giovedì 4 aprile 2024

07 Aprile 2024 – II DOMENICA DI PASQUA


Gv 20,19-31 
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli rinchiusi nel cenacolo. Nella prima, avvenuta in assenza di Tommaso, Egli lascia intuire le conseguenze del “vedere” il Signore nella propria vita; nella seconda, alla presenza di Tommaso, fa capire che “vedere” il Signore è un fatto strettamente riservato, personale: nessuno infatti può in alcun modo sostituirci nel toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo dentro di noi: è una esperienza intima, che ciascuno deve fare personalmente. 
I discepoli, dopo la morte di Gesù, pensando che: “Se hanno ucciso Lui, sicuramente uccideranno anche a noi!”, si sono barricati nel cenacolo. Vivono le giornate in preda al panico, segregati da tutti, a porte sprangate. Quelle “porte chiuse”, in un simile contesto, sembrano indicare il loro stato d’animo: non vogliono più saperne di Gesù, hanno paura, vogliono dimenticare tutto, vogliono tornare alla loro quotidianità, alla vita di prima.
Certo, in precedenza hanno sperimentato giorni indimenticabili con Gesù: sono arrivati anche a credergli, a seguirlo con entusiasmo, ma la tragedia delle ultime ore ha infranto ogni loro sogno: l’unica possibilità è quella di rinunciare a tutto e di tornare nella tranquillità dell’anonimato.
La paura è un sentimento irrazionale che costringe spesso l’uomo a fare scelte estreme: è infatti per paura che talvolta anche noi voltiamo le spalle a Dio, alla nostra fede: non ce l'abbiamo con Lui, anzi vorremmo che rimanesse nel nostro cuore, vorremmo conoscerlo a fondo; sappiamo bene che non è un nemico, che non vuole ucciderci, condannarci, o farci del male; ma nel nostro animo proviamo comunque una gran paura: paura in particolare di “aprirgli le porte” dell’anima, paura per quello che potrebbe trovare dentro di noi, paura di sentirci rinfacciare la perdita dell’entusiasmo iniziale, l’abbandono dei nostri doveri, delle nostre promesse; paura di finir sbugiardati per i nostri ridicoli travestimenti, per la nostra ipocrisia, per la nostra ambiguità, per i nostri grandiosi progetti fondati sul nulla.
Gli eventi del vangelo di oggi, al contrario, ci assicurano che il nostro Dio non incute terrore: è un Dio che non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Anzi, incontrarlo, è per tutti di vitale importanza, un evento assolutamente necessario, indispensabile: significa scuoterci dal nostro immobilismo, dalla nostra apatia, dal nostro nasconderci; significa rinunciare alla nostra mentalità egoistica, costruire l’esistenza sull’autenticità, scegliere solo il bene, ciò che è costruttivo, efficace, anche se costa, anche se è impegnativo, se talvolta doloroso, imbarazzante: perché significa togliere i “paletti” di protezione del nostro “ego”, significa aprire ogni serratura, spalancare tutte le porte; significa farlo entrare nelle nostre “segrete”, nella zona tenebrosa della nostra falsità, della presunzione, dell’orgoglio, dell'ignoranza, dell’inganno: in una parola nella notte fonda della nostra anima, mettendoci completamente nelle Sue mani e accettare ogni Sua iniziativa.
Tommaso non è presente a questa prima apparizione: come a dire che non è ancora pronto ad incontrare Gesù: resiste, è dubbioso, nell’incertezza non vuole aprire il suo cuore a nessuno.
Ma quando Gesù entra per la seconda volta nel cenacolo e davanti a lui ripete: “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che Egli non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno: al contrario augura pace a tutti, a ciascuno, un saluto estremamente rassicurante: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E questa volta, rivolto solo a lui, mostrandogli le ferite, dice “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani… non essere incredulo, ma credente!”. 
Perché in questo incontro Gesù mette in evidenza le sue ferite? Di fronte allo scetticismo di Tommaso, non sarebbe stato più credibile, più perentorio, più scenografico dimostrare in maniera eclatante la sua potenza, la sua gloria, la sua divinità, la sua vittoria strepitosa sulla morte, piuttosto che abbassarsi a documentare la sua identità con le prove della passione, assecondando le pretestuose condizioni di un povero diffidente?
Per una ragione fondamentale: la fede cristiana, fin dal suo esordio, doveva avere come riferimento non un Dio inavvicinabile, scontroso, incomunicabile, isolato nella sua gloria, nella potenza della sua maestosità, ma un Dio umile, rivestito di “umanità”, morto crocifisso; che per redimere l’uomo, per restituirgli la dignità perduta, ha “svuotato sé stesso”, ha rinunciato cioè alla sua divinità, assumendo la natura umana con tutti i limiti e le sue debolezze; che per amore ha accettato il patibolo della croce, sopportandone “fino alla fine” le estreme e strazianti sofferenze.
È questo il motivo per cui Gesù si presenta agli uomini senza alcuna ostentazione di potenza, senza i fasti della sua maestosità, senza i trofei delle sue vittorie, ma esibendo umilmente, amorevolmente, le sue piaghe, le sue mani forate dai chiodi, il suo cuore trafitto dalla lancia. Egli si presenta con i segni della sua passione, per rassicurare, per confortare, per accogliere e alleviare il dolore umano, per incontrare, da pari, l’umanità sofferente: Egli, alle piaghe inflittegli dalla malvagità umana, contrappone l’amore premuroso di un Padre che vuole eliminare dai suoi figli ciò che è male, che è doloroso, che impedisce loro di vivere, di crescere, di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Chiunque ha avuto personalmente la fortuna di incontrarlo sulla propria “via dolorosa”, non può che riconoscere questa verità: “È vero, mio Dio, avevo veramente bisogno di te: al tuo sguardo le mie ferite sanguinanti sono completamente scomparse. Il tuo amore mi ha ridato vita: l’unico mio rammarico è di non averti incontrato prima!”.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferendo vivere scioccamente da invalidi, con le loro ferite doloranti, le loro piaghe purulente. La loro è una vita non-vita, carica di angoscia, di rabbia, di dolore, di lacrime, di disperazione. Anche se all’esterno non traspare nulla, anche se dal di fuori tutto sembra assolutamente normale, nel loro intimo sono dominati dalla paura, dal sospetto, dalla solitudine. Non si fidano di Gesù, non vogliono ascoltare le sue parole, ignorano il suo invito, la sua amicizia, il suo aiuto: “Non temere, lo so che hai una paura folle, lo so che ti sei sbarrato in te stesso e non vuoi che io entri, ma fidati, fammi entrare nella tua paura, nei tuoi spazi ermeticamente chiusi; stai tranquillo, io vengo per offrirti soltanto amore e pace!”.
La nascita e lo sviluppo della nostra fede, come tutto ciò che ci riguarda, sono legati alle nostre personali esperienze. Il percorso che fanno gli altri, le prove che incontrano, non incidono sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri abbiano incontrato la fede è sicuramente istruttivo, ma del tutto irrilevante per il nostro percorso: perché è fondamentale, essenziale, che siamo noi stessi, personalmente, ad incontrare Dio: un incontro che si rivelerà oltretutto coinvolgente, bruciante, decisivo, al punto da farci esclamare con Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4). Ecco: le esperienze altrui, le testimonianze, i santi, la fede degli altri, non bastano: incontrare Dio è una nostra esclusiva esperienza. Che poi, ad essere concreti, non è che ciò sia un’esperienza impossibile.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, non andiamo forse per incontrarlo? Non andiamo per alimentare la nostra relazione d'amore, per stare un po’ con Lui, per “vedere” il nostro Amore? Altrimenti che ci andiamo a fare!
Molte persone dicono: “Io a Messa ci vado solo quando ho tempo, quando ne ho voglia, quando non ho niente da fare”. Errore! Esprimersi così è sbagliato, da “ignoranti”: perché quando amiamo veramente qualcuno, la cosa più importante che desideriamo è di vederlo sempre, continuamente. Una relazione d’amore ha bisogno di vicinanza continua, di incontrarsi, di vedersi, di conoscersi: ha bisogno di intimità, altrimenti che amore è?
Tante altre persone, invece, ci vanno in chiesa: ma non ci stanno con il cuore, con l'anima; non cantano, non pregano, non ascoltano la Parola di Dio; non partecipano, non si lasciano coinvolgere; sono sordi, disinteressati, chiusi nella loro indifferenza: esserci o non esserci per loro è la stessa cosa. In questo modo però è impossibile qualunque intimità con Dio, qualunque incontro, qualunque relazione. È come andare a far visita ad una persona amata e non parlarle, stare ammutoliti, immusoniti, non interessarsi a lei. Che amore è? Che rapporto è?
Allora, ogni volta che ci raduniamo nel nostro “cenacolo”, nelle nostre chiese, consapevoli di essere degli innamorati fedifraghi, comportiamoci da peccatori pentiti: mostriamo al Signore le nostre “ferite”: inosservanze, incomprensioni, egoismi, liti, giudizi maligni, relazioni sbagliate; ferite doloranti da cui sentiamo il bisogno di guarire, di disintossicarci: mettiamoci umilmente ai piedi di Gesù, entriamo un istante in noi stessi, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo la sua voce dolce e suadente: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”.
Mostriamogli anche noi il “costato trafitto”, le ferite profonde del nostro cuore, del nostro io, della nostra dignità, del nostro onore, dell’essere rifiutati dagli altri, traditi, incompresi, umiliati, evitati. Sono sensazioni amare che corrodono la vita, ci destabilizzano, ci umiliano: l’aver fallito nella vita, nel matrimonio, nel lavoro, nell'educazione dei figli; l’aver umiliato, usato, ingannato il prossimo; l’essere superficiali, trasgressivi, incuranti di migliorare, di maturare spiritualmente. Offriamole, tutte queste nostre ferite, proprio perché dolorose, alla misericordia divina. E aspettiamo umilmente il balsamo delle parole di Gesù, cariche di amore, di comprensione, di condivisione: “Pace a te; ci sono io con te, non disperare; fatti coraggio, risorgi, fermati qui un momento a riposare con me. Io ti amo così come sei: posso guarirti, ma solo se anche tu lo vuoi; anche se ti senti debole, insicuro, tu puoi comunque seguirmi, perché non sei solo, saremo insieme, io e te, ad affrontare la strada: stabilisci tu la lunghezza del passo, io non ho fretta, ti aspetto, e se cadi ancora, ti prenderò in braccio. Ti amo e continuerò sempre ad amarti, in qualunque situazione, perché io ho bisogno del tuo amore!”.
Sono parole preziose, importanti, sono di Dio, sono quelle di cui abbiamo bisogno, quelle che ci ridanno pace, fiducia, amore, forza per rialzarci e ripartire rinvigoriti.
Ecco, questo è un nostro semplice, umile, “incontrare” Gesù: facciamolo ogni domenica; facciamo questa esperienza di risurrezione con Lui, col Risorto. Incontriamolo, assicuriamogli la nostra buona volontà, il nostro amore, la nostra riconoscenza: e diciamogli convintamente che senza di Lui, senza la sua vicinanza, senza il suo aiuto, senza il suo amore, è veramente impossibile vivere. Amen.

  

giovedì 28 marzo 2024

31 Marzo 2024 – PASQUA DI RISURREZIONE DEL SIGNORE


Gv 20,1-9 
Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Pasqua è il centro focale della nostra fede cristiana: Cristo è risorto dai morti. 
Una festa però che, in genere, non coinvolge molto la gente. A differenza del Natale. Il Natale è più seducente: un bambino che nasce fa tenerezza a tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama di più.
La Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia, la crocifissione e la morte di Gesù, seguita dopo tre giorni dalla sua risurrezione, la vittoria sulla morte: ma per quanto la conclusione sia esaltante, ci lascia comunque abbastanza freddi e indifferenti.
Ma cosa significa questa “resurrezione”? È una parola che deriva dal latino “resurrectio” (in greco νστασις) che vuol dire “rialzarsi”: è il movimento di una persona distesa, immobile (morta) che si ri-alza, ritorna cioè a vivere. In pratica avviene un cambiamento di stato, di direzione, dalla morte alla vita.
Storicamente, cos’è successo? Dopo che Gesù venne arrestato e condannato, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in Galilea, alle loro case. Solo alcune donne, tra cui Maria sua madre, trovarono il coraggio di rimanere ad assisterlo fino alla crocifissione e morte.
I discepoli vissero questa tragedia come un fallimento personale: si sentirono finiti, morti dentro; di fronte agli scherni di quanti li avevano messi in guardia su Gesù: “Come fate a fidarvi di quel pazzo? È un eretico, un senza-Dio!”, dovettero convenire ammettendo la propria sconfitta: “Avevate ragione!”.
Ma poi successe il grande, l’imprevedibile miracolo della resurrezione: quella esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquista tutta la sua attualità: improvvisamente essi cominciano a sentire vivo, potente, dentro di loro quel Gesù che tutti davano per morto: lo sentono nuovamente presente nella loro vita, in maniera inequivocabile, indiscutibile. E come se non bastasse, “lo vedono” chiaramente, senza alcuna possibilità di errore. Quei discepoli che il venerdì santo erano disperati, fuggiti in preda alla paura e al terrore, dopo appena cinquanta giorni sono pronti ad annunciare ovunque Gesù risorto, vivo, Signore del mondo. E per lui finiscono in prigione, per lui vengono derisi, umiliati, percossi; per lui sono pronti a morire, cosa per molti di loro avviene realmente: sono spinti da un fuoco nuovo, inestinguibile, da una nuova forza interiore: nulla potrà mai più fermarli.
Tutto ciò è realmente successo, ne siamo certi: nessuno infatti potrà mai spiegare un cambiamento simile, così repentino, radicale, se non ammettendo l’improvvisa irruzione in loro di una forza soprannaturale. O sono tutti impazziti, o ciò che dicono è vero: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi, è con noi!”.
Ripercorriamo dunque l’esperienza di quella domenica mattina vissuta dai due discepoli Pietro e Giovanni: quest’ultimo, che era stato anche testimone oculare della morte e sepoltura di Gesù, ce ne descrive minuziosamente nel suo vangelo tutti i particolari: Maria Maddalena, recatasi di buon mattino al sepolcro, lo trova aperto e vuoto: preoccupatissima, temendo che qualcuno abbia trafugato il corpo di Gesù, si reca immediatamente dai discepoli, e li sollecita a correre per verificare quanto accaduto: i due col cuore in gola affrontano velocemente il percorso che li separa dal luogo della sepoltura; Giovanni, più giovane e più veloce, precede Pietro ma non entra; aspetta che anch’egli arrivi per dargli la precedenza: Pietro quindi entra per primo, ma non “vede”: chi “vede” è lui, Giovanni. È chiaro che qui “vedere” significa “credere”. Pietro, infatti, nel vangelo è sempre colui che vuol “vedere” con la testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Entrambi, sia la “mente” che il “cuore” poi crederanno: mentre però la mente cerca di controllare i sentimenti, di contenerli, di verificarne i contenuti, il cuore si apre immediatamente all’onda d’urto travolgente, incontenibile dei sentimenti: la mente serve per capire, per spiegare, per interpretare, il cuore è l’organo della vita: l’anima, l’amore, lo stupore, la fede, prima di tutto si percepiscono, si “sentono”, si sperimentano: poi la mente “spiega” cos’è successo.
Noi, discepoli di oggi, quando non vogliamo dare spazio alla Vita che c’è in noi, siamo Pietro, la mente, la durezza: vediamo tante meraviglie, ma è come se non vedessimo nulla, perché nulla più ci emoziona. Se però ci lasciamo travolgere dalla fede, quando vediamo e “accettiamo”, quando vediamo e “crediamo”, allora diventiamo immediatamente Giovanni, l’amore, il cuore, il sentimento.
Quando parliamo con una persona cara, guardiamola allora negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto le parole che dice, ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua gioia, la sua meraviglia, il suo amore. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte le nostre preoccupazioni, ascoltiamo il battito del nostro cuore: e allora potremo percepire, forte e chiara, la presenza e la voce di Colui che abita dentro di noi.
Fermiamoci e ascoltiamoci ogni tanto: all’inizio magari sentiremo uscire da noi demoni e mostri; ma se avremo pazienza, col tempo, nella calma, nel raccoglimento, scopriremo dentro di noi una presenza soprannaturale, che si rivelerà essere una sorgente inesauribile di vita e di luce.
Resurrezione è riuscire a cogliere l’invisibile nel visibile: ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che andando oltre i limiti del materiale, riescono a cogliere la realtà del soprannaturale. Con la resurrezione di Gesù, noi affermiamo: “Dio è qui”. Dobbiamo solo cercarlo, scoprirlo, conoscerlo.
Parlando di Maria di Magdala, Giovanni sottolinea un particolare: “si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”. Apparentemente sembra una contraddizione: se infatti diciamo “di mattino”, lasciamo capire che in quel momento c’è già chiarore, luce, giorno, visibilità”; se invece diciamo “quand’era ancora buio”, sottolineiamo che è ancora “notte, buio, oscurità”: a questo punto, la Maddalena è andata al sepolcro con la luce o con il buio?
In realtà le due espressioni ripropongono perfettamente lo stesso evento: nel cuore di quella donna, in quello dei discepoli, regna ancora il buio più profondo: essi sono immersi nella notte, nell’oscurità profonda, non hanno più stimoli di vita: senza la presenza di Gesù, del loro maestro, non riescono più a pensare ad un loro domani; improvvisamente però quelle tenebre vengono disperse da una Luce abbagliante, dallo splendore sfolgorante della risurrezione: è Gesù, il “Sol invictus”, che restituisce loro la chiara visione della Vita.
Un repentino cambiamento che Giovanni lascia chiaramente intendere: un cambiamento che deve essere di conforto e di particolare insegnamento per noi: perché ogni volta che ci smarriamo, che vediamo nero, che crolliamo in noi stessi pensando di aver raggiunto un punto di non ritorno, è in quel momento che la nostra mente si apre e percepiamo qualcosa di nuovo, di positivo, di qualcosa che sta per nascere; qualcosa che ci pone su di un livello decisamente superiore, che ci offre la possibilità di fare un salto di qualità, di crescita, di decisiva evoluzione: ebbene, quel “qualcosa” che emerge confortante dalle nostre macerie, si chiama “fede”.
Avere fede significa infatti “fidarci” di Dio: credere cioè che quanto di grave, di imprevedibile possa succederci nella vita, non è mai in assoluto un male, un fatto puramente negativo, ma è un’opportunità che Dio, nella sua bontà, ci offre per plasmarci, forgiarci, purificarci, mettendo a nudo le nostre debolezze, i nostri errori. Tutto ciò che ci succede, pertanto, ha sempre un valore positivo, a fin di bene: certo, a volte è doloroso, duro, incomprensibile, per niente piacevole, ma è sempre un invito spiritualmente valido, perché ha lo scopo di rimetterci nella giusta direzione.
Se rimaniamo ad un livello razionale, come è successo per gli apostoli, il venerdì santo diciamo: “Che disastro! Gesù è morto! Tutto è finito!”. Ma se compiamo il “salto” di fede, la domenica di Pasqua esclameremo gioiosi: “Gesù è morto per redimerci, per la nostra salvezza; oggi Lui è risuscitato e continuerà a proteggerci: Dio sia lodato e ringraziato!”.
Dal punto di visto materiale, una crisi è sempre “buio pesto”, è sempre distruttiva, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è sconfortante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo anni di lavoro e di sacrifici, è destabilizzante. Se però facciamo il salto di qualità, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto diventa resurrezione, tutto è vita. Qualunque evento grave, per quanto grave sia, per quanto ci sprofondi nel buio più totale, se affrontato con gli occhi della fede, diventa “luce”, diventa vita, forza, conforto, coraggio, diventa resurrezione”.
Ma praticamente, per la nostra vita cristiana, in cosa consiste questo “salto di qualità”? Prima di tutto nell’esercizio della “carità”: non dobbiamo cioè inveire e reagire sempre contro gli altri: se l’esistenza ci chiude qualche porta in faccia, se quanto ci succede è sempre insoddisfacente, gli altri non sono per principio i responsabili di tutto il male del mondo; soprattutto non sono peggiori di noi: sono anch’essi figli dello stesso Padre, sono nostri fratelli; sono soltanto “diversi” da noi, non sono noi: seguono vie di perfezione diverse, hanno tempi di crescita e maturazione diversi: forse noi siamo chiamati a “lavorare” nella Vigna di Dio fin dalla prima ora, loro magari all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci a fine giornata davanti allo stesso proprietario, a nostro Signore. Le accuse, le condanne non servono, ci pongono in un ruolo giudiziale che non ci compete, non è il nostro. Dobbiamo invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta prospettiva. Dobbiamo cioè vivere i nostri giorni certamente da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative sempre nuove, ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Dobbiamo imparare a guardare sempre al di là del momento presente, dobbiamo imparare a guardare il “domani”, perché è su di esso che dobbiamo lavorare, perché è in esso che verrà valutato il grado della nostra maturazione. Prima o poi quel “domani” arriverà, e la morte ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro. Inutile protestare, inutile opporsi: “No, non voglio. Ho ancora troppe cosa da fare qui. Non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi: non abbiamo appigli sindacali o avvocati del lavoro cui appellarci. Allora capiremo alcune ovvietà: che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo avuto soltanto in “concessione”, in “affidamento temporaneo”; con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli. Ma se saremo “ricchi” di povertà, di umiltà, di fede, risorgeremo con Dio, nella gloria dei santi. Amen.

  

giovedì 21 marzo 2024

24 Marzo 2024 – DOMENICA DELLE PALME


Mc 14,1-15,47 - 
La passione del Signore (passim...) 
Al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici» […]. I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. […] La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». […] Condussero Gesù al luogo del Golgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. […] Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». […] Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme. […].

Nel racconto della Passione, riviviamo la storia di un “uomo” perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Un amore “folle” che lo ha portato ad accettare la morte come conseguenza estrema. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con intensità, amando, piangendo, commovendosi; interessato a chiunque lo avvicinava, acceso ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Soprattutto una vita di fedeltà: Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo, per tutto ciò che vive; fedele, in particolare, al suo grande amore per Dio, suo Padre, il quale, è sempre con Lui, al suo fianco, anche quando tutto, alla fine, sembra già finito, quando tutto “è compiuto”.
Il testo della Passione è la storia di quest’uomo fedele a sé stesso, al proprio cuore, innamorato di Dio, suo Padre, e degli uomini in attesa di essere salvati.
Ripercorriamo insieme alcune scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci vengono proposte oggi dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la forza per compiere il nostro cammino fino in fondo, per vivere con passione la nostra vita; possiamo rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono coinvolti nel racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura.
In loro possiamo rivederci, ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono delle immagini profonde, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi, in ogni uomo.

L’unzione di Betania (14, 3-9)
Due giorni prima della crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava, in genere, soltanto in occasioni solenni, anche perché il valore dell’unguento era molto elevato, stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un gesto di assoluta bontà. Del resto cosa può fare questa donna per Gesù? Nulla. In che modo lo può aiutare? In nessun modo. Può forse attenuare la delusione, l’angoscia per la fine, che Gesù vive in cuor suo? No. Questa donna non può fare proprio nulla: ma può amarlo. E così le sue mani, delicatamente, sfiorano, massaggiano, accarezzano, il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi ami, lasciate che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore! Quando non possiamo fare più nulla, possiamo sempre amare, prenderci cura, assicurare la nostra presenza, stare silenziosamente vicini. Quando non possiamo fare più nulla, non ci rimane che amare: questo è sempre in nostro potere.

Giuda (14, 10-21).
Come è possibile che uno di quelli che seguono Gesù da vicino, che dicono di amarlo, lo abbia tradito? Come è possibile che uno di quelli che per Lui hanno abbandonato tutto, lo abbia consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro. Purtroppo, cosa non si fa per denaro! Per denaro siamo pronti a vendere, a volte, quello che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore, la nostra anima, l’affetto, il nostro tempo. E quando abbiamo perso tutto, cosa ci rimane? Il vuoto! Chi insegue il denaro, le ricchezze, il benessere materiale, finisce spesso come Giuda, che disperato si impicca. Il denaro è una illusione affascinante ma effimera: quando si è convinti di avere tutto, di potere tutto, ci accorgiamo di non avere nulla: non abbiamo amato, non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito un sogno fatuo, un’apparenza impossibile, un impegno inutile. È la morte.

L’eucarestia (14, 22-25).
Il sinedrio furente ha già deciso di condannare Gesù, proprio quando, durante la cena pasquale, Egli offre la sua vita in dono d’amore e di pace: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato per sfamare molti. Voglio che la mia vita sia come il grano che, macinato, diventa alimento, vita, sicurezza per l’umanità. Voglio che dalla mia morte, tutti riacquistino vita. Voglio che la mia carne straziata, il mio sangue versato, la mia vita, diventino forza, alimento, sicurezza, rinascita per l’umanità intera”. Con queste motivazioni Gesù affronta la sua atroce sofferenza. Non gli verrà tolta, né alleviata: nulla percettibilmente cambierà. Ma da quel momento tutto cambierà, tutto sarà diverso: ora tutto è chiaro, tutto acquista un suo significato. Da oggi anche il nostro dolore, le nostre sofferenze acquistano un valore, una loro nobiltà. Ora anche noi sappiamo che per portare frutto, il “seme” deve cadere per terra, deve morire. Cosa poteva donarci di più Gesù? Non ci ha lasciato soltanto belle parole, bei miracoli, bei discorsi: Gesù ha donato sé stesso, ci ha fatto dono del suo immenso amore. Questo è il vertice della vita. Perché l’amore vero è donarsi, sempre, completamente, fino alla fine, senza alcuna riserva. È questo infatti che noi celebriamo in ogni Eucaristia: l’Amore donato. E ogni qualvolta doniamo amore, noi celebriamo una Eucarestia.

Il Getsemani (14, 26-42).
Gesù prega: avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non si comporta come se fosse un disperato, abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo Padre. Anzi, Gesù lo prega il Padre, c’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Gesù però è terribilmente angosciato per quanto sta per accadergli, ha paura. È l’angoscia per un supplizio che si prospetta terribile; l’angoscia per sentirsi tradito dai suoi amici; la paura di fallire il suo compito: Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma nel suo intimo tutte le paure, tutti i mostri contrari si materializzano. Qui, nel Getsemani, la solitudine lo invade. Nessuno dei suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, gli rimangono vicini. Dormono, non capiscono, non colgono la profondità, il dramma, la gravità di quanto sta per accadere. Vivono in superficie, addormentati, anestetizzati, talmente presi dalle loro cose, dalle loro miserie, che non “notano” la tragedia che incombe anche su di loro. Come possono dormire, ad essere tranquilli, in simili momenti? Gesù, debilitato nella sua natura umana, moralmente ferito, bisognoso di aiuto, li implora: “State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono: è solo. Nessuno gli è più vicino; nessuno lo comprende; nessuno lo consola.

Il tradimento di Pietro (14, 26.-31. 66-72).
A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è Cefa, è la “roccia”, l’uomo che ostenta sicurezza: “Anche se tutti si scandalizzeranno, io non lo sarò”. È l’uomo istintivo, l’uomo d’azione; un uomo che, come lascia intendere, non ha paura di niente e di nessuno. Eppure Pietro è ancora un debole: uno che messo di fronte alla realtà, alle proprie responsabilità, si affloscia, cede, balbetta, si ripiega su sé stesso. È un uomo che ci rappresenta molto bene: nelle nostre presunte “certezze” morali, religiose, nella nostra millantata fedeltà, nella nostra tracotanza interiore: “Gli altri possono tradire, non certo io!”; uno che ci assomiglia nella banalità dei nostri giudizi, nella superficialità dei nostri ideali. Nonostante ciò Gesù lo perdona; anzi lo ha già perdonato prima ancora che tradisse, lo ama sempre e comunque malgrado i suoi voltafaccia: di questo però egli se ne renderà conto soltanto quando capirà che l’amore di Dio è più grande di qualunque nostro fallimento, di qualunque nostro errore. Dio non chiede a nessuno di essere “perfetto” ad ogni costo; ci chiede semplicemente di essere “umani”, di essere consapevoli della nostra debolezza, dei nostri limiti, dei nostri sentimenti, delle nostre paure, delle nostre fragilità. Ogni volta infatti che, sopravvalutandoci, ci consideriamo superiori, inattaccabili, solidi, incorruttibili, puntualmente ruzzoliamo per terra, dimostriamo nei fatti la nostra inconsistenza, la nostra instabilità mentale. Noi cristiani, come Pietro, siamo purtroppo assolutamente inaffidabili: di fronte al pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene, finché ci mimetizziamo nella folla, allora è semplice per tutti seguire Gesù: quanta gente infatti lo seguiva finché parlava, finché guariva, finché sfamava! Solo pochi giorni prima era entrato in Gerusalemme tra i canti di gioia di una folla osannante che lo salutava agitando rami di ulivo e di palma. E adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando le nostre scelte diventano pericolose, compromettenti, dolorose, controcorrente, noi ci comportiamo esattamente come Pietro: con grande disinvoltura rinneghiamo la verità, facciamo finta di nulla, ci tiriamo indietro, pronti a tradire la fiducia di chiunque.

L’arresto (14, 43-52).
Osserviamo per un attimo come il manipolo di esagitati, mandati dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani si scagli contro Gesù. Va da lui “con spade e bastoni”. Giuda, uno dei discepoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”, mentre tutti, “abbandonandolo”, fuggono. È l’infamia del pregiudizio comune, della gente; l’insensatezza del “per sentito dire”, del “mi sembra”, del “qualcuno mi ha detto”. È l’infamia di chi ci percuote e ferisce senza motivo. È la falsità di chi si professa amico, di chi ci abbraccia e bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa e poi ci colpisce alle spalle. È la meschinità di chi di fronte a qualcuno in difficoltà, in pericolo, si gira dall’altra parte e se ne va: “Si arrangi, non sono affari miei”.

Davanti al sinedrio (14, 53-65).
I capi e i sacerdoti cercano qualche motivo per condannarlo a morte: ma non trovano nulla. Molti attestano testimonianze contro di lui, ma sono false, discordi, lontane dalla verità. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia e tutto il sentimento interno scoppia e sfocia in un’aggressività che giudica, che vuole ferire, che vuole punire. E non importa chi ci sia davanti; non importa cosa l’altro abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora bisogna trovare qualcuno da infangare. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che esce, giudica, uccide e si scaglia contro l’altro. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male! E non si accorgono che non sono gli altri a fare il male: sono loro, seminando il loro di male, il loro lato negativo, il loro marcio. Combattono negli altri quello che è il loro male. Ma facendo così, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.

Pilato (15, 1-15).
Gesù è stato giustiziato dai Romani? Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Anzi Lui coglie la forza, la profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i notabili giudei stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno consegnato. Potrebbe lasciarlo andare, non gli sembra che Gesù sia un “sedizioso”, uno che trama contro l’autorità imperiale, come gli è stato descritto. Lui, titolare dello “ius coërcitionis”, potrebbe fare qualcosa. Lui decide, lui potrebbe decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica cosa che gli interessa è il potere, avere meno problemi possibili, in particolare non incrinare i rapporti politici con le autorità religiose locali. Pilato sembra comandare, essere il potente; è uno, invece, intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere il potere. Sembra comandare, sembra essere lui la massima autorità giuridica, invece, è l’impotente di turno, colui che non può agire, che non può deludere i suoi pari; che non può manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa, che va dove vanno tutti. E si crede il governatore, si crede potente. Ma potente di cosa?

La crocifissione e la morte (15, 24-38).
Guardiamo la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù, sul Golgota, muoiono tutte le speranze della gente, muore chi aveva lottato con lui, chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero. Come avrà vissuto questo evento Maria, sua madre, che l’aveva accompagnato fin lassù? Come l’avranno vissuto le persone che Gesù aveva guarito? Come l’avranno vissuto la Maddalena, Zaccheo, Lazzaro e gli altri amici? E con loro i sordi che hanno riacquistato l’udito, i muti la parola, i lebbrosi la salute, i ciechi la vista, i morti la vita? Come avranno vissuto questa tragedia, cos’avranno provato nel vedere l’uomo mite e misericordioso che aveva donato loro speranza, forza, vita, appeso, inchiodato ad una croce, come il peggiore dei farabutti? Cos’avranno provato quando hanno capito che su quella croce è finito realmente il Figlio di Dio? Cosa avrà provato tutta quella folla che, sperimentando su di sé la bontà delle sue azioni, il suo altruismo, il suo amore per tutti, si era unita a lui lungo il percorso che lo portava a Gerusalemme e che, proprio per questo, al suo ingresso in città, gli aveva tributato un’accoglienza trionfale? 
Sicuramente contrarietà, dolore, rabbia: sì, perché non è stata quella “folla” che ha preteso la condanna e la “consegna” di Gesù nelle mani delle autorità religiose! Sappiamo infatti per certo che non è stata quella gente che, urlando, ha convinto Pilato a liberare un comune assassino, uno sconosciuto, un “Barabba” che con ogni probabilità non è mai esistito realmente: sembra infatti che gli evangelisti, nell’identificare una persona con quel nome, siano incorsi nell’errata interpretazione del termine aramaico “Bar-abbas”, che significa “Figlio del Padre”; un’espressione, che era molto conosciuta dalla gente che frequentava Gesù, perché Lui amava spesso definirsi in questo modo. Quel popolo, quindi, chiedeva a gran voce la libertà di “Bar-Abbas”, del “Figlio del Padre”, di Gesù, perché lo ammirava profondamente, lo considerava un profeta, il Messia inviato da Dio per risollevare le sorti di Israele, e quindi mai e poi mai avrebbe voluto vederlo morire crocifisso come un volgare delinquente.
A chi attribuire allora la vera colpa della morte di Gesù? Non a Pilato, che poteva esercitare questa “iurisdictio” solo per i “cives” romani e non per gli ebrei; non alla folla che aveva seguito Gesù e che lo voleva libero, ma unicamente ai capi dei sacerdoti e alle loro squadracce di scalmanati, nelle cui mani Gesù è stato “consegnato” innocente, senza alcuna condanna!
Sono loro i registi dell’operazione, gli organizzatori di quel tragico spettacolo di morte. Anche se in tanti, pur non condividendola, hanno comunque accettato passivamente quella tragica fine, giustificandosi in cuor loro con false, egoistiche motivazioni: per esempio Caifa, con la “necessità storica”; Pilato con la ragione politica e il mantenimento dell’ordine; Pietro con la sopravvivenza personale; i sadducei con la legge; i farisei con la religione; le persone rispettabili con la morale; i soldati con l’obbedienza e così via. Ognuno aveva i suoi validi motivi; ma erano sufficienti? O erano solo tentativi di tranquillizzare la propria coscienza? Di lavarsene anch’essi le mani?
La croce rappresenta quindi lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione dell’esteriorità, della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento, l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili: ciò che conta è il rispetto ossequioso e formale alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza. Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché per lui tutti erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva sacrifici inutili, non digiunava, non si comportava scrupolosamente nei confronti delle regole. Era molto libero, mangiava, banchettava, faceva spesso festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era fare “qualcosa”, ma fare della propria vita “qualcosa di vero”, di importante, di significativo. Gesù non reprimeva l’amore, i sentimenti umani: era amico di tutti, donne comprese; piangeva, si arrabbiava anche, una volta ha menato pure le mani. Com’era dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva; voleva che fossimo umani. Sosteneva che in noi non c’è nulla che sia indegno agli occhi di Dio, nulla da nascondere. Che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. Perché in croce tutto questo finisce.
Questa era la religione di Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma mai distrutta. Infatti Gesù-Verità è risorto, e con lui anche la speranza di poter far parte con Lui del Regno dei cieli, come ci promette la sua religione.
E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, baciamo allora con riconoscenza la nostra religione, la religione di Gesù, la religione del Padre, della Vita, dell’Amore, della Verità. Ciò che viene da Dio non può morire, non morirà mai, anche se le civiltà di questo mondo cercano in tutti i modi di annullare il suo ricordo, la sua esistenza, i suoi insegnamenti. Dio può essere perseguitato, deriso, umiliato, crocifisso, ma non potrà mai morire. Perché Dio è l’unica realtà immortale, indistruttibile, e chi si affida a Lui, vivrà in eterno! Amen.

 

  

giovedì 14 marzo 2024

17 Marzo 2024 – V DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 12, 20-33 
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire. 

Il vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Giunto a Gerusalemme, Gesù si trova in una situazione estremamente critica: deve decidere se tornare in Galilea o rimanere e andare avanti fino in fondo. Finché predicava nel territorio al nord aveva avuto sempre compito facile con i suoi avversari: la Galilea distava da Gerusalemme 15 giorni circa di cammino, e Lui sapeva che rimanendo in quella regione lontana, la sua vita non sarebbe mai stata in serio pericolo.
Ora però le cose sono cambiate: capisce che il suo momento è arrivato e deve decidere cosa fare: e Lui senza esitazioni, ma con fare risoluto (tò pròsopon estèrisen, indurì il suo volto: Lc 9,51) sceglie Gerusalemme, pur sapendo che continuare la sua missione nel Tempio, nella città “santa”, centro della religione e del potere, significava sottoscrivere la propria fine.
La vita pone tutti, ogni giorno, di fronte a situazioni difficili: e anche noi, come Gesù, dobbiamo affrontare scelte obbligatorie, che non offrono alternative, che vanno fatte necessariamente, anche se dolorose, senza possibilità di ritorno; scelte in cui siamo chiamati a dare un senso alla nostra vita, a darle con decisione una forma, a modellarla, perché anche per noi, è “giunta l’ora”, come scrive Giovanni, di “glorificare” Gesù: attenzione però, perché il verbo, “doxàzo”, che in greco significa “onorare, rendere gloria, glorificare”, nel testo giovanneo, perde quella venatura esteriore, un po’ superficiale, tipica del lodare, dell’osannare dell’elogiare una certa persona; qui acquista un significato particolare che dice: “rendere visibile la presenza di Dio”, quindi un significato più impegnativo, più difficile, in quanto coinvolge soprattutto la nostra esistenza, il nostro comportamento, le nostre opere: in pratica, ci avverte che “è arrivato il momento di “rendere evidente, visibile, trasparente, nella nostra persona, nella nostra vita, la presenza di Dio, rendendolo l’ispiratore unico, il motivo determinante delle nostre scelte. È esattamente in questo senso che Gesù glorifica il Padre: infatti nessuno mai, più di Lui, ha “reso visibile” la presenza di Dio nella sua persona: tutto il suo operare, il suo vivere, il suo insegnare, è sempre in perfetta sintonia con il Padre; l’occasione “culmine” poi di questo glorificare, avviene nella sua passione: è infatti sul patibolo della croce che Gesù “documenta” al mondo la sua “unione inscindibile” col Padre e la sua volontà, accettando di bere fino in fondo il calice della sua morte sacrificale; è infine nelle mani del Padre, che il Egli affida il suo spirito: gesto, di incalcolabile valore per noi, che li accomuna nel riversare dall’alto della croce il loro infinito amore sull’intera umanità.
“Se il chicco di grano (in ebraico bar), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Poiché la parola “bar”, in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”, è molto probabile che nel pronunciare queste parole, Gesù stia alludendo alla sua persona; Egli infatti sa perfettamente che quel “chicco di grano”, quel “bar”, quel Figlio che doveva “morire” per portare “molto frutto”, era Lui, solo Lui! In questo senso, riusciamo a capire meglio un Gesù che, giorno dopo giorno, accetta questa sua inevitabile e dolorosissima missione mortale; riusciamo anche a immaginarlo, in qualche momento, assalito dall’angoscia, dallo sgomento, scoraggiato, sfiduciato: l’uomo Gesù, come noi tutti, odia la morte, non vorrebbe morire: “Padre mio se è possibile, passi da me questo calice”; tuttavia, mai, neppure per un istante, egli ha pensato di potersi sottrarre al volere del Padre, alla sua missione: “Però non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39). Egli conosce bene la sua missione: sa di essere la vittima di espiazione, sa di dover pagare sulla croce il riscatto dell’intera umanità, per restituirle la sua originale dignità.
Ci rendiamo conto, allora, che proprio per questo, abbiamo contratto con Lui un debito incalcolabile di riconoscenza? Ebbene: c’è un solo modo per cercare di ridurlo: “glorificare” Dio; rendere cioè visibile la “presenza di Dio in noi”, fare cioè in modo che il “seme” della Parola e dello Spirito che Dio ha immesso in noi, e che noi dobbiamo far “morire”, diventino nella nostra vita, “riconoscibili, evidenti”; siano cioè determinanti per la nostra “crescita” spirituale e umana, e ci trasformino in testimoni viventi di Gesù e del suo vangelo.
È chiaro che per poter giungere a ciò, dobbiamo liberarci di molta zavorra: dobbiamo modificare le nostre priorità, avere il coraggio di fare i conti con la vita; dobbiamo cioè affrontare le contrarietà, le delusioni, le sofferenze, le sconfitte. Ma soprattutto dobbiamo far morire il nostro io esibizionista, il nostro narcisismo, il nostro egoismo: perché solo così lo Spirito ci trasformerà in Vita vera, e potremo “glorificare” Dio, testimoniandolo al mondo intero. Solo così potremo umilmente considerarci una piccola, infinitesimale cellula feconda e produttiva di quell’Amore, “donato all’infinito”, che noi chiamiamo Dio. Amen.

  

giovedì 7 marzo 2024

10 Marzo 2024 – IV DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 3, 14-21 
In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Il brano del vangelo di oggi, lezione di alta teologia, è inserito nel lungo colloquio intrattenuto da Gesù con un uomo di nome Nicodemo, un fariseo “capo dei Giudei”, personaggio importante dell’aristocrazia sacerdotale, profondo conoscitore della Bibbia, della religione: insomma un saggio del tempo, un maestro della Legge, un “pozzo di scienza”, diremmo noi oggi: un uomo però che in cuor suo sente la mancanza di “qualcosa”, percepisce che esiste qualcosa di più grande, di “oltre”, che supera i limiti del suo sapere. 
Nicodemo è un uomo che non si accontenta, egli vuole capire, soprattutto vuole vivere questo “di più”. Per questo decide di incontrare Gesù. E Gesù gli fa una proposta nuova, imprevedibile, impensabile, umanamente inattuabile: gli dice sostanzialmente che deve “rinascere”; in pratica: “Quella che tu chiami vita, io la chiamo morte, un non-vivere. Se tu abbandoni questo tuo modo di vivere, di pensare, di rapportarti, io ti farò vedere cos’è la vita vera, quella eterna, quella che non finirà mai, quella che ti riempirà, ti sazierà, ti renderà veramente, perfettamente felice”.
Concetti difficilmente comprensibili per il povero Nicodemo: ma lo sono, anche e soprattutto, per noi, in questa società smaccatamente materialista: la richiesta di lasciare tutto, di abbandonare la realtà, il corporeo, il tangibile, il verificabile; di scegliere l’incorporeo, l’immateriale, il puramente spirituale, l’invisibile; di lasciare il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto, sono tutte categorie misteriose, che incutono timore, che ci lasciano profondamente perplessi: seguirle fidandosi ciecamente, rivoluzionando radicalmente l’esistenza, richiede una forza, una convinzione, una fede difficilmente riscontrabile ieri e ancor più oggi.
Ma Gesù era così, duemila anni fa, come nel presente. Gesù è un uomo che fa sempre proposte sconvolgenti, che va contro tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Egli è davvero affascinante, attraente, perché ci presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “ci manca il fiato” tanto è intenso. Gesù è per le anime grandi, mal si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: abbiamo a disposizione infiniti esempi nelle vite dei santi, degli apostoli, dei martiri. 
Nessuno di noi ha scelto di entrare in questo mondo; il primo atto della nostra vita, le condizioni materiali in cui essa è avvenuta, non sono dipesi da noi, non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ci è stata donata una vita, è vero, ma non è questa la “nostra” vera vita.
La nostra vera esistenza coincide con la nostra “rinascita”: perché “rinascere” significa “scegliere personalmente di vivere”: non ci basta più che altri ci abbiano messo al mondo, ma siamo noi che ora, in questo mondo, decidiamo di “vivere da protagonisti”; significa: “Ci sono e voglio esserci”, ma voglio “ripartorirmi” come dico io: la prima volta l’ha fatto nostra madre, ma questa volta vogliamo farlo noi; siamo noi che vogliamo esistere: da “ex-sistere”, “venir fuori” “distinguersi”, emergere dalla massa, dal nulla; significa lasciare un segno in questo mondo, essere felici di aiutare chi non lo è, vivere in maniera appassionata. 
Tutti dicono di vivere: ma la loro non è vita, è un sopravvivere; solo i “rinati” nello Spirito, i rinati “dall’alto” vivono realmente: perché lo fanno in una prospettiva spirituale, immortale, in una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito.
Se non viviamo in questa prospettiva, rimaniamo radicati nella materialità di questo mondo; rischiamo di vivere unicamente per il denaro, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento: rischiamo cioè di trasformare tutte queste “suppellettili coreografiche” in colonne portanti della vita, di renderle nostro unico scopo di vita.
Noi invece dobbiamo sempre aver presente chi siamo realmente (figli di Dio), da dove veniamo (dall’Alto) e dove dobbiamo andare (nell’Amore di Dio): Dio non ci ha affidati ad un inesistente destino, non ci ha abbandonati a noi stessi, ma a ciascuno di noi ha assegnato un progetto ben preciso, unico, personale: una vita da vivere, da costruire, da realizzare.
Controlliamo allora, ogni tanto, il nostro work in progress, l’avanzamento-lavori della nostra “rinascita”; controlliamo attentamente cioè se la nostra vita si sviluppa nel rispetto del progetto divino.
Chi crede in lui non è condannato”, ci ricorda Giovanni: dove “credere”, per lui, significa “fare luce”, “portare luce” là dove regnano le tenebre, dove il peccato domina, dove esistono situazioni che odiano la “Luce”. Chi rifiuta la verità, chi non accetta di conoscere sé stesso, chi non vuole vivere la Vita, praticamente rifiuta la Luce e si condanna da solo.
Distogliamo allora il nostro sguardo da terra; alziamo finalmente gli occhi al cielo: purtroppo noi abbiamo lo sguardo puntato continuamente sul basso, non ci accordiamo della realtà meravigliosa che ci indica il cielo; abbiamo una visione delle situazioni, bassa, ristretta, limitata, terrena, superficiale. Siamo talmente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri piccoli fastidi personali, che non sappiamo far altro che girare a vuoto intorno a noi stessi.
Guardiamo in alto, invece! Lasciamo da parte le nostre banalità (come mi vesto, cosa mangio, la marca del nuovo telefonino, che televisore, che computer, che auto mi devo comprare…), non angosciamoci, per simili stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per simili banalità provvisorie? Guardiamo lassù.
Soprattutto quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, finiti, quando intorno a noi tutto sembra precipitare nel nulla di una vita insensata, alziamo gli occhi, guardiamo in alto!
Rivolgiamoci con fiducia a Gesù, che dall’alto della croce, ci consola, ci assicura la sua protezione, il suo amore; fissiamo il nostro sguardo su quel cuore pieno di misericordia e di bontà, che continua a sanguinare per causa nostra; soprattutto abbandoniamoci al suo amore: buttiamoci tra le braccia ferite, ma sempre spalancate e accoglienti, della Vita e dell’Amore: é questo il nostro unico rifugio sicuro; è questa l’unica possibilità che abbiamo per difenderci dai morsi velenosi e mortali dell’antico serpente. Amen.  

 

giovedì 29 febbraio 2024

03 Marzo 2024 – III DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 2, 13-25 
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 Siamo in prossimità della Pasqua, la festa ebraica per eccellenza, in occasione della quale tutti gli israeliti si recano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. È quindi, soprattutto in quei giorni che, in quel luogo, c’è un’eccezionale affluenza di persone, e di conseguenza, anche una maggior concentrazione di attività commerciali. Il pio ebreo, come pure i commercianti, sanno bene che per tale occasione la legge prescrive di presentarsi davanti a Dio, grande e onnipotente, offrendogli in sacrificio animali, oggetti preziosi, denaro, in segno di amore e di gratitudine.
La grande confusione di persone, animali, venditori, banchi, merce, che regna fuori e dentro il tempio, è quindi normale, ovvia. Come ovvia è anche la presenza dei “cambiavalute”: gli Ebrei che vengono da lontano, disponendo di monete romane con le raffigurazioni pagane dell’imperatore o degli dei, devono necessariamente cambiarle con le monete ebraiche, perché solo con queste è possibile versare alle autorità del Tempio la tassa di ingresso in denaro. Uno stratagemma che assicura ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro, trasformando addirittura il tempio in una specie di banca, quindi nel posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, tanto da far pensare che nel tempio, non si adora più Jahweh, il Dio di Israele, ma il Dio denaro, Mammona, il Dio ricchezza.
Gesù, dunque, giunto anch’egli a Gerusalemme, sale al Tempio e improvvisamente si trova di fronte al baccano di questa enorme folla di pellegrini e venditori, impegnati i primi a contrattare la merce, i secondi a richiamare urlando la loro attenzione: pertanto non all’ingresso del Tempio di Dio, ma nel bel mezzo di un mercato affollato.
Di fronte a ciò cosa fa Gesù? Si prepara una “frusta di cordicelle”, e con quella inizia a percuotere quanti stazionano alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, e incalzandoli, rovescia i banchi con la loro mercanzia, cacciandoli tutti via!
Un vangelo singolare, molto forte quello di oggi: anche perché, leggendo attentamente tra le righe, possiamo cogliere, nel comportamento di Gesù, un significato ben più profondo del voler solo “ripulire” l’area del Tempio da gente indegna: possiamo infatti vedere in prospettiva l’eliminazione, la distruzione finale del tempio di Gerusalemme, peraltro apertamente confermata con le parole: “Non resterà qui pietra su pietra che non sia diroccata” (Mc 13,2). In altre parole Gesù annulla non solo “quel tipo” di tempio, con la sua ritualità, con la mentalità che lo anima, ma introduce una nuova concezione di “tempio”, un tempio più stabile e prezioso di quello in pietra, un tempio nuovo costituito dalla sua persona che, di fronte al tentativo dei giudei di distruggerlo, lui garantiva “in tre giorni lo farò risorgere”: e Giovanni si premura di precisare: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,19-21).
Con questo tempio indistruttibile, anche il modo di rapportarsi con Dio viene completamente rinnovato, sostituito; Gesù infatti introduce una nuova immagine di Dio, un Dio fino ad allora sconosciuto a tutti: un Dio che non gradisce, né tantomeno pretende dall’uomo, “offerte” e sacrifici “cruenti”, materiali; un Dio che, cosa fino ad allora impensabile e improponibile, diventa lui stesso “offerta e sacrificio” per l’uomo: da quel momento infatti, non è più l’uomo che si priva del pane, che se lo toglie di bocca per poter compiere il suo sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si fa “pane”, e diventa “nutrimento” per l’uomo.
Di conseguenza, il Dio di Gesù mette la parola fine anche al tempo delle imposizioni divine, della paura, del rapporto “servile” con un Dio Padrone, caratterizzato da una intransigente severità e regolamentato da rigide prescrizioni di legge: Dio non vuole più essere “servito” in questo modo: al contrario sarà Lui stesso, per primo, a servire e ad amare l’uomo.
Già anticamente per bocca dei profeti, Dio aveva espresso la sua contrarietà per come venivano compiuti i sacrifici in suo onore: “Sono sazio dei vostri olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli; smettete di portare offerte inutili” (Is 1,11-13); e decretava: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6).
Gesù poi, nel suo vangelo, è ancora più diretto: se la prende con l’esteriorità e l’esibizionismo delle elemosine, con la legge puntigliosa del sabato, con le riunioni in suo nome fatte senza convinzione, con le liturgie vuote e vanesie. Dio insomma non sopporta queste cose, non le gradisce, non vuole più offerte materiali: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13; 12,7).
Del resto, che senso avrebbe mantenere la ritualità dell’antico tempio, un manufatto in pietra destinato a scomparire, quando Cristo stesso si è fatto tempio, unico e autentico santuario di Dio? “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).
Sono parole chiare, determinanti, con cui Gesù stabilisce in via definitiva l’unico modo con cui adorare Dio. Dio è Spirito, è presente ovunque: per pregarlo, lodarlo, entrare in comunione con Lui, è sufficiente che il nostro “spirito”, la nostra anima, comunichi, interagisca con Lui, non importa dove ci troviamo. Per entrare in contatto personale con Dio non serve un luogo esclusivo, un tempio unico e grandioso, impreziosito da capolavori artistici.
Il Vangelo di oggi ci porta dunque a fare qualche considerazione proprio sul comportamento dei cristiani in quegli “spazi liturgici”, destinati fin dai primi secoli della Chiesa a raccogliere le moltitudini dei fedeli per le celebrazioni comunitarie, le liturgie sacramentali. Spazi che col tempo diventeranno nel mondo delle vere e proprie meraviglie architettoniche, orgogliose dimostrazioni della religiosità del nuovo popolo di Dio.
Certo, le Chiese possono essere anche di rara bellezza, le liturgie e i canti possono estasiarci per la loro maestosa solennità, ma se in esse non partecipiamo attivamente e consapevolmente, se alla nostra voce non uniamo anche il nostro spirito, la nostra anima (“mens nostra concordet voci nostrae”, raccomandava san Benedetto ai suoi monaci!), in una parola, se non entriamo in sintonia con Dio, se la nostra partecipazione non è per nulla “actuosa”, se non condividiamo quella “agàpe”, cioè quell’amore profondo e vitale per Lui e per i fratelli, il nostro sacrificio, la nostra liturgia, la nostra preghiera, la nostra lode a Dio, rimarranno sempre un culto puramente esteriore, inanimato, sterile.
Osservando infatti la scarsa affluenza domenicale nelle nostre chiese cattoliche, molti pastori giustamente si chiedono se i cristiani di oggi sentono ancora il bisogno di frequentarle, di presentare a Dio un degno sacrificio di lode. Giusta preoccupazione: ma sarebbe forse ancor più utile chiedersi: “Ma quelli che frequentano regolarmente le nostre liturgie, le nostre messe, percepiscono realmente la concreta presenza di Dio? Quando escono dalla chiesa, provano veramente in cuor loro la pace della “sua” benedizione, la serenità del “suo” perdono, la forza della “sua” misericordia? Si sentono veramente rinfrancati, toccati, guariti, conquistati dall’amore di Dio? Escono insomma seriamente consapevoli di dover trasmettere ai fratelli una testimonianza più credibile della loro fede, della loro carità, dell’amore a quel Dio, con cui hanno appena concluso un “pretiosum et admirabile convivium” assumendo Cristo, vero Dio e uomo perfetto, sotto le specie di un po' di pane?”
In questa quaresima di conversione armiamoci allora di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte quelle icone squallide che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo, questo nostro tempio così imbrattato: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore, restituendogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, per poter rivivere con maggior partecipazione e dignità interiore, il nostro “culto” sacrificale per eccellenza, la nostra “Eucaristia”, la nostra Pasqua settimanale. Perché solo così potremo tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore gratuito e incondizionato di Dio nostro Padre.
Amen.

  

giovedì 22 febbraio 2024

25 Febbraio 2024 – II DOMENICA DI QUARESIMA


Mc 9, 2-10 
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela a tutti la sua vera natura.
Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che dobbiamo vivere come un’esperienza rigorosa, votata alla penitenza, alla conversione, al sacrificio, alla preghiera continua? Cosa significa?
La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole anticiparci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice in pratica che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita potrà un giorno diventare radiosa solo se ora siamo mossi dall’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sull’eterno e luminoso Tabor celeste, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare contemplando quelle meraviglie che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere, meraviglie che commuovono, che trasmettono sensazioni e commozioni uniche.
Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di maturità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo arido, sterile. Vuol dire, in una parola, lasciarsi “trasfigurare”.
La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: sono momenti in cui ci rendiamo conto di essere veramente amati, di essere “speciali” per qualcuno; momenti in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dai nostri Tabor, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.
Senza queste “ricariche” di Dio, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché dobbiamo permettere alla Luce, al Calore, all’Amore divini di entrarci dentro; perché dobbiamo accettare con entusiasmo che Dio ci immerga completamente nella sua Vita, che viva in noi, che ci faccia sussultare, commuovere, estasiarci, rinascere continuamente in Lui, per Lui.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico, oltre che “principio di luce” significa anche “ombelico, cordone ombelicale”. Ebbene: la nostra personale trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che ci avvizziscono la vita. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione interiori, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla, implacabile e devastante. Se invece vogliamo rinascere, se vogliamo camminare spediti verso la Luce, impediamo con determinazione che zavorre pericolose ci rallentino, ci ostacolino: il nostro taglio deve essere netto, risoluto, definitivo.
Soltanto un cordone ombelicale non va mai reciso: è quello che ci lega a Dio; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significherebbe lontananza, condanna, perdizione, morte. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare direttamente l’amore nel nostro cuore. Un canale flessibile che, per quanto possiamo allontanarci, ci terrà sempre uniti a Lui, evitando che malefici deliri ci inducano a perderci nel vuoto. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi troveremo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: perché il Dio-Amore abita stabilmente nel nostro cuore. E potremo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello stare qui con te!”.
Ma è proprio vero? È veramente bello per noi rimanere soli con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra anima, in Chiesa, nei momenti di preghiera, di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro “esserci” è frutto soltanto di stanche abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per darci delle risposte sincere, per ritagliarci nuovi spazi di silenzio, per aprire il nostro cuore a Dio con maggior sincerità e amore filiale, per ristabilire nella nostra vita una perfetta armonia con Lui.
Per farlo, come ci ordina la Voce dalla “nube”, dobbiamo “ascoltare”. Dobbiamo cioè “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, la nostra coscienza, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo insomma imparare ad ascoltare Dio con umiltà, con attenzione: è da questo che dobbiamo ripartire; perché purtroppo oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel totale disinteresse; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orribili sono le città, orribili le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono le nuove scelte di vita.
È proprio vero! L’umanità intera necessita urgentemente di “trasfigurazione”: di quella trasfigurazione vera, luminosa, autentica, divina; ha improrogabile bisogno di rivestirsi con la bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore. Smettiamola di vivere allo sbando, di ingannare noi stessi, ostinandoci ad indossare maschere demenziali di stolti e idioti pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Una scelta decisamente stolta, insensata! Amen.