giovedì 28 marzo 2024

31 Marzo 2024 – PASQUA DI RISURREZIONE DEL SIGNORE


Gv 20,1-9 
Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Pasqua è il centro focale della nostra fede cristiana: Cristo è risorto dai morti. 
Una festa però che, in genere, non coinvolge molto la gente. A differenza del Natale. Il Natale è più seducente: un bambino che nasce fa tenerezza a tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama di più.
La Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia, la crocifissione e la morte di Gesù, seguita dopo tre giorni dalla sua risurrezione, la vittoria sulla morte: ma per quanto la conclusione sia esaltante, ci lascia comunque abbastanza freddi e indifferenti.
Ma cosa significa questa “resurrezione”? È una parola che deriva dal latino “resurrectio” (in greco νστασις) che vuol dire “rialzarsi”: è il movimento di una persona distesa, immobile (morta) che si ri-alza, ritorna cioè a vivere. In pratica avviene un cambiamento di stato, di direzione, dalla morte alla vita.
Storicamente, cos’è successo? Dopo che Gesù venne arrestato e condannato, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in Galilea, alle loro case. Solo alcune donne, tra cui Maria sua madre, trovarono il coraggio di rimanere ad assisterlo fino alla crocifissione e morte.
I discepoli vissero questa tragedia come un fallimento personale: si sentirono finiti, morti dentro; di fronte agli scherni di quanti li avevano messi in guardia su Gesù: “Come fate a fidarvi di quel pazzo? È un eretico, un senza-Dio!”, dovettero convenire ammettendo la propria sconfitta: “Avevate ragione!”.
Ma poi successe il grande, l’imprevedibile miracolo della resurrezione: quella esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquista tutta la sua attualità: improvvisamente essi cominciano a sentire vivo, potente, dentro di loro quel Gesù che tutti davano per morto: lo sentono nuovamente presente nella loro vita, in maniera inequivocabile, indiscutibile. E come se non bastasse, “lo vedono” chiaramente, senza alcuna possibilità di errore. Quei discepoli che il venerdì santo erano disperati, fuggiti in preda alla paura e al terrore, dopo appena cinquanta giorni sono pronti ad annunciare ovunque Gesù risorto, vivo, Signore del mondo. E per lui finiscono in prigione, per lui vengono derisi, umiliati, percossi; per lui sono pronti a morire, cosa per molti di loro avviene realmente: sono spinti da un fuoco nuovo, inestinguibile, da una nuova forza interiore: nulla potrà mai più fermarli.
Tutto ciò è realmente successo, ne siamo certi: nessuno infatti potrà mai spiegare un cambiamento simile, così repentino, radicale, se non ammettendo l’improvvisa irruzione in loro di una forza soprannaturale. O sono tutti impazziti, o ciò che dicono è vero: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi, è con noi!”.
Ripercorriamo dunque l’esperienza di quella domenica mattina vissuta dai due discepoli Pietro e Giovanni: quest’ultimo, che era stato anche testimone oculare della morte e sepoltura di Gesù, ce ne descrive minuziosamente nel suo vangelo tutti i particolari: Maria Maddalena, recatasi di buon mattino al sepolcro, lo trova aperto e vuoto: preoccupatissima, temendo che qualcuno abbia trafugato il corpo di Gesù, si reca immediatamente dai discepoli, e li sollecita a correre per verificare quanto accaduto: i due col cuore in gola affrontano velocemente il percorso che li separa dal luogo della sepoltura; Giovanni, più giovane e più veloce, precede Pietro ma non entra; aspetta che anch’egli arrivi per dargli la precedenza: Pietro quindi entra per primo, ma non “vede”: chi “vede” è lui, Giovanni. È chiaro che qui “vedere” significa “credere”. Pietro, infatti, nel vangelo è sempre colui che vuol “vedere” con la testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Entrambi, sia la “mente” che il “cuore” poi crederanno: mentre però la mente cerca di controllare i sentimenti, di contenerli, di verificarne i contenuti, il cuore si apre immediatamente all’onda d’urto travolgente, incontenibile dei sentimenti: la mente serve per capire, per spiegare, per interpretare, il cuore è l’organo della vita: l’anima, l’amore, lo stupore, la fede, prima di tutto si percepiscono, si “sentono”, si sperimentano: poi la mente “spiega” cos’è successo.
Noi, discepoli di oggi, quando non vogliamo dare spazio alla Vita che c’è in noi, siamo Pietro, la mente, la durezza: vediamo tante meraviglie, ma è come se non vedessimo nulla, perché nulla più ci emoziona. Se però ci lasciamo travolgere dalla fede, quando vediamo e “accettiamo”, quando vediamo e “crediamo”, allora diventiamo immediatamente Giovanni, l’amore, il cuore, il sentimento.
Quando parliamo con una persona cara, guardiamola allora negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto le parole che dice, ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua gioia, la sua meraviglia, il suo amore. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte le nostre preoccupazioni, ascoltiamo il battito del nostro cuore: e allora potremo percepire, forte e chiara, la presenza e la voce di Colui che abita dentro di noi.
Fermiamoci e ascoltiamoci ogni tanto: all’inizio magari sentiremo uscire da noi demoni e mostri; ma se avremo pazienza, col tempo, nella calma, nel raccoglimento, scopriremo dentro di noi una presenza soprannaturale, che si rivelerà essere una sorgente inesauribile di vita e di luce.
Resurrezione è riuscire a cogliere l’invisibile nel visibile: ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che andando oltre i limiti del materiale, riescono a cogliere la realtà del soprannaturale. Con la resurrezione di Gesù, noi affermiamo: “Dio è qui”. Dobbiamo solo cercarlo, scoprirlo, conoscerlo.
Parlando di Maria di Magdala, Giovanni sottolinea un particolare: “si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”. Apparentemente sembra una contraddizione: se infatti diciamo “di mattino”, lasciamo capire che in quel momento c’è già chiarore, luce, giorno, visibilità”; se invece diciamo “quand’era ancora buio”, sottolineiamo che è ancora “notte, buio, oscurità”: a questo punto, la Maddalena è andata al sepolcro con la luce o con il buio?
In realtà le due espressioni ripropongono perfettamente lo stesso evento: nel cuore di quella donna, in quello dei discepoli, regna ancora il buio più profondo: essi sono immersi nella notte, nell’oscurità profonda, non hanno più stimoli di vita: senza la presenza di Gesù, del loro maestro, non riescono più a pensare ad un loro domani; improvvisamente però quelle tenebre vengono disperse da una Luce abbagliante, dallo splendore sfolgorante della risurrezione: è Gesù, il “Sol invictus”, che restituisce loro la chiara visione della Vita.
Un repentino cambiamento che Giovanni lascia chiaramente intendere: un cambiamento che deve essere di conforto e di particolare insegnamento per noi: perché ogni volta che ci smarriamo, che vediamo nero, che crolliamo in noi stessi pensando di aver raggiunto un punto di non ritorno, è in quel momento che la nostra mente si apre e percepiamo qualcosa di nuovo, di positivo, di qualcosa che sta per nascere; qualcosa che ci pone su di un livello decisamente superiore, che ci offre la possibilità di fare un salto di qualità, di crescita, di decisiva evoluzione: ebbene, quel “qualcosa” che emerge confortante dalle nostre macerie, si chiama “fede”.
Avere fede significa infatti “fidarci” di Dio: credere cioè che quanto di grave, di imprevedibile possa succederci nella vita, non è mai in assoluto un male, un fatto puramente negativo, ma è un’opportunità che Dio, nella sua bontà, ci offre per plasmarci, forgiarci, purificarci, mettendo a nudo le nostre debolezze, i nostri errori. Tutto ciò che ci succede, pertanto, ha sempre un valore positivo, a fin di bene: certo, a volte è doloroso, duro, incomprensibile, per niente piacevole, ma è sempre un invito spiritualmente valido, perché ha lo scopo di rimetterci nella giusta direzione.
Se rimaniamo ad un livello razionale, come è successo per gli apostoli, il venerdì santo diciamo: “Che disastro! Gesù è morto! Tutto è finito!”. Ma se compiamo il “salto” di fede, la domenica di Pasqua esclameremo gioiosi: “Gesù è morto per redimerci, per la nostra salvezza; oggi Lui è risuscitato e continuerà a proteggerci: Dio sia lodato e ringraziato!”.
Dal punto di visto materiale, una crisi è sempre “buio pesto”, è sempre distruttiva, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è sconfortante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo anni di lavoro e di sacrifici, è destabilizzante. Se però facciamo il salto di qualità, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto diventa resurrezione, tutto è vita. Qualunque evento grave, per quanto grave sia, per quanto ci sprofondi nel buio più totale, se affrontato con gli occhi della fede, diventa “luce”, diventa vita, forza, conforto, coraggio, diventa resurrezione”.
Ma praticamente, per la nostra vita cristiana, in cosa consiste questo “salto di qualità”? Prima di tutto nell’esercizio della “carità”: non dobbiamo cioè inveire e reagire sempre contro gli altri: se l’esistenza ci chiude qualche porta in faccia, se quanto ci succede è sempre insoddisfacente, gli altri non sono per principio i responsabili di tutto il male del mondo; soprattutto non sono peggiori di noi: sono anch’essi figli dello stesso Padre, sono nostri fratelli; sono soltanto “diversi” da noi, non sono noi: seguono vie di perfezione diverse, hanno tempi di crescita e maturazione diversi: forse noi siamo chiamati a “lavorare” nella Vigna di Dio fin dalla prima ora, loro magari all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci a fine giornata davanti allo stesso proprietario, a nostro Signore. Le accuse, le condanne non servono, ci pongono in un ruolo giudiziale che non ci compete, non è il nostro. Dobbiamo invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta prospettiva. Dobbiamo cioè vivere i nostri giorni certamente da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative sempre nuove, ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Dobbiamo imparare a guardare sempre al di là del momento presente, dobbiamo imparare a guardare il “domani”, perché è su di esso che dobbiamo lavorare, perché è in esso che verrà valutato il grado della nostra maturazione. Prima o poi quel “domani” arriverà, e la morte ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro. Inutile protestare, inutile opporsi: “No, non voglio. Ho ancora troppe cosa da fare qui. Non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi: non abbiamo appigli sindacali o avvocati del lavoro cui appellarci. Allora capiremo alcune ovvietà: che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo avuto soltanto in “concessione”, in “affidamento temporaneo”; con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli. Ma se saremo “ricchi” di povertà, di umiltà, di fede, risorgeremo con Dio, nella gloria dei santi. Amen.

  

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