il bacio convenzionale, l'umiliante scenata dell'arresto a sorpresa con spade e bastoni...
"Prendete... questo è il mio corpo..."... È Lui che si offre a tutti indistintamente, si mette nelle loro mani perché chiunque ne possa fare ciò che vuole. Si dona incondizionatamente a chi l'accetta, e anche a chi Lo tradisce...
A chi l'accetta, perché il discepolo possa associarsi al corpo del Maestro, offrirsi con Lui e donarsi come Lui....
A chi non l'accetta... perché il Suo gesto, senza rancore, sia un'ulteriore prova d'amore... Sconcerto totale per chi pensa di indispettire Dio e si ritrova amato, beneficato e innalzato alla dignità divina...
Un gesto d'amore straordinario e sconvolgente che, come al solito, va oltre ogni aspettativa umana. E' l'invito a mangiare il Suo corpo perché così l'uomo si appropri dei benefici di salvezza connessi col sacrificio offerto a Dio.
Mangiando la Sua carne e bevendo il Suo sangue, l'umanità si appropria della vita stessa di Dio, la mescola alla Sua stessa vita e così la eleva all'esperienza della natura divina.
Con questa flebo d'amore divino, avrà ancora l'uomo il coraggio di vivere egoisticamente?
E anche se questo dovesse accadere, Dio non si stancherà mai di continuare a nutrirlo di sani sentimenti... convinto che il Suo amore vincerà!

giovedì 4 giugno 2009

7 giugno 2009 - Ss. Trinità

Il termine “Trinità” fu coniato da Tertulliano (160-220 d.C.) per facilitare la comunicazione del concetto che altrimenti richiedeva due parole: “tre-unità”, cioè “Trinità”. Sebbene tale parola non compaia mai nella Bibbia, troviamo però il contenuto e la portata di questa indivisibile “trilogia” delinearsi progressivamente fino a raggiungere una essenziale chiarezza: un unico Dio in tre persone uguali e distinte, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo.
Il cammino della Rivelazione è distribuito nel tempo e segue la legge pedagogica dell’insegnamento progressivo. Dapprima Dio chiama il popolo ebraico a percepire l’esistenza di un unico Dio, trascendente, con esigenze morali che prendevano il nome di santità. Con questo popolo stringe un’alleanza che ha, tra l’altro, il compito di salvaguardare l’unicità di Dio in mezzo a popoli politeisti (Prima Lettura). Con il Nuovo Testamento i tempi sono maturi per la rivelazione piena. Sarà Gesù che, convalidando l’idea del monoteismo, fa capire che tale unicità viene dalla comunione di Padre e Figlio e Spirito Santo. Così la Trinità diventa il patrimonio teologico e spirituale dell’uomo che riceve il Battesimo ed entra nella Comunità cristiana (Vangelo).
Affermare il dato biblico della Trinità non significa penetrarne il Mistero, che rimane superiore alla nostra intelligenza. Perché allora Dio ci rivela qualcosa che noi non possiamo capire? Perché non si tratta di capire, ma di vivere nella Trinità (Seconda Lettura).
Raggiunta la vetta, se la giornata è limpida, si guarda tutto il cammino percorso, per misurarne l'ampiezza, per contemplare nel suo insieme l'immenso panorama che prima si è ammirato nei particolari. È un simbolo di ciò che la solennità della Santissima Trinità ci chiama a fare, a conclusione della celebrazione del Mistero e della Redenzione. Dio è il protagonista della Storia della Salvezza; ma non un Dio astratto, solitario: è il Dio “Comunità di Amore”, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Da sempre Dio ci ha scelti, ci ama, ci parla; è vicino a noi, è con noi; egli prosegue il suo piano di salvezza, è fedele e chiede agli uomini fedeltà. Sono i temi, della prima presa di coscienza che Israele fa della storia della sua salvezza: «Dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra...» (Prima Lettura). Israele, salvato dalla schiavitù, educato dalla parola di Dio, si è sentito oggetto della sua elezione, ha ricevuto da Dio una legge di saggia convivenza umana e di intimità con lui; ripensando a tutto questo, Israele intuisce che dalle origini la sua storia è nelle mani di Dio, che Dio vi interviene per salvare il suo popolo e condurlo a una patria di benessere e di felicità. Questa è anche la nostra storia: dobbiamo prenderne coscienza. Dio si è impegnato per noi, ci ha dato la sua parola, ci mette in mano dei fatti, ci dà garanzia nel suo amore e nella sua elezione, perciò chiede fiducia e fedeltà, perché egli stesso mostra fiducia nell'uomo e gli è fedele. Se vi pensassimo, ci renderemmo conto di tutto questo, sentiremmo che Dio con la sua forza di salvezza si mette alla radice degli avvenimenti, per orientarli al bene, nonostante gli uomini troppo spesso li volgano al male, anzi proprio per questo.
Non c'è bisogno di falsi dèi. Il vero Dio non tace; egli ci parla perché ci ama e vuole salvarci da ogni schiavitù; forse siamo noi che non sappiamo ascoltare. Apriamo il Vangelo, la Bibbia, guardiamo la natura, leggiamo nella nostra storia! Quel popolo che Dio ha scelto e ama, siamo noi ai quali chiede di essere di salvezza per gli altri. Tutto questo ci schiude una reale speranza; ma soltanto nella misura della nostra fede, noi sentiremo viva questa speranza e sapremo comunicarla agli altri.
Per gli antichi pagani, ossessionati dal destino (il “fato”) pensato inesorabile, e scandalizzati dagli dèi e dalle dee peggiori degli uomini, che sollievo venire a conoscere che vi è un solo Dio, santo, onnipotente, ma “Padre”! Noi troviamo lo stupore gioioso di questa scoperta nella letteratura dei primi cristiani. È il messaggio che Paolo ha richiamato ai Romani (Seconda Lettura), coinvolgendo in un unico e ormai meraviglioso destino di famiglia, il Padre, Cristo, lo Spirito Santo e gli uomini figli di Dio. Ormai l'uomo non è più schiavo, perché Dio l'ha liberato dal peccato, e non deve più rendersi schiavo di nessuno e di nulla. Per questo, Dio ha dato all'uomo per guida il suo stesso Spirito di amore, perché si comporti con amore verso gli altri uomini e verso Dio. Allora sentirà la gioia di chiamare Dio col nome di “Padre”, “Papà”. In ciò è nuovamente aperta agli uomini una sicura speranza. Dio ha avuto l'iniziativa della salvezza degli uomini, che non vi pensavano; la conduce avanti, anche se non vi pensano e la ostacolano; egli sa volgere a bene, a strumento di salvezza anche la sofferenza umana, come ha fatto per la sofferenza e la croce del suo Figlio che si è fatto nostro Fratello per salvarci e renderci suoi coeredi.
«Fate miei discepoli tutti i popoli»: questo comando di Gesù non è stato dato solo agli apostoli, è dato per sempre alla Chiesa, cioè a tutti noi che siamo i “credenti in Cristo”. Oggi, siamo chiamati a considerarlo nella luce calda della Trinità, di Dio-Amore, Padre, Figlio, Spirito, più e meglio di come non facciamo usualmente. Tutto ciò che Gesù ha compiuto, i poteri che ha mostrato e che dona alla Chiesa, sono dati a Cristo e alla Chiesa dal Padre, e tutti li corona il dono di comunione che è lo Spirito di amore. Gli uomini, che hanno preso coscienza che la loro è una storia di salvezza e sentono profondamente di avere Dio per Padre e Fratello, sono spronati a comunicare al mondo questo messaggio, a fare “discepoli” di Cristo tutti i popoli perché anch'essi entrino in questo dinamismo di salvezza per cui Dio conduce fra noi vita umana nella fraternità, nella solidarietà, nella collaborazione.
Veniamo dalla Pasqua, dalla cinquantina pasquale la cui pienezza è segnata dal dono dello Spirito Santo alla comunità di Gesù, nella Pentecoste. In questo anno il tempo di Pasqua, dalla Santa Settimana, è stato tutto segnato dalla sofferenza e dalla distruzione per le Comunità e le Chiese dell’Abruzzo e per l’Italia tutta. Eventi di tale portata non lasciano nessuno come prima e le nostre Domeniche ne portano le stigmate. Esse si traducono in preghiera e in solidarietà per dare a quei fratelli la speranza che saranno accompagnati da tutti noi fino a che ne avranno bisogno.
La Domenica successiva alla Pentecoste è per la Chiesa Cattolica romana la solennità della Santissima Trinità. I discepoli di Gesù, noi, siamo rigorosamente monoteisti. I primi secoli cristiani hanno lottato e precisato tutto ciò, ma Dio che si è rivelato in Gesù Cristo si è fatto conoscere a noi come una “Comunione di Persone”, tanto che Dio Uno, comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, è divenuto norma per la Chiesa chiamata a essere “comunione”. L’ecclesiologia di comunione, di cui molto parliamo, è proprio questo: ricevere dalle prime generazioni cristiane questo dato che tutti i battezzati sono chiamati a essere uno come Uno è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Solo nell’amore perfetto e vero c’è unità. Allora questa giorno ci interpella e giudica sull’amore, distintivo della Comunità di Gesù. Ricordiamo che il segno della croce, con cui apriamo il nostro raduno eucaristico e lo concludiamo, è professione di fede in questo Mistero insondabile. Questo mistero ci accompagna sempre. Ogni Liturgia inizia nel nome della Trinità. Ogni azione ha compimento nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo.

giovedì 28 maggio 2009

31 maggio 2009 - Domenica di Pentecoste

La Chiesa per la sua missione e ogni cristiano per la propria esistenza ricevono vigore grazie al dono dello Spirito: il Paraclito, l’avvocato, colui che guida i credenti alla scoperta della verità. È il maestro interiore che insegna, fa ricordare, testimonia, convince il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, guida alla verità tutta intera e annuncia le cose future, glorifica il Cristo.
I discepoli saranno in grado di affrontare la missione che è stata loro affidata dal Risorto? Sono persone fragili: lo hanno dimostrato in occasione della passione e morte di Gesù. Solo lo Spirito può trasformarli in missionari coraggiosi, pronti a soffrire ed a correre ogni rischio pur di portare dovunque il Vangelo.
Questa è la novità della Pentecoste cristiana: l’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio.
Si comprende allora come senza lo Spirito Santo, Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il vangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un arcaismo, e l’agire morale un agire da schiavi.
Ma nello Spirito Santo il cosmo è nobilitato per la generazione del Regno, il Cristo risorto si fa presente, il vangelo si fa potenza e vita, la Chiesa realizza la comunione trinitaria, l’autorità si trasforma in servizio, la liturgia è memoriale e anticipazione, l’agire umano viene deificato.

La Pentecoste, dunque, non è finita; essa continua nelle situazioni in cui vive la Chiesa; tutta la vita dei cristiani si svolge sotto il segno dello Spirito. A Pentecoste tutti i discepoli di Cristo sono chiamati a diventare testimoni. Questa missione ha alla sua origine un dono, il dono dello Spirito, che rende testimonianza al Cristo e trasforma chi lo segue in un testimone, attrezzandolo per saper affrontare ogni prova lungo il suo cammino. Un cammino che è ricerca, ricerca della verità, non è cosa facile, perché sono necessari da parte del credente silenzio e impegno.
Lo Spirito ci porta alla verità e alla libertà; ci libera dalla schiavitù di sentirci condannati sotto il peso dei nostri peccati, delle nostre fragilità, delle nostre debolezze, pesi questi che possono appesantire drammaticamente il cammino della nostra vita, e prende la nostra difesa manifestandoci l’Amore che Dio nutre nei nostri confronti.
Non è possibile celebrare la Pentecoste riducendola ad un avvenimento di duemila anni fa’, da ricordare. Pentecoste è realtà di oggi, esperienza dei cristiani di oggi perché lo Spirito continua a guidare coloro che si aprono a lui. Li conduce a comprendere le Scritture, ad interpretare la storia di oggi, a percorrere strade inusuali e talora difficili, che hanno esiti insperati di speranza e di felicità.
Con la solennità di Pentecoste, il tempo di Pasqua si compie, ossia giunge alla sua pienezza e la Chiesa celebra la sua “nascita missionaria”. Lo Spirito di Gesù, che il Padre ha risuscitato dai morti, colma della sua presenza i discepoli. L’evento è una vera e propria Buona Notizia. Non solo per gli apostoli di ieri, ma anche per i testimoni di oggi. La venuta dello Spirito, annunciata dai profeti, si compie; le promesse di Gesù si realizzano. C’è una “creazione nuova” ed un nuovo popolo che si mette in cammino. Ecco quanto dovrebbe manifestare l’intera Celebrazione.

giovedì 21 maggio 2009

24 maggio 2009 - Ascensione del Signore

Ascensione vuol dire salita, ascesa verso gli spazi più alti e questo già è sufficiente a chiarire il senso della liturgia che oggi stiamo celebrando: la risalita al Cielo di Gesù, la sua scomparsa dal piano terreno, sensoriale, immediato per entrare nella sfera del divino - trascendente.
Una volta risorto dai morti, Gesù ha vissuto altri 40 giorni fra i suoi discepoli, è apparso agli apostoli e a tante altre persone, ha esortato alla perseveranza nella fede e soprattutto al ministero di annuncio della sua Parola ("Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura") e adesso sta salendo verso la dimensione del divino.
Ma che cosa comporta per gli apostoli l'avvenimento della salita al Cielo del loro Signore? Innanzitutto gli undici avvertono un certo senso di smarrimento e di angoscia per cui, attoniti e sconsolati, continuano a guardare la volta celeste fino a quando due (probabili) messaggeri di Dio non intervengono per rassicurarli con la promessa del ritorno di Gesù: si trovano in preda alla solitudine come orfani senza padre né madre mentre lo sconcerto e la preoccupazione si impossessano di loro al punto da ritrovarsi inceri e indecisi quanto al futuro. Chi non rimane deluso e sgomento quando nota l'assenza improvvisa di una persona che per lui era stata sempre importante? In simili circostanze chiunque avvertirebbe il peso del disorientamento e della solitudine, e gli apostoli ora non fanno eccezione sicché l'assenza di Gesù costituisce per loro una dura prova di non facile superamento. Ma la sparizione del Signore è tuttavia per loro anche uno sprone perché progrediscano più speditamente nella virtù e soprattutto nella maturità e nella responsabilità personali. Adesso che il loro Signore non sarà più riscontrabile con l'immediatezza dei sensi esterni, dovranno percepire la sua presenza, comunque certa e attiva, attraverso le prerogative della fede e dell'umiltà abbandonandosi alla speranza scaturita dalla Parola da Lui precedentemente annunziata; ora che non sentiranno più la sua voce materiale che li orientava e li indirizzava sul ministero e sulle scelte di organizzazione interna, dovranno provvedere essi stessi ad organizzare sotto tutti gli aspetti l'andamento della vita comunitaria e le varie iniziative per l'annuncio del messaggio di salvezza; ora che il Signore non è materialmente accanto a loro come quando compiva prodigi, dovranno essere essi stessi a dare segni della Sua presenza in mezzo al popolo attraverso la predicazione, la fermezza dell'apostolato e la carità.
Adesso insomma è il tempo della creatività e della spigliatezza missionaria che scaturisce dal previo, indispensabile, senso di formazione e di responsabilità personale nonché dal buon senso e dall'onestà nell'agire e dallo zelo operativo per il quale la causa del Vangelo assume priorità su tutto, anche sulla prospettiva di dover subire percosse e ritorsioni da parte dei nemici.
Come affermano gli esegeti, questo è il Tempo della Chiesa, in cui si è chiamati ad annunciare il Vangelo con coraggio e verve apostolica fino a quando il Signore Asceso non ritornerà alla fine della storia, esternando tutto il vigore che emerge dalla fede in Lui, esso non è limitativo ai primi apostoli ma interessa anche tutti e ciascuno di noi, che in forza dell'azione dello Spirito Santo, sulla scia e sull'esempio dei primi apostoli, siamo invitati a recare l'annunzio del Signore in ogni angolo della terra e d incarnare il Vangelo in tutte le circostanze del vissuto, specialmente in questo secolo confuso che più volte è stato tacciato di areligiosità e di indifferentismo etico e religioso per il quale si impone una nuova evangelizzazione. L' Ascensione del Signore comporta quindi per noi non la passività vuota dell'attesa ma l'entusiasmo attivo della missione e non può non vederci coinvolti in prima persona.
Oltretutto, come più volte si accennava nelle righe precedenti, l'Ascensione di Gesù non equivale alla sua assenza giacché egli, pur non immediatamente percepibile ai sensi, garantisce la sua costante vicinanza attraverso molteplici forme a addirittura ci rende certi della sua presenza reale e sostanziale nel Sacramento dell'Eucarestia che in modo del tutto speciale riafferma nella prassi quanto egli stesso aveva detto in precedenza:"Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" Si tratta certo di una presenza non tattile, che si richiede il ricorso fiducioso alla fede, e tuttavia pur sempre di una presenza reale, certa ed edificante che incoraggia il nostro stesso agire missionario e qualifica il vivere quotidiano da cristiani e per ciò stesso nell'Ascensione noi vediamo un monito all'esercizio delle virtù che ci responsabilizzano di fronte al Gesù non visibile eppure presente.

giovedì 14 maggio 2009

17 maggio 2009 - VI Domenica di Pasqua

"Amiamoci gli uni gli altri". E l'imperativo che l'apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l'amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un'esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l'esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l'ampiezza che giungeva sino all'amore per i nemici anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natura e indicarne la fonte: "Amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (I Gv 4,7). L'apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L'amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il termine greco "eros". L'apostolo usa, invece, la parola "agape" per indicare l'amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.
Per comprendere l'amore di Dio (l'agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell'amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell'uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant'Agostino applicava all'uomo: "Inquietum est cor meum...". Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del "cuore inquieto di Dio": egli è sceso sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. E un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è lo spirito che scende nella materia, è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l'amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l'amato. Sì, Dio è inquieto finché non trova l'uomo. E lo è a tal punto "da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore di Dio, potremmo dire, "è in discesa", si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, "sino a dare la vita per i propri amici" come Gesù stesso dice. Medita ancora Giovanni nella sua prima lettera: "In questo sta l'amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (I Gv 4, 10). E' Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. E', in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti, ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (I Cor 1, 28).
Se l'intera Scrittura è la storia dell'amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell'amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l'amore è Gesù. L'amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito... L'amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L'amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito... Questo è l'amore di Dio. Davvero altra cosa dall'eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori... Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell'agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d'amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L'egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull'attrazione "naturale" sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. E diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L'eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d'essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l'agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell'io c'è l'altro. Gesù ce ne ha dato l'esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Gv 15, 9). Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell'amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore, possiamo però riceverlo da Dio, se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l'amore di Dio si incrocia, quasi sino all'identificazione, con l'amore vicendevole.
L'uno infatti è causa dell'altro. Un noto teologo russo amava dire: "Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!". Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L'amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L'agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l'amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15,11).

giovedì 7 maggio 2009

10 Maggio 2009 - V Domenica di Pasqua

C'è un'immagine estremamente espressiva: la vite e i tralci. Il tralcio è fatto per portare frutto. Se non porta frutto viene tagliato e si secca. Il tralcio che porta frutto viene potato perché porti più frutto, frutto abbondante. La stessa cosa è per noi: solo uniti a Cristo siamo vivi, portiamo frutto. E questo nella misura in cui accettiamo la potatura: così si può portare veri frutti, non a parole, ma coi fatti (come ci ha detto la lettera di Giovanni). Senza di me non potete fare nulla: così ci dice Gesù con amore e con chiarezza. Possiamo avere la sensazione o la illusione di fare tante cose da soli, anche senza Cristo. Queste parole a noi potrebbero sembrare presuntuose. "Non potete fare nulla". Nulla? A noi può sembrare il contrario: chi non crede in Gesù fa soldi, carriera, successo... Ma dobbiamo fare attenzione: il vangelo non lo si può addomesticare o dimezzare. Gesù è molto chiaro e va preso sul serio, perché in Lui c'è la verità e non le illusioni. Ci può essere anche un pericolo: di rimanere in unione con Cristo in qualche momento, quando preghiamo o facciamo qualche riflessione. Non è possibile per un tralcio essere un po' unito e un po' staccato, tanto più non è possibile per noi riferirci a Cristo ogni tanto, qualche volta, quando ci viene e in me o quando ci piace. "Rimanete in me e Io in voi": dobbiamo rimanere ed essere sempre uniti a Cristo, sempre e in ogni azione della giornata. E' una cosa pesante, difficile, noiosa? E' pesante, difficile, noioso respirare continuamente, o essere sempre sotto l'influsso del sole per vivere? Non c'è nulla di più facile, di più immediato, di più naturale. E' più difficile fare diversamente, lasciarsi andare ai propri capricci, se ne portano tante conseguenze di sofferenze e di morte: il tralcio secco, che non porta frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Senza di me non potete fare nulla. Con Cristo possiamo fare tanto, possiamo fare tutto. "Tutto posso in Colui che mi dà forza". "Nulla è impossibile a Dio". Abbiamo l'esempio di tanti Santi, i quali uniti a Cristo, hanno potuto fare cose grandi e hanno offerto alla Chiesa e all'umanità frutti prodigiosi di bene. La Parola ci aiuta a capire e a vivere il nostro rapporto con Dio: tralci uniti alla vite. Ci aiuta pure a capire e a vivere il nostro rapporto con gli altri, perché tutti facciamo parte dell'unica vigna del Signore, vigna curata dal Signore e dal suo Spirito che viene. S. Giovanni ci presenta la vita della comunità cristiana e ne sottolinea gli elementi più importanti. Ci invita ad amare non con parole, ma con i fatti e nella verità. Questo è il comandamento: che crediamo nel nome del Figlio Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri. Credere in Gesù e amarci gli uni gli altri: questo è vivere il suo comandamento per dimorare in Dio. "Rimanete uniti a Me" dice il Signore. E' importante partire dall'esperienza della preghiera e dell'amore davanti a Dio: momento forte di unità, di vicinanza con Lui, dove si trova luce, forza e si impara a rimanere uniti a Lui nella vita di ogni giorno. "Voi siete i tralci". I tralci sono persone concrete, di ogni giorno, persone che si incontrano al lavoro, nella strada. Nel mondo ci sono tralci che rivelano la presenza di una vite che è Cristo? Se la parola di Cristo è vera, ci devono essere persone nelle quali si possa vedere la vita di Cristo, il Risorto. Guardiamoci attorno: oggi quanti tralci vivi si vedono! Non fanno chiasso, come fa' chiasso il male: "Un albero che cade fa più rumore di un'intera foresta che cresce". Pensiamo ai cristiani che vivono e costruiscono le più varie forme di bene, nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle opere di carità, nel volontariato, negli impegni sociali. Pensiamo agli uomini straordinari del ventesimo secolo: Padre Pio, Don Luigi Orione, Raoul Follereau, il dottor Schweitzer, Padre Kolbe, Madre Teresa, Giovanni Paolo II e tantissimi altri... Domenico Mondrone ha pubblicato sei volumi col titolo significativo: "I Santi ci sono ancora". Sono tutte brevi biografie di donne e uomini straordinari di questo nostro tempo. Ecco allora un pensiero consolante: non è possibile questa fioritura di tralci senza una vite: non sono possibili questi uomini e queste donne senza una presenza di Cristo! Ma Gesù continua: "Ogni tralcio che in me non porta frutto il Padre lo toglie; e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto" (Gv 15,2). Questa potatura è il mistero che talvolta ci chiude gli occhi, perché non lo vogliamo accettare. E il motivo è questo: siamo tutti un po' materialisti; accomodati nel mondo e non pellegrini e forestieri in questo mondo. Ecco allora le prove, il dolore, le persecuzioni, la croce...: sono la strada erta e difficile che porta alla salvezza; sono la potatura, che se accettata, ci matura, ci fa portare frutti abbondanti, ci libera da tante mondanità. Nella prima lettura si è parlato di Paolo. Paolo non dubita di Cristo che l'ha chiamato sulla strada di Damasco. Sarà lui a dire un giorno: "lo sovrabbondo di gaudio in tutte le mie tribolazioni" (2 Cor 7,4). "Non ho niente eppure possiedo tutto" (2 Cor 6,10). "Completo in me la passione di Cristo" (Col 1,24). "Sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la forza" (Fil 4,12-13). L'esperienza di Paolo e quella ti tante anime belle e generose ci fa vedere che non sono parole, ma fatti. E' la storia di tante esistenze luminose, veri fari di bontà e di solidarietà, che dal legame con Cristo hanno tratto la forza necessaria per affrontare momenti difficili, per dare buona testimonianza, che hanno affrontato con coraggio - essi, tante volte semplici e poveri – situazioni gravose e hanno fatto risplendere la potenza e la vittoria di Cristo.

mercoledì 22 aprile 2009

26 Aprile 2009 - III Domenica di Pasqua

Dopo l'apparizione alle donne, quel mattino del primo giorno dopo il sabato, dopo che Pietro, incredulo, si era recato al sepolcro e, trovatolo vuoto, " tornò a casa pieno di stupore", ecco che Gesù affianca, nel loro cammino verso Emmaus, due discepoli, dei quali il Vangelo non dà l'identità, sappiamo, però, quanto fossero sgomenti e delusi, se l'autore del testo, mette sulle loro labbra queste parole: "noi speravamo che fosse lui il liberatore di Israele; ma son passati tre giorni...alcune donne ci hanno sconvolti...sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo...alcuni dei nostri sono andati al sepolcro, ma lui non l'hanno visto..." Un racconto stupendo, questo di Emmaus, un'esperienza nella quale quasi tutti ci siamo trovati, o, di fatto, ancora, per certi versi, ci troviamo, dato che la Presenza del Risorto, non è necessariamente visibile o tangibile, come qualunque altra presenza umana, fisicamente situata nel nostro orizzonte storico. "...ma Lui non l' hanno visto.."; quella di Cristo risorto, infatti, è una presenza di Grazia, di fede, ed è intelligibile, soltanto da un cuore, illuminato e fedele. Conosciamo tutti il racconto di Emmaus, sappiamo come bruciasse il cuore dei due discepoli, mentre il misterioso compagno di viaggio, spiegava le Scritture, e sappiamo, anche, quel che accadde alla locanda, quando, accingendosi a consumare la cena, "i loro occhi si aprirono e lo riconobbero", mentre l' Ospite, spezzava il pane, dopo aver detto la benedizione. In quello stesso momento, il Signore si sottrasse alla loro vista: il dono del Risorto aveva raggiunto il cuore dei discepoli, la luce della fede si era accesa, e si era riaccesa la speranza e l'amore, quell'amore che li ricondusse, poi, in fretta a Gerusalemme dagli apostoli, ai quali riferire l'evento: avevano riconosciuto il Signore Risorto alla frazione del Pane, avevano percorso un tratto di strada con Lui, avevano accolto nella mente, ormai illuminata, il senso delle Scritture, che convergono verso Cristo, unico Signore della Storia e unico Salvatore. Ora, nel cenacolo, ove si trovano gli Undici, che ascoltano i due rientrati da Emmaus, Cristo appare nuovamente, e questa sua apparizione è come il sigillo, che autentica quel racconto che aveva lasciato i discepoli, quasi sicuramente, scettici, se, di fronte all'improvvisa presenza del Cristo, rimasero ".. stupiti e spaventati, e credevano di vedere un fantasma." Il Signore risorto non è un fantasma, ed Egli stesso lo sottolinea: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho "; e Luca aggiunge quel particolare, così concreto, corposo e, al tempo stesso, tenero, della richiesta di cibo da parte del Maestro, quel pesce, che Egli mangiò arrostito. Una scena stupenda, calda e familiare, un tocco di delicatezza infinita, per quelle povere menti stordite dagli eventi, e per le nostre povere menti, che ancora vacillano, davanti alla grandezza sconfinata della Vita che ha vinto la morte. La Pasqua di Cristo, la sua Resurrezione, è la celebrazione della Vita, la rivelazione piena del mistero di Dio incarnato in Gesù di Nazareth, e del mistero dell'uomo, a Lui indissolubilmente legato, e per Lui destinato anch'egli a vincere la morte; è la grazia della Redenzione. La nostra pienezza di vita in Cristo è dono della Pasqua; la Liturgia eucaristica di questa domenica la offre, ancora una volta, alla nostra contemplazione, per la nostra gioia, per una pace da gustare e vivere in profondità di fede, in modo tale che diventiamo capaci di comunicare e testimoniare questi stessi doni agli altri. Nel nostro oggi, nella storia presente, in quel piccolo segmento di storia, che ognuno scrive, deve esser reso presente Cristo, con i segni della Passione e lo splendore della Resurrezione, il Cristo che la Chiesa incessantemente annuncia. Non è un discorso di sole parole, ma la testimonianza di un'esistenza, che sa, quanto grande sia stato il prezzo della redenzione: la Croce di Cristo, che la Scrittura ci ricorda e che ritroviamo nel Pane spezzato e nel calice del Sangue sparso. I segni della Passione, lo strazio della croce, neppure la gioia della Pasqua può cancellarli, è con essi che Cristo si presenta e si fa riconoscere: i segni del dolore sono anche i segni della gloria del Cristo, i segni dell'amore infinito di Dio per ogni uomo. A questo riguardo, il Papa Giovanni Paolo II, nella Enciclica "Dives in Misericordia", scriveva: "La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore, sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento, sino alla fine, del programma messianico che Cristo formulò una volta, nella sinagoga di Nazareth: «Il Signore mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vita, a predicare un anno di grazia del Signore...» (Lc 4, 18 19). La dimensione divina della redenzione, non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore, quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale, egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio " La celebrazione della Pasqua, questo lungo Tempo liturgico, che ci conduce nelle profondità Mistero, per esserne illuminati e rivitalizzanti, deve farci avvertire, con maggiore intensità e gioia crescente, la vocazione alla santità, quella santità quotidiana, che è esperienza viva e profonda della comunione col Padre, nel Figlio, e nello Spirito, esperienza della Presenza viva, da adorare, da amare e da proclamare ogni giorno, per condurre altri alla medesima comunione.

giovedì 9 aprile 2009

12 Aprile 2009 - Pasqua di Risurrezione del Signore

"Perché cercate tra i morti colui che è vivo?". L'angelo resta stupefatto della lentezza delle donne. Certo, lui, l'angelo, ormai contempla da vicino il mistero della vita. Ma noi... ma noi increduli, noi sconfitti, noi incostanti, come facciamo a credere? Eppure la notizia è qui, l'inizio di tutto è qui: la fede, la speranza, l'entusiasmo, la storia, la vita... Se ci si fosse fermati alla Croce, al venerdì, noi, come gli apostoli sgomenti, avremmo potuto fare mille considerazioni: sul fallimento, sulla speranza delusa, su come gli idealisti vengano sistematicamente eliminati da un potere becero, su, su, su... Bene dicono i discepoli di Emmaus, rientrando a casa da Gerusalemme: "Noi speravamo che fosse lui". Noi speravamo: terribile affermazione. Fine del sogno, fine delle belle parole, fine dell'euforia dei bei giorni. Se la nostra fede si fermasse a quella croce ci sarebbe ben poco da dire su Gesù di Nazareth. Nulla da dire su Gesù il Cristo. Se la storia si fosse conclusa a quel drammatico pomeriggio al Golgota, Gesù, come Gandhi o altri grandi personaggi, sarebbe rimasto un punto di riferimento morale, certo, ma nulla più. E invece nessuno, proprio nessuno aveva messo in conto lo stile di Dio, il suo piano strategico, la sua mossa finale, lo scacco matto alla solitudine e alla morte. Sicuramente, piazzata la pietra davanti al sepolcro, tutti, Pilato, il Sinedrio, la folla, i discepoli, avranno pensato ad una triste fine di uno dei tanti profeti che attraversano l'umanità periodicamente. Ma quella pietra non è riuscita a fermare Dio, quel sepolcro è rimasto ed è straordinariamente e inequivocabilmente vuoto. La morte non è riuscita a tenere tra le proprie braccia Dio. La tomba non è riuscita a contenere la sua forza, la sua strepitosa vitalità, la sua totale pienezza. È risorto, fratelli. Gesù è vivo, qui ora. Gesù non è morto, non è rimasto chiuso nel sepolcro. No: è vivo, è qui; è ovunque. E quindi (mi vedo la lenta ma inesorabile speranza che nasce nel cuore degli apostoli) se è risorto significa che davvero era il Cristo, che addirittura era il Figlio, che inauditamente è Dio. E allora si rileggono quegli anni, i gesti, le parole, le scoperte, tutto, tutto ora viene capito, tutto, grazie al primo dono ai credenti, lo Spirito. La smorfia di dolore si trasforma splendidamente in sorriso, in gioia, in annuncio. Ve li vedete questi undici sconfitti, pavidi, terrorizzati di fare la stessa fine del Maestro, venire sconvolti dentro, correre, precipitarsi a perdifiato lungo le mura della città, su fino al Golgota e lì a fianco, nel giardino, vedere delle bende, e credere. Capiamo che se questa è la straordinaria originalità del cristianesimo, da sempre gli scettici, gli increduli, abbiano cercato in tutti i modi di sconfessare questa professione di fede: ma no, che dite, non è risorto, si sarà ripreso da una morte apparente, l'avranno portato via i discepoli, o, che so, si sarà reincarnato! Poveri uomini, povera meschinità umana che stenta a credere che Dio sia padrone della vita, che Cristo abbiamo spalancato le paratie della gioia così da precipitare questa notizia lungo i secoli della storia. Gesù è vivo, amici, che ci piaccia o no, che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no. E' vivo: è incontenibile la sua vita, è straripante la sua forza. Non ci chiede permesso per amarci, non aspetta le nostre lentezze e le nostre obiezioni per esistere. Questa è la nostra fede, questa è la fede che i cristiani, a volte timidamente, a volte con lo splendore della santità, hanno professato.
Celebratela, dunque questa presenza, festeggiate, dunque questa notizia, non cercate tra i morti colui che vive!

giovedì 2 aprile 2009

5 Aprile 2009 - Domenica delle Palme

La settimana che oggi iniziamo, così grande, così importante da essere chiamata "santa", è il gioiello dell'anno liturgico, una perla troppo spesso dimenticata da noi cristiani, a vantaggio di feste forse più sentimentali ma intrise di tanto consumismo, come le feste di Natale.
Qui no. Un morto in croce non si vende, non suscita sentimenti di bontà.
Anzi: se ne parla poco e male di questo Dio che sale su di una croce e muore.
Ancora oggi ci rimane difficile da capire il mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola "resurrezione". Difficile al punto che la Chiesa si ferma stupita a meditare per tutta la settimana sulla grandezza dell'amore di Dio.
Allora fermiamoci anche noi, giorno per giorno, ora per ora, regoliamo i nostri orologi e il nostro tempo a questi momenti cruciali per la storia dell'umanità.
Ammiriamo, in silenzio, il vero volto di Dio, un Dio che si prepara a morire: Cristo celebra la sua presenza nell'ultima Pasqua, la nuova; viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, vive.
In questa preziosa settimana, qualunque cosa faremo, in ufficio, a scuola, a casa, potremo fermarci, socchiudere gli occhi e pensare a Cristo, ai suoi sentimenti, alla sua angoscia, alla sua bruciante passione, al suo desiderio.
Ora per ora assisteremo, con gli occhi della fede, allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
Ironia dell'incoerenza umana: nel volgere di pochi giorni le stesse voci, le stesse braccia, non più con le palme aperte verso il cielo, ma con i pugni serrati, trasformeranno la loro gioia per il Messia, in una invocazione terrificante, in un agghiacciante sete di morte, "Crocifiggilo!".
Quanto è sciocco l’uomo! come sciocchi e tardi nel credere siamo anche noi, che ancora non ci rendiamo conto del tesoro che abbiamo tra le mani, disposti anche noi a trasformare velocemente con il nostro comportamento la preghiera di benedizione in grido di “morte”!
Eppure da quella croce pende il destino dell'uomo, con quel sangue è firmato il patto dell'Amicizia eterna di Dio, in quel pane è conservato il Cuore di Colui che desidera ardentemente di mangiare la Pasqua con noi.
Ma che razza di Re era Gesù?
Un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un asinello e non un cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re senza armate, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza. Un re nudo, appeso ad una croce, cinto da una corona di spine; un re talmente sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile almeno alle persone che l'hanno amato.
Ecco: questa è la non festa che celebriamo in questa settimana: una festa che abbandona i trionfalismi, per lasciare spazio alla meditazione, allo stupore.
Questo è il nostro re, discepoli del Nazareno. Questo è il nostro Dio.
Un Dio che rischia, un Dio che – per amore – accetta di farsi spazzare via dall'odio e dalla violenza; un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato, pur di mostrare il suo vero volto.
Un Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente, perché ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure e distorte visioni di un Dio personale!
Questo è dunque il nostro Dio: un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell'amore l'unica misura, l'ultima ragione, la sola speranza. Amen

giovedì 26 marzo 2009

29 Marzo 2009 - V Domenica di Quaresima

Ecco la vera identità del Figlio di Dio, Messia e Salvatore: Egli è il chicco di grano che, staccatosi dalla spiga, si prepara a marcire e morire perché nasca una nuova vita, una nuova spiga carica di altri grani. Con un riferimento naturale Gesù, profeticamente, rivela il culmine e il senso ultimo della sua missione. Egli è la Vita ed è venuto perché tutti abbiano la vita piena e abbondante. Ma perché questo accada occorre cadere nella terra, e Lui lo ha fatto, lasciando il seno del Padre; occorre marcire e morire, e lo farà sulla Croce; solo così nascerà altra vita, e questa pienezza si compirà nella Risurrezione. "Se il chicco di grano..." In un'immagine semplice e minuscola, quanto lo è un chicco di grano, ecco tutta la Sapienza di Dio. Ecco, legati da un unico filo d'oro la legge della natura, il dinamismo intimo della vita, la sua missione di Messia e, per chi non si accontenta solo di ascoltarlo, ma vuole anche seguirlo, ecco una proposta di vita: "Se il chicco di grano..." Non si semina un chicco di grano perché si perda e marcisca, ma perché, morendo, liberi tutta l'energia vitale che contiene e risorga come spiga carica di altri grani. E' questa la sorprendente ed assurda logica di Dio che Gesù ha pienamente incarnato e reso visibile in una vita interamente donata, dove la morte in croce è stata solo l'avvenimento culmine. Se entriamo in questa logica di Dio si apre ai nostri occhi, come uno squarcio di luce, che il dare tutto, l'uscire da se stessi per accogliere l'altro, è la vita di Dio, la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito. Nella Trinità le Tre Persone si rapportano donandosi totalmente l'una all'altra e in queste relazioni nessuna Persona divina ne esce impoverita o annientata. Ciò che per Gesù è identità e missione, per chi lo ascolta è possibilità, cammino aperto. "Se il chicco di grano..." Dio rispetta la nostra libertà, non impone traiettorie obbligate, le propone, le presenta nella verità e per primo le percorre. "Se il chicco di grano..." Perché sia Pasqua non c'è altra strada. Perché sia la nostra Pasqua non ci sono tangenziali o scorciatoie: per dare vita occorre dare la vita. In ogni esistenza ci sono un Calvario e una Croce che attendono, in ogni esistenza c'è un sepolcro che da luogo di morte si trasformerà in culla di vita nuova, se il seme gettato in terra accetta di marcire e morire. Tutto questo travaglio si consuma nella quotidianità, senza attendere le grandi occasioni. Marcire e morire è disponibilità a dare tutto senza trattenere niente, a dimenticare se stessi, ad amare nella gratuità senza aspettarsi nulla in cambio, a rinunciare ai propri interessi e alle proprie sicurezze... essere seme che muore e, in una parola, dono di sé. E questa consegna concreta di noi stessi, nelle piccole morti nascoste, mentre dona vita ad altri, contemporaneamente, ci immerge nel cuore di Dio, nel mistero pasquale di morte per la Vita. Subito dopo, Gesù aggiunge: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia (perde) la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Cadere in terra e morire, non è dunque solo la via per portare frutto, ma anche per "salvare la propria vita", cioè per continuare a vivere! Che cosa succede al chicco di grano che rifiuta di cadere in terra? O viene qualche uccello e lo becca, o inaridisce e ammuffisce in un angolo umido, oppure viene ridotto in farina, mangiato e tutto finisce lì. In ogni caso, il chicco, come tale, non ha seguito. Se invece viene seminato, rispunterà, conoscerà il tepore della primavera e il sole dell'estate. Conoscerà una nuova vita. E' chiaro il significato di ciò sul piano umano e spirituale. Se l'uomo non passa attraverso una trasformazione che viene dalla fede, se non accetta la croce, ma rimane attaccato al suo naturale modo di essere, al suo egoismo, al suo io, tutto finirà con lui, la sua vita va ad esaurimento. Se invece accetta la croce in unione con Cristo, allora gli si apre davanti l'orizzonte dell'eternità. Ma senza pensare alla morte, ci sono situazioni sulle quali la parabola del chicco di grano getta una luce rasserenante. Chi non ha vissuto l'esperienza di un progetto che gli stava a cuore, per il quale ha lavorato, diventando lo scopo principale della vita. Ed ecco che, in breve lo vedi come caduto in terra e morto. Fallito, oppure tolto a te e affidato ad un altro che ne raccoglie i frutti. E' in questo momento che ci dobbiamo ricordare del chicco di grano e sperare. I nostri migliori progetti e affetti devono passare per questa fase di apparente buio e di gelido inverno, per rinascere purificati e ricchi di frutti. Se resistono alla prova, sono come l'acciaio che dopo che è stato immerso in acqua gelida né è uscito "temprato". Molte volte il chicco di grano (la nostra vita, i nostri progetti, gli ideali) continuiamo a tenerlo stretto nella mano, finché inaridisce e muore, senza che porti il frutto desiderato. L'alternativa è affidarlo alla terra e attendere che dia il frutto, anche se tutto fa pensare al contrario. Concretamente significa rimettere i nostri progetti, la nostra vita alla volontà di Dio, non in un atteggiamento di passiva rassegnazione, ma di fiducioso abbandono.

giovedì 19 marzo 2009

22 Marzo 2009 - IV Domenica di Quaresima

Dio ha tanto amato il mondo
"Bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato (sulla croce), perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna". Chi crede in Cristo Crocifisso, ha la vita eterna.Il Crocifisso e la fede: nel cammino quaresimale volgiamo lo sguardo e l'orientamento della vita verso la passione e la morte di Gesù, verso Gesù che è stato sulla croce. Gli ebrei, in grave pericolo, se guardavano il serpente di bronzo, erano salvi. Noi cristiani, se guardiamo Cristo Crocifisso e crediamo che Lui è il Figlio di Dio, siamo salvi. Siamo salvi su questa terra; siamo salvi per l'eternità.Questo perché Cristo crocifisso vive ed esprime tutto l'amore infinito di Dio per l'umanità e per ciascuno. "Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi, come non ci donerà ogni cosa, assieme a Lui?" La liturgia ci offre oggi le espressioni più profonde e più luminose della nostra fede."Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna"."Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia e mediante la fede, siamo stati salvati".Pensiamo a quale totale differenza fra una persona morta e una viva!E chi non crede in Cristo? E chi è superficiale nella fede? "Io sono ateo - dice qualcuno - io non credo, io sono agnostico". Tanti giovani, visti esteriormente, sembra che vedano l'ora di allontanarsi da Dio, da Cristo, dalla Chiesa. Qualcuno si lascia condizionare o rovinare da compagnie, da cattivi insegnamenti, da letture o film o servizi internet, che sembrano opere del maligno.Ce lo richiamiamo perché c'è una grande responsabilità nel portare avanti la crescita nella fede. Non è la stessa cosa credere o non credere in Cristo. Non è come fare il tifo per una squadra o l'altra o coltivare o meno un qualunque interesse: uno alla fine rimane sempre uguale. Credere o non credere in Cristo è questione di vita o di morte per sempre.Quand'ero ragazzo, mi facevano molto bene, specie negli esercizi spirituali, le meditazioni e le riflessioni, sulla morte, sull'eternità, sull'inferno e il paradiso. Mi veniva insegnato fin da ragazzo che era necessario costruire bene la vita, evitare il male e il peccato per non correre il pericolo dell'inferno, fare il bene il più possibile e chiedere il perdono di Dio nella confessione di tutti i peccati, per vivere nella fiducia che il Signore ci vorrà accogliere in Paradiso. S. Giovanni Bosco affermava che molte volte nell'età dell'adolescienza si decidono le sorti del tempo e dell'eternità.Lo sappiamo che siamo deboli, che tante volte soffriamo tentazione e cadiamo nel peccato: ma il Signore è venuto proprio perché potessimo essere perdonati e santificati. Per questo dobbiamo accogliere, desiderare, implorare il perdono; metterci davanti a Dio perché possiamo essere perdonati e salvati.Qui è la nostra gioia. Questa domenica di metà quaresima è la domenica della gioia. Gioia perché siamo davanti a Dio, perché Dio ci ama e ci salva, perché viviamo con il Signore e per il Signore. "Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia".Dice ancora il vangelo: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui". Abituati ad immaginarci un Dio esigente, che formula continue richieste e domanda sacrifici, gli uomini faticano ad accettare un Dio che non domanda, ma dona, che non esige, ma offre, che non esercita il suo potere per giudicare e condannare, ma per salvare e liberare dal male. Eppure le cose stanno proprio così. Difficilmente si sarebbe prevista una simile realtà, ma in Gesù è proprio questo che si è manifestato. Perché la logica di Dio non è quella del potere, della forza, della superiorità, ma dell'amore. "Dio ha tanto amato il mondo"!Che differenza dal nostro atteggiamento! Noi continuamente giudichiamo, puntiamo il dito, ci lamentiamo di tutto il male che c'è e che ci viene continuamente buttato il faccia. Gesù ha fatto così? Fa così? Gesù conosce molto bene tutto il male e ogni debolezza; ma Gesù ama, si appassiona di questo mondo cattivo, non ha paura dei peccati, delle cose più terribili: si incarna, si fa uomo, si fa peccato, muore come un delinquente davanti a Dio e davanti alla società di allora. Ma in questa maniera salva e trasforma il mondo e nel mondo possono trovarsi i terreni più buoni, i fiori belli, i frutti più sani.Com'è il nostro rapporto col mondo? Come ci troviamo in esso? Siamo innamorati del nostro mondo, proprio così com'è, per assumerlo, per vivere una solidarietà nel male, che diventa salvezza dal male. Non devo continuare a puntare il dito, a giudicare gli altri, come se il male fosse solo degli altri, di quelli che fanno così terribili, e io sentirmi a posto, anche se la mia vita è insulsa ed egoista."Chi crede in Cristo non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell'unigenito Figlio di Dio". Questo avviene per il mistero del contrasto della luce e delle tenebre. Dice il vangelo: La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito letenebre. Nella luce si fa il bene, nelle tenebre si fa il male. Ecco un programma semplice, ma fruttuoso: Credere nel Figlio, muoversi nella luce, fare opere buone. Credere all'amore di Dio, accoglierlo; ripetere, commossi, con S. Giovanni: "Noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi!"Possiamo in questo imitare i bambini. Essi non hanno paura di lasciarsi amare; più amore si dà loro, più ne prendono, come se fosse la cosa più naturale del mondo. L'amore umano diventa simbolo dell'amore di Dio, l'amore di Dio serve da modello all'amore umano. In altre parole, da Dio impariamo come anche noi dobbiamo amare.Alcuni esempi: Dio non ha avuto paura di peccare di debolezza, ripetendo spesso nella Bibbia all'uomo: "Io ti amo", "tu sei prezioso ai miei occhi".Perché ci sono papà e forse anche mamme che non lo dicono quasi mai ai figli? Mariti che non lo dicono alla moglie? Molti giovani soffrono per tutta la vita per non essersi mai sentiti rivolgere, semplici e chiare, parole come queste dalle persone dalle quali di più le attendevano.Pur amandoci tanto, Dio ci lascia liberi. Esprime la qualità paterna del suo amore, proprio dandoci la libertà. E non si può dubitare che Dio non sia un buon educatore. Non si tratta nelle nostre responsabilità, semplicemente di dare libertà ad esempio ai figli, ma di educarli alla libertà. Dare la libertà può diventare permissivismo. Educare alla libertà significa aiutarli a non essere succubi delle mode, della pubblicità, di quello che fanno gli altri; a non avere paura di essere diversi, di andare, quando è necessario, controcorrente, ad avere il coraggio delle proprie convinzioni e decisioni.Il Signore si aspetta da noi una risposta di amore libera, gioiosa, consapevole, perché affascinati dal suo amore infinito e tenerissimo.

giovedì 12 marzo 2009

15 Marzo 2009 - III Domenica di Quaresima

Di Dio non si fa mercato!
Mi si permetta una fantasticheria: chissà come avrà reagito quel giorno il sommo sacerdote Caifa quando gli devono aver raccontato di quello scandalo inaudito, che si era verificato al tempio nell’atrio dei gentili, a firma del solito Gesù di Nazareth, mai visto “infuriato pazzo” così, contro mercanti e cambiavalute? Non ha risposto proprio a questa domanda, ma ci è andato molto vicino lo scrittore torinese, S. Jacomuzzi con il suo romanzo audace e avvincente, Cominciò in Galilea, una sorta di quinto vangelo, messo in bocca all’apostolo Andrea. Ecco come il “primo chiamato”, il fratello di Simon Pietro, ricostruisce il “fattaccio”: “Fu d’improvviso, in modo del tutto inaspettato. Mi ero appena accorto che Gesù aveva alzato gli occhi in alto, verso i fastigi del tempio, per poi rivolgerli tutto attorno a ciò che lo circondava, e lo vidi muoversi di scatto. Da una bancarella vicino afferrò delle cordicelle, ne fece una fune e con quella si abbatté addosso ai mercanti, rovesciò i banchi delle monete, cercò di spingere fuori pecore e buoi. Restammo allibiti, senza neppure il tempo di intervenire e di metterci accanto a lui. Si alzò un volo di colombe spaventate e Gesù gridò ai loro venditori: “Andatevene di qui! Avete mutato la mia casa in una spelonca di ladri!”.
1. Per comprendere adeguatamente da una parte la carica “rivoluzionaria” del gesto compiuto da Gesù e, dall’altra, la sua valenza simbolica, bisogna ricordare cosa rappresentasse il santo tempio di Gerusalemme per il giudaismo contemporaneo. Secondo la fede d’Israele, il tempio era la dimora di Dio in mezzo al suo popolo: là si operava la remissione dei peccati; solo là veniva pronunciato il santissimo nome di YHWH, altrimenti assolutamente impronunciabile. In sostanza il tempio era il segno concreto e tangibile sia della unicità di Dio sia della unità e unicità di Israele: lo ricordava una iscrizione su una lastra di pietra messa a confine tra i due piazzali, quello riservato ai giudei e quello dei pagani: comminava la pena di morte all’incirconciso che avesse osato oltrepassare il limite. Del gesto compiuto da Gesù sono state date due interpretazioni, una che potremmo chiamare “devota”, e l’altra “zelota”. Secondo la prima, si sarebbe trattato di una purificazione del tempio: come gli antichi profeti, Gesù avrebbe compiuto un gesto di violenta denuncia di abusi intollerabili e si sarebbe scagliato contro quella sacrilega profanazione che aveva ridotto il tempio a un centro commerciale. Bisogna però ricordare che in fondo la presenza di venditori e di cambiavalute non solo non era illegale - oltretutto il mercato si svolgeva nell’atrio dei pagani - ma era anzi necessaria per offrire sacrifici e cambiare le monete straniere, ritenute impure, in monete ebraiche. Di fatto Gesù non se la prende direttamente con il traffico del tempio, fonte di lauti guadagni per il sommo sacerdote e le grandi famiglie sacerdotali che si spartivano il controllo delle finanze. Secondo l’altra interpretazione, quella “zelota”, il gesto compiuto da Gesù sarebbe stato un atto squisitamente politico: un tentativo di occupazione del tempio, contro gli invasori romani e quindi un affronto oltraggioso all’alta aristocrazia sacerdotale, imparentata con la classe dei sadducei e connivente con il potere occupante. Di fatto il gesto in se stesso è stato un “gesto profetico” - come i gesti compiuti dagli antichi profeti per lanciare dei messaggi particolarmente importanti - insomma un’azione dimostrativa, simbolica. Più che una “purificazione” dell’area del tempio, quello che fa Gesù annuncia l’abolizione di ogni barriera: perfino l’atrio consentito ai pagani doveva essere considerato sacro, tanto quanto lo spazio riservato agli ebrei. In fondo Gesù non vuole la restaurazione del vecchio mondo, ma l’instaurazione di un nuovo mondo religioso, senza più tabù né odiose segregazioni.
2. Ma c’è ancora altro. È soprattutto il detto riportato da Giovanni, rispetto ai sinottici - “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” - a illuminarci sul senso attribuito da Gesù stesso al suo gesto eclatante. È da rimarcare qui la forte sottolineatura del soggetto che compie l’azione - che nella versione di Marco è ancora più accentuata: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo” (14,58). Il tempio non è più riformabile, perché decaduto: va sostituito, non perché profanato, ma perché il Messia è ormai venuto, e Gesù è insieme il soggetto e l’oggetto della sostituzione del vecchio santuario di Gerusalemme: è il ricostruttore del tempio e il tempio ricostruito. Nella precedente attesa giudaica, riguardante il rinnovamento del tempio negli ultimi tempi, è sempre e solo Dio che agisce; di norma, non ci si attendeva che un uomo, re o profeta che fosse, si arrogasse la prerogativa della riedificazione futura del tempio. Qui invece abbiamo proprio un uomo, il rabbi Gesù di Nazaret, che si accredita come dotato di una autorità divina. Infatti l’accusa che gli verrà mossa pochi giorni dopo in sede di processo dal tribunale del sinedrio, riguarda proprio questo capo: la funzione di Gesù, come il ricostruttore promesso del tempio, indirettamente comportava la sua piena e totale equiparazione con Dio. Il gesto simbolico compiuto dal Maestro di Nazareth e il suo messaggio profetico si possono capire solo alla luce della Pasqua: “egli parlava del tempio del suo corpo”. Abbiamo qui il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: la sua umanità è il luogo della presenza e della manifestazione di Dio in mezzo agli uomini. Il Signore Gesù dunque è il vero tempio, l’unico luogo di incontro con Dio. Il suo corpo, distrutto da mani d’uomo - dal peccato - sulla croce, diventerà nella risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini tutti. Questo significa che i veri adoratori di Dio non sono i guardiani del tempio materiale, i sommi sacerdoti garanti del sistema o gli scribi detentori del sapere, ma tutti coloro che adorano Dio “in spirito e verità” (Gv 4,23). La nota conclusiva di Giovanni - Gesù “non si fidava di loro... perché sapeva quello che c’è nel cuore dell’uomo” - sposta il luogo del vero incontro con Dio: dal recinto sacro all’intimo della coscienza, lì dove ogni uomo non si decide per qualcosa, ma per Qualcuno.
3. Ci stiamo preparando alla grande veglia pasquale, quando rinnoveremo le promesse del nostro battesimo, il sacramento-base con cui Cristo ci ha “incorporati” a sé, facendo di noi le pietre viventi del nuovo tempio: noi siamo il vero santuario, abitato dallo Spirito di Dio (cfr. 1Pt 2,4-5; 1Cor 3,16; 6,19). Ci stiamo preparando a rinnovare la promessa di fare di tutta la nostra vita “un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” (Rm 12,1). Camminando nel mondo come Gesù, facendo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per il mondo, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo incontrabile per quanti si imbattono nel nostro cammino. Ma il Signore si sente veramente a casa nella nostra vita? O anche per noi deve prendere la frusta per “fare le pulizie pasquali” negli atri del nostro cuore adultero e mercenario, e per scacciare gli idoli che vi si sono prepotentemente e comodamente installati? L’eucaristia che celebriamo ci mette in comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il nostro più intimo e ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui.

venerdì 6 marzo 2009

8 Marzo 2009 - II Domenica di Quaresima

Ci siamo addentrati nella quaresima. La Parola di Dio continua a farci uscire dalla prigionia dell'amore per noi stessi per condurci più in alto, molto più in alto delle nostre banalità. La liturgia di questa seconda domenica è come dominata da due montagne che si stagliano alte, affascinati e terribili, di fronte alla banalità del nostro quotidiano: il monte Moria - che la tradizione posteriore identificherà simbolicamente con il colle del Tempio di Gerusalemme - e il monte Tabor; il monte della prova di Abramo e il monte della trasfigurazione di Gesù. Il libro della Genesi ci presenta quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni, affrontato con fede dal patriarca Abramo verso la vetta della prova: è il paradigma di ogni itinerario di fede, e dello stesso cammino quaresimale. E' un percorso difficile e combattuto, accompagnato solo da quel comando implacabile: "Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami e offrilo in olocausto!" Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del giovane e ignaro Isacco che una sola volta, con ingenuità straziante, "si rivolse al padre e disse: Padre mio! - Eccomi, figlio mio. - Dov'è l'agnello per l'olocausto? - Dio stesso provvederà, figlio mio!" E' la fede al livello più alto o, se si vuole, a quello semplice e puro del bambino che si fida totalmente del padre senza alcun tentennamento ("se non ritornerete come bambini...", dirà Gesù). Abramo deve rinunciare alla sua paternità per appoggiarsi unicamente alla parola di Dio. E' la fede allo stato puro, si potrebbe dire. Non è il figlio Isacco ad assicurargli la posterità, ma solo la Parola del Signore. Sì, solo la Parola del Signore è la roccia su cui fondarsi, il bastone su cui appoggiarsi, il fondamento su cui costruire. Dio lo mette alla prova facendogli balenare la possibilità della distruzione della sua paternità. E così, dopo la prova, Abramo riceve Isacco non più come figlio della sua carne, ma come il figlio della promessa divina, il figlio della Parola. Egli, che pure aveva rinunciato alla vita di Isacco, lo ritrova colmo di gioia, così come quel padre misericordioso della parabola evangelica fu pieno di gioia nel ritrovare il figlio prodigo "che era morto ed era tornato in vita". Abramo che accoglie Isacco, ci offre un esempio altissimo di fede che lo farà venerare dalle generazioni future di ebrei, cristiani e musulmani, come "Padre di tutti i credenti". Su quella vetta, il credente si scopre figlio dell'amore assoluto, e per questo esigente, di Dio. La fede di Abramo ci accompagni nel nostro pellegrinare di ogni giorno!
La montagna della trasfigurazione, che la tradizione successiva identificherà con il Tabor, si pone come termine di questo viaggio, il viaggio di ogni settimana e dell'intera vita. Il Signore ci prende e ci conduce con sé sul monte, così come fece con i tre più amici perché vivessero con lui l'esperienza della comunione intima con il Padre; un'esperienza così profonda da trasfigurare il volto, il corpo e persino i vestiti; tutto, dentro e fuori. C'è chi suggerisce che il nucleo storico del racconto si basa su un'esperienza che ha colpito anzitutto Gesù: una visione celeste che ha prodotto una trasfigurazione in lui. E' un'ipotesi verosimile e comunque suggestiva perché ci permette di cogliere più al fondo la vita spirituale di Gesù. Talora si dimentica che anche Gesù ha avuto un suo itinerario spirituale, come il Vangelo suggerisce: Gesù "cresceva in sapienza, età e grazia". Senza dubbio non mancarono in lui le gioie per i frutti del suo ministero pastorale, come pure non furono assenti le ansie e le angosce (il Getsemani e la croce ne sono i momenti più drammatici). La salita sul monte ci fu anche per Gesù, come già per Abramo eppoi per Mosé, per Elia e per ogni credente. Gesù sentì il bisogno di salire sul monte; era il bisogno di incontrarsi con il Padre. E' vero che la comunione con il Padre era tutta la sua vita, il pane delle sue giornate, la sostanza della sua missione, il cuore di tutto ciò che era e che faceva; ma Gesù aveva bisogno di momenti in cui questo rapporto intimo emergesse nella sua pienezza. E' un esempio che interroga profondamente i credenti di oggi. Se ne ha avuto bisogno Gesù, quanto più noi! Il Tabor fu uno di questi momenti singolarissimi di comunione, che il Vangelo estende a tutta la vicenda storica del popolo d'Israele, come testimonia la presenza di Mosé ed Elia che "discorrevano con lui". Gesù, però, non visse da solo questa esperienza; volle coinvolgere anche i suoi tre amici più intimi. Fu un momento tra i più significativi per la vita personale di Gesù, e lo divenne anche per i tre discepoli e per tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questa stessa salita.
Nella tradizione della Chiesa molte sono state le interpretazioni di questo brano evangelico. Tra le più costanti c'è quella che scorge nella vita monastica il riflesso della Trasfigurazione, a motivo della radicalità della scelta che comporta. E senza dubbio è necessario che nella vita della Chiesa di oggi si sottolinei con maggior coraggio la radicalità di questa scelta che mostra il primato assoluto di Dio sulla nostra vita. Penso però che si possa vedere nel monte della Trasfigurazione anche la Liturgia domenicale alla quale tutti siamo chiamati a partecipare per vivere, uniti a Gesù, il momento più alto della comunione con Dio. Ed è proprio durante la Santa Liturgia che potremmo anche noi ripetere le stesse parole di Pietro: "Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende...". Da questo santo monte ch'è la Liturgia domenicale, nella quale ci troviamo in compagnia dei patriarchi e dei santi del Primo e del Nuovo Testamento, anche noi sentiamo risuonare la stessa voce di allora: "Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo!" Immediatamente i tre discepoli si ritrovarono con "Gesù solo". Si guardano attorno stupiti, forse con un senso di smarrimento per essere tornati alla "normalità", e non videro nessun altro se non il solo Gesù. Iniziano di qui i giorni feriali che seguono la domenica; o, se si vuole, la discesa dal monte. I discepoli non erano più come prima. Tornarono nella vita quotidiana non più ricchi di se stessi, delle proprie idee, dei propri progetti, dei propri sogni o di altro ancora. Essi avevano davanti agli occhi la visione di Gesù trasfigurato, e questo gli bastava. Sì, alla comunità cristiana, ad ogni credente, non è dato altro che Gesù; solo Lui è il tesoro, la ricchezza, la ragione della vita personale e della vita della Chiesa. Quella tenda che Pietro voleva costruire con le sue mani, in realtà l'aveva costruita Dio stesso quando "il Verbo si fece carne e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). E con l'apostolo Paolo siamo lieti di poter ripetere che nessuno, né il dolore né la fatica né la morte ci separeranno da Cristo e dal suo amore.

venerdì 27 febbraio 2009

1° Marzo 2009 - I Domenica di Quaresima

La scena che precede il Vangelo di oggi ci ha mostrato Gesù mescolato alla folla che va da Giovanni il Battista, per farsi battezzare. Lui, senza peccato, assieme a coloro che si dichiarano peccatori e compiono un gesto di penitenza e di conversione. Lui, in cui risplende ogni bontà, accanto a coloro che hanno oscurato le tracce della bellezza di Dio, impresse nella loro vita.
La manifestazione che accade al Giordano lo rivela come il Figlio, la discesa dello Spirito lo conferma nella missione che sta per affrontare.
Non ci sono sconti, però, né esenzioni, né privilegi: è chiamato ad essere uomo fino in fondo. Così anche lui conoscerà la tentazione, il tempo della prova, il dubbio, il rischio di allontanarsi dal progetto di Dio.
Marco non presenta le tentazioni in dettaglio. Perché? Perché rifugge dal fornirci particolari, così come fanno Matteo e Luca? Forse perché, proprio a partire da quel momento in cui dà inizio alla sua missione pubblica, la vita di Gesù sarà tutta una tentazione.
Sarà tentato dal potere, mentre è venuto come Messia umile e buono, che è venuto per servire e non per farsi servire.
Sarà tentato dalla popolarità che lo investe subito, appena compie i primi miracoli. Ma questi sono solo dei «segni»: l'importante è altrove, è quella Parola che sola può convertire e cambiare i cuori.
Sarà tentato dalla fuga di fronte al cumulo di sofferenza, di violenza, di abbandono e di fallimento, che sta per rovesciarsi su di lui. E invece gli viene chiesto di essere il Figlio che si mette completamente nelle mani del Padre e rinuncia a misurare la sua esistenza col criterio del successo, della riuscita, del consenso.
Il Messia povero, disarmato e disarmante, che osa pronunciare una parola misericordiosa, colma della tenerezza di Dio, ma anche scomoda, tagliente, senza compromessi, non avrà la vita facile. E la tentazione costante sarà quella di ammorbidire, smussare gli angoli, rendere più accettabile quel vangelo che è annuncio di gioia, annuncio di cambiamento, ma anche denuncia di tutto ciò che rovina la vita degli uomini.
Anche noi, come lui, conosciamo le tentazioni. Dopo duemila anni esse sono, stranamente, sempre le stesse. E di fatto intaccano, tutte, la nostra fiducia in Dio, ci gettano nel sospetto di trovare in lui non un Padre, che ci ama e vuole il nostro bene, ma un concorrente geloso delle nostre capacità, un padrone esoso che richiede obbedienza cieca.
Occorre guardare a Cristo, seguire il suo esempio, accoglierlo perché vinca in noi il maligno e le sue tentazioni e ci aiuti a realizzare il progetto e la volontà di Dio su di noi.
È così che accogliamo e viviamo il comando di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo".
Nei giorni che verranno accostiamoci a Gesù, e con lui viviamo e lottiamo nel deserto di questo mondo. I quaranta giorni della quaresima descrivono, in verità, il paradigma di tutta la vita di Gesù e quindi della vita di ogni credente. Non c'è bisogno di luoghi più o meno solitari per trovare il "deserto" ove ritirarsi. Le nostre città, ove è rara la vita solidale e frequente la solitudine, sono il vero deserto di oggi. Un deserto che è penetrato anche nei cuori sino a renderli freddi e duri. Si potrebbe parlare di un vero e proprio processo di desertificazione dei cuori che porta all'inaridimento e alla violenza. Come non accorgersi nella nostra vita quotidiana di essere sempre più spesso in compagnia di belve e dei demoni della divisione e dell'odio?

venerdì 20 febbraio 2009

22 Febbraio 2009 - VII Domenica del Tempo Ordinario

C'è tanta folla accanto a Gesù, non c'è più posto da nessuna parte. E Gesù annuncia la Parola di Dio. Gli portano un uomo paralizzato. Non riuscendo ad entrare lo calano dalla terrazza, dal tetto. Ci vuole della fede per cercare tutti i modi, per affrontare tante difficoltà, purché il malato possa arrivare davanti a Gesù. E' un gesto di grande fede ed è un gesto di carità vera. E Gesù, dice il testo, "vista la loro fede" si prepara dare a quel malato la sua salvezza, a compiere per lui i miracoli della sua potenza.Ma Gesù ricorda qual è il vero e primo bene.Quando si trova davanti quel paralitico esclama: "Uomo ti sono rimessi (cioè perdonati) i tuoi peccati". Il Signore ci esaudisce sempre a di là delle nostre richieste e delle nostre attese. Noi sperimentiamo alcune nostre necessità, Lui conosce i veri bisogni profondi della nostra vita. Ma essi volevano la guarigione fisica e forse si trova spiazzati o delusi.E soprattutto c'è la reazione degli scribi. "Perché costui parla così? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?"La guarigione del paralitico è presente nei tre vangeli sinottici; Marco la racconta in modo particolarmente vivace e drammatico. Nel piano del suo vangelo questo fatto rappresenta un momento culminante della rivelazione di Gesù come Messia e Salvatore, e l'inizio delle controversie che culmineranno nella condanna di Gesù come bestemmiatore della Legge e della religione del suo popolo.Solo Dio può perdonare i peccati. Ma Gesù è Dio che si è fatto uomo e salvatore. E' venuto a caricarsi di nostri peccati, a toglierli. E' l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. E proprio per dimostrare che è Dio compie il miracolo. "Ora perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettucci e và a casa tua". E così avvenne.Meraviglia, scandalo, ammirazione sono le reazioni dei presenti. Gesù compie un segno di potenza, un miracolo, uno dei numerosi miracoli che accompagnano l'inizio della sua missione e fanno scoprire con gioia e con speranza che Dio è vicino. Tutti si meravigliavano e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto niente di simile!"Per Gesù la guarigione dalla malattia è segno della guarigione del cuore. Egli compie le profezie che annunciano la restaurazione del suo popolo, il ritorno alla vita, qualcosa di radicalmente diverso. Così diceva il testo di Isaia nella prima lettura: "Ecco, faccio una cosa nuova∑ Io, cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati". Dio esprime la sua potenza nella misericordia, nel perdono.Prima la pace con Dio: i peccati sono distrutti, cancellati, non più ricordati. Poi la riconciliazione con se stessi e con gli altri e con le cose.E' la salvezza offerta da Dio mediante il suo Cristo, ma a cui deve corrispondere la fede. La fede porta ad affidarci a Dio perché colmi la nostra debolezza con il suo amore. "Dove è abbondato il peccato, è sovrabbondata la grazia". Dobbiamo imparare ad affidarci così a Dio e Lui ci guarisce come noi abbiamo bisogno di essere guariti.Il miracolo rivela la potenza e la missione di Gesù. "Il Figlio dell'uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati". Questo perdono è affidato ancora oggi nelle mani di uomini: la Chiesa, corpo vivo di Cristo, lo esercita con il ministero dei sacerdoti; lo esercita nei "segni" sacramentali (battesimo, riconciliazione, eucaristia, unzione dei malati∑), in cui solo il credente sa riconoscere la forza di salvezza, pur nella semplicità e fragilità delle persone e dei mezzi.Ogni volta che accogliamo la grazia della riconciliazione, anche noi possiamo sperimentare la bellezza unica e la profondità delle parole di Gesù, rivolte a ciascuno di noi: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati": sono perdonati, non ci sono più; c'è solo l'amore di Dio e anche tu diventa amore. E' una cosa secondo verità coltivare il senso giusto del peccato, riconoscerci deboli, fragili, peccatori; che facciamo come dice S. Paolo "vedo il bene che voglio e faccio il male che non voglio". Se mi presento a Dio come sono, cioè malato, Lui potrà guarirmi. Ma se presumo di non aver bisogno di nulla, Lui non vedrà la mia fede, lui non potrà operare i suoi prodigi. Ma se sono sincero non farò fatica a scoprire tutte le mie mancanze nella fede, nell'amore al Signore, nell'amore al prossimo, nella mia pigrizia e nel mio egoismo, nell'attaccamento alle cose e agli interessi materiali, nella mentalità e nel comportamento mondano che mi prende da ogni parte. Davvero ho bisogno, tanto bisogno del perdono e della grazi di Dio: "Ti sono rimessi i tuoi peccati".Riconosciamo con gioia nell'Eucarestia di oggi l'amore misericordioso che ci è venuto incontro come forza creatrice di novità, che libera dalla paralisi del cuore e dello spirito."Alzati" dice Gesù al paralitico che "giaceva"; ed egli "si alzò":Il perdono e la guarigione sono un segno del mistero di morte e resurrezione che attraversa tutta la vita di Cristo e dei suoi fedeli: Egli che ha voluto giacere come noi nella morte, si è rialzato nella resurrezione perché anche noi ci rialzassimo e vivessimo da risorti.Peccatori perdonati, che non ricordano nevroticamente le loro colpe passate, ma gioiosamente "ricordano" la salvezza ricevuta, possiamo pregare il Padre animati dallo Spirito nuovo che Cristo ci ha donato. Uniti a Cristo "attraverso di Lui sale a Dio il nostro "Amen" (il nostro sì) per la sua gloria". Sale a Dio la nostra vita rinnovata, il nostro cammino spedito, come il cammino meraviglioso di colui che era stato paralitico.