giovedì 21 luglio 2022

24 Luglio 2022 – XVII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 11,1-13 
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (Lc 11,1-13).


Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era naturale infatti, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile. Qui Gesù spiega ai discepoli, e a noi, non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.

«Quando pregate dite: Padre». “Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione. 
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Dio è proprio così, figlio mio!”. Ecco: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio. È Gesù che ci ha parlato di Dio come di un Padre. Come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è quindi uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”, ma è uno che cerca soprattutto di amare come ama Lui, con la sua stessa accoglienza. Quella dunque che ci propone Gesù è l’immagine di un Dio decisamente nuova: un Dio, a cui non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma un Dio che: “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù ci indica un samaritano, un eretico, un nemico, un maledetto, come modello di credente, poiché solo lui prova misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre il sacerdote e il levita, i religiosi per eccellenza, i puri, gli osservanti, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza esteriore, ancorché stretta e letterale, a tutta la legge (come il sacerdote e il levita) ma vuole che lo stesso amore che Lui nutre per noi, si dilati, si espanda, si riversi su tutta l’umanità (il samaritano): “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Con Gesù tutto è cambiato, rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, è Lui che ci serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:). Se le religioni ci dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù, “to eu-anghelion” - la “buona notizia”, ci dice che Dio ama spontaneamente l’uomo, aldilà di tutto e di ogni cosa. San Paolo in proposito si esprime in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 8,15). Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.  

«Sia santificato il tuo nome». Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva: noi infatti lo “bestemmiamo”, non “santifichiamo” cioè il nome di Dio”, quando nella vita sprechiamo i suoi doni; “bestemmiamo” Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; “bestemmiamo” Dio tutte le volte che i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. La vita di tante persone è una continua bestemmia a Dio perché vivono senza amore, senza ideali, ignorandolo completamente: sono futili, superficiali, banali. Allora è giusto pentirci quando bestemmiamo Dio insultandolo con le parole; ma dobbiamo soprattutto chiedere perdono e convertirci, quando con la nostra vita rinneghiamo la grandezza, la bellezza, la meraviglia delle aspettative che Dio ha riposto in noi.
Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”, per essere “santi”: qadosh, in ebraico, oltre che “santo”, indica anche “la cruna di un ago”, un “passaggio”, la “porta per entrare nella santa montagna di Dio”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, questo è quanto sappiamo di Dio. Non limitiamo Dio alla nostra mente. Dio è più grande, Dio è oltre, Dio è un'esperienza che per quanto facciamo non potremo mai scoprire, capire, conoscere interamente. Egli ci stupirà sempre, ci sbalordirà in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è il Santo, è Altro, è sempre Oltre. Questo è il mistero di Dio!

«Venga il tuo regno»: cioè si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi. In tutte le culture c’era il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità, proiettato in un tempo futuro, sconosciuto. Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Gesù al contrario non disse mai: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è con noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più vera la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando ci opponiamo alle ipocrisie, al male, alle ingiustizie, quando difendiamo la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.

«Dacci ogni giorno il pane quotidiano». Gesù, alludendo al “nostro” pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il “pane che costruisce”, un concetto tradotto in greco con “epiousion”, e in latino con “supersubstantialem”; un pane quindi che va ben oltre il semplice “alimento quotidiano”, il pane del fornaio: chiediamo a nostro Padre un qualcosa di superiore, di soprannaturale, di decisamente più importante: chiediamo cioè quell’unico “pane sostanzioso”, quello vero, in grado di nutrire l’anima.
Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di alimentare l’anima: un po’ di intimo silenzio, un confronto profondo con noi stessi, su di noi, sulla nostra vita; un pensiero su Dio, sui nostri rapporto con Lui; una breve lettura della Parola, un buon testo che ce la commenti, che ci insegni qualcosa, che ci faccia riflettere; un po’di preghiera silenziosa, di intimità spirituale; un momento insomma che ci faccia sentire a casa Sua, al sicuro, non da estranei, ma da figli suoi, che vogliono nutrirsi tra le Sue braccia.
In questo modo possiamo pian piano modellare la nostra vita, nutrirla, darle la forma che desideriamo. Tocca a noi scegliere questo cibo “nutriente”: non è vero che siamo impediti, che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di rifiutarci di scegliere con fermezza il “meglio”, dicendo che è difficile, che non è possibile, che la Chiesa di oggi, la società in cui viviamo, non aiutano: ricordiamoci che disinteressarci di tutto, il nostro pusillanime “non voler scegliere”, è già una scelta, che porta spesso a risultati deleteri! Non è vero che una cosa vale l’altra: a pranzo, in tavola, una pietanza non vale l’altra, non è la stessa cosa; e se non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana del corpo stiamo molto attenti a scegliere i prodotti delle migliori marche, perché non dovremmo farlo anche per l’igiene della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Allora evitiamo di prelevare dagli scaffali della vita la prima cosa che ci capita davanti, ciò che è più comodo, più a portata di mano; scegliamo e decidiamo noi quella che fa veramente bene alla nostra anima. Siamo noi che dobbiamo costruire la nostra vita, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi gli unici artefici, gli assoluti protagonisti; siamo pertanto noi che dobbiamo dire “sì” ad un “cibo” salutare, sano, che ci fa bene, che ci fa crescere, e dire “no” ad un altro del tutto scadente, dannoso per la nostra salute. Siamo noi, solo noi, nessun altro! 
Dobbiamo agire intelligentemente in questo: se infatti invertiamo l’ordine delle consonanti alla parola “lehem” (pane) otteniamo la parola “meleh”, che significa “sale”, “saggezza”: ecco, chiediamo allora a Dio anche quella “saggezza” che ci guidi nella scelta del nostro pane quotidiano, di quel pane substantialem, che ci rende forti, robusti, penetranti nei confronti della vita e di Dio, nostro Padre; quella stessa “saggezza” che poi sicuramente ci renderà anche “salati”, sapidi, gustosi, pieni di senso e di significato, nei confronti dei nostri fratelli.

«E perdona a noi i nostri peccati…» Il “pane” (lehem) e la “saggezza” (meleh), diventano anche “perdono(mahol). Anche il perdono è quindi il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che abbiamo fatto e continuiamo a fare, la forza di perdonare quanti ci fanno del male. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Dobbiamo perdonare gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che prò continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che possano pensare così, accettare di essere feriti? “Perdono” in ebraico si dice anche “kafor”, che vuol dire “ricoprire la ferita”. “Kafor” allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono. 
Il perdono deve essere il nostro “habitus” di tutti i giorni, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.

«… anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Noi possiamo condonare, possiamo perdonare tutto ai nostri fratelli, se noi stessi abbiamo fatto esperienza di perdono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta! Chi non condona, chi non elimina qualunque contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “perdonare”.

«Non abbandonarci alla tentazione». Ritengo più corretta e pertinente la versione letterale “non introdurci, non immetterci nella tentazione”, rispetto alla formula impostaci di recente che non traduce con fedeltà il testo originale, ma ne offre una fantasiosa interpretazione: è vero che anche il precedente non indurci in tentazione” non rendeva il senso letterale del testo: sia il verbo greco “eisenènkes”, che quello latino “inducas”, sono categorici in proposito, esprimendo entrambi, rigorosamente, lo stesso identico concetto, cioè “non introdurci, non portarci dentro, non farci entrare nella tentazione”; quindi un “introdurre” (in-ducere, condurre dentro) che non è il nostro “indurre” dell’italiano parlato, che esprime una connotazione negativa, nel senso di spingere, istigare, invogliare persuadere, convincere, come se Dio si divertisse, per mezzo della tentazione, a spingere, istigare, provocare il male: significato che non esiste in alcun modo nei suddetti verbi originali: inoltre, nell’Antico Testamento, il termine tentazione ha un senso diverso a quello nostro, non esprime mai una “sollecitazione”, un “invito” truffaldino a disobbedire alla nostra coscienza, un trabocchetto per farci commettere qualcosa di proibito; la “tentazione” per il testo sacro è semplicemente una “prova”, una “verifica”, una specie di “esame” che tutti prima o poi nella vita dobbiamo affrontare; una verifica che serve a noi stessi per renderci conto di quello che realmente siamo, a cosa realmente aspiri il nostro cuore, la nostra mente; nella realtà umana, quindi, la tentazione è semplicemente un passaggio obbligato attraverso cui la nostra libera volontà potrà esprimersi con le sue scelte; un evento indispensabile perché, attraverso meritate vittorie o incresciose sconfitte, progressivamente ci trasforma, ci rende più forti, più maturi, tetragoni al male, per proseguire in maniera sempre più consapevole, meritoria, positiva, sulla strada che Gesù ci ha indicato.
Non per nulla, il termine “Nahasc”, nome del serpente tentatore, di colui cioè che “gestisce” le tentazioni, 
in lingua ebraica significa ostacolo, impedimento, un qualcosa che va vinto, oltrepassato: e una volta superato, la nostra anima rifiorisce, acquista nuovo vigore, nuova consapevolezza, nuova luce, nuovo controllo, nuova fermezza. Ecco allora che il senso della tentazione è altamente positivo: Dio ci mette alla prova non per il gusto di divertirsi, di abbandonarci nelle difficoltà, ma solo per aiutarci a crescere, perché dobbiamo essere convinti di quel che facciamo, dobbiamo dimostrare a noi stessi fino a che punto siamo coerenti al nostro “si” a Dio: quanto cioè siamo con Lui sinceri.

Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”, e neppure “non abbandonarci nel bel mezzo dei marosi della vita”; Dio non tenta e non abbandona mai nessuno! Gli chiediamo soltanto di aiutarci, di non introdurci “da soli” nelle prove, di stare sempre al nostro fianco in qualunque situazione pericolosa; quasi a volergli dire: “Sai che sono debole e povero; vigila tu su di me perché le tentazioni, le prove, gli ostacoli della vita, non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che il maligno con i suoi ostacoli abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano, fa' che non cada sotto un peso troppo grande per me, aiutami sempre ad uscirne vincitore!”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente adeguata e rispettosa della misericordia e dell’amore di Dio.

Dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due serie di esempi: nella prima parte (vv. 5-8) ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in maniera inopportuna, senza riguardi, anche in modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri più cattivi, più ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà.

Nella seconda parte (vv. 9-13), ci spiega invece cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre dà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra invece di pane, un serpente al posto di un pesce, o uno scorpione invece di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non permetterà mai nulla che possa nuocerci, nulla che non sia sopportabile, superabile. Essere intimamente convinti di ciò, anche nelle prove più dure, più impensabili, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, ha un suo significato, un valore, anche se noi a prima vista noi non lo capiamo, lo rifiutiamo, o addirittura lo consideriamo una punizione, un male, una tragedia.

In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde come noi ci aspettiamo; noi cerchiamo, e Lui ci fa sempre trovare quello di cui abbiamo bisogno, anche se non sempre coincide con ciò che noi vorremmo; noi bussiamo e Lui puntualmente apre davanti a noi delle porte e delle strade, anche se non sempre sono di nostro gradimento, ma sempre e comunque sono il meglio per noi, anche se noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, che mi ama: questo mi basta, non mi serve nient’altro!”. Fidiamoci allora anche noi di Dio. Tranquillamente; perché Lui non ci deluderà mai! Amen.

  

mercoledì 13 luglio 2022

17 Luglio 2022 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


Lc 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,38-42).

 

Continuando il suo viaggio al sud verso Gerusalemme, Gesù giunge a Betania, località in cui risiede l’amico Lazzaro con le sorelle Marta e Maria. Evidentemente l’amico in quell’occasione è assente, perché il vangelo non fa alcun riferimento sulla sua presenza in casa: è infatti la stessa Marta che offre ospitalità a Gesù, il quale, stanco per il cammino, profondamente turbato per ciò che l’attende, l’accetta ben volentieri; un comportamento, comunque, che se per la nostra mentalità è assolutamente inattaccabile, in quanto espressione di un normale rapporto di amicizia e di cortesia, per quei tempi era invece improponibile e inaccettabile: anzi accettando l’ospitalità delle due donne, sembra quasi che Gesù voglia dimostrare pubblicamente la sua intolleranza per tutte quelle consuetudini, per quelle regole assurde, quelle prescrizioni apertamente stupide, che pur nella loro rigidezza insensata erano comunque tenute in grande considerazione dal popolo. Del resto Gesù non era nuovo a tali “disobbedienze”: Egli infatti aveva già ripetutamente dimostrato di non gradire l’inconsistenza, l’inutilità di questo modo di pensare e di agire, assolutamente mortificante per chiunque.

Va sottolineato in proposito, che Gesù, nella sua missione terrena, non è mai stato un “portatore di pace” come lo immaginiamo noi: noi siamo cresciuti con l'immagine di un Gesù sempre “buono e dolce”; di una persona tranquilla che non litiga mai, che cerca di evitare qualunque scontro, che non alza mai la voce, che rifugge sempre e comunque da qualunque genere di controversie proprio “ad tuendam charitatem”. Ma Gesù, come ci dimostra ampiamente il vangelo, non era affatto così. Egli al contrario per le autorità, soprattutto quelle religiose, era una spina nel fianco, rappresentava un vero punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo che puntualmente stigmatizzava la loro falsità, la loro doppia vita. Non dobbiamo mai dimenticare infatti che furono proprio i capi religiosi che decretarono la sua crocifissione non perché inculcasse nel popolo dei principi di vita “dannosi”, agnostici, inaccettabili; ma perché erano principi di vita radicalmente “nuovi”, rivoluzionari, innovatori rispetto al loro stile di vita, alla loro legislazione, e quindi pericolosi, temibili.

Ma cerchiamo, a questo punto, di evidenziare il messaggio che Gesù vuole trasmetterci attraverso questa pagina del suo vangelo: Egli dunque giunge nel villaggio di Betania: è molto stanco, provato, sia nel corpo che nello spirito e, all’invito di Marta, decide di approfittare della sua offerta di ospitalità, fermandosi a casa dell’amico Lazzaro.

A questo punto Marta, felice di avere in casa un ospite così illustre, è presa immediatamente dall’ansia, si agita, corre per la casa a controllare che tutto sia in ordine, si affretta ad imbandire la tavola, a preparargli da mangiare; vuole insomma che l’accoglienza sia perfetta in tutto. Sua sorella Maria, al contrario, non si preoccupa di nulla: fa gli onori di casa a Gesù, lo fa accomodare e, “seduta ai suoi piedi”, si intrattiene a parlare con Lui: ascolta con attenzione i suoi discorsi, si rende conto immediatamente del suo turbamento, della sua profonda inquietudine; vuole capire il motivo di queste sue preoccupazioni; vuole condividere con Lui l’ansia del suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure.

Ci troviamo quindi di fronte a due comportamenti diametralmente opposti tra loro: quello di Marta è quello classico della donna attiva, pratica, della donna “casalinga”, abituata a mettere concretamente a loro agio le persone che le fanno visita; il suo è un atteggiamento che si concentra soprattutto sull’aspetto “concreto”, “materiale”, “esteriore” dell’ospitalità. Maria al contrario è una donna sensibile, sentimentale; la sua è un’accoglienza soprattutto “emotiva”, vuole che l’ospite si senta come a casa sua, che stia bene, sia rilassato, vuole soprattutto valorizzare la “spiritualità” dell’accoglienza, dell’amicizia: lei vuole conoscere a fondo il suo ospite, vuole capire, vuole imparare dai suoi insegnamenti, dalle sue esperienze di vita; vuole farsi partecipe delle sue emozioni; un comportamento quindi, il suo, eminentemente spirituale, ascetico, contemplativo. Ed è proprio questo il comportamento che Gesù dichiara apertamente di prediligere.

Ciò ovviamente non ci autorizza a pensare che Marta sia cattiva, che sia indifferente, insensibile alla visita di Gesù; anche perché è proprio lei che per prima lo invita a fermarsi, offrendogli ospitalità. Anche Lei è affezionata a Gesù: tant’’è che lo accoglie volentieri “nella sua casa”, lo accoglie cioè nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua parte più profonda e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia qui Marta? Nel decidere autonomamente ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel momento: si mette in movimento e fa tutto di sua iniziativa; nella sua mentalità casalinga pensa di anteporre i bisogni pratici, le necessità materiali dell’ospite, piuttosto che chiedersi prima quali fossero le sue reali esigenze, magari intrattenendosi anche lei nei saluti, nei convenevoli; ha pensato quindi che fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc., tutte cose indispensabili, è vero, ma che non dovevano essere anteposte alla gioia di stare un po’ con l’amico; faccende, quelle sue, che oltretutto vanno fatte con discrezione, con naturalezza, senza farle pesare sull’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo. Gesù infatti, quando entra in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno? Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno soprattutto di essere accolto, ascoltato, rassicurato, abbracciato. Ha bisogno di parlare, di confidarsi, di condividere con qualcuno l’ansia, la paura, per la sua ormai imminente tragedia.

Marta questo non lo sa, non ha avuto modo di capirlo: anzi si lamenta addirittura con Gesù perché la sorella è seduta con Lui e non le dà una mano; lei purtroppo appartiene a quel genere di persone, tanto comuni anche oggi, che non stanno mai ferme, che sono in perpetuo movimento, che vogliono risolvere personalmente ogni cosa, distruggendosi magari in mille faccende di nessun conto: ecco perché era convinta anche in quel momento di fare l’unica cosa giusta: “Mi sto occupando io di te, caro Gesù; sono io che provvedo a soddisfare le tue necessità; io non ho tempo per le chiacchiere e le fantasie di mia sorella!”. Solo che Marta, nel suo gran daffare, non capisce, a differenza della sorella, ciò di cui Gesù ha veramente bisogno: anzi non si rende neppure conto che è lei stessa, e non Gesù, che ha bisogno di essere aiutata, capita, riconosciuta, accettata. A lei questo suo bisogno non è chiaro, non lo riconosce, non vuole ammetterlo, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse contro la sorella. Bisogna anche capirla Marta: è veramente risentita: il suo cuore ribolle dalla rabbia per come stanno andando le cose; non la sfiora alcun dubbio: Gesù si trova bene in casa sua, solo perché è lei che gli ha messo a disposizione il massimo confort; vorrebbe tanto, quindi, che Gesù le dicesse: “Ma che brava che sei! Che brava donna! Che cena squisita! Che bella casa! Hai fatto per me veramente l’impossibile: grazie di cuore!”; ma tutto ciò non succede! “E non succede, cara Marta, perché questo è solo il “tuo” bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto. Ora ti offendi, ti senti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti trascurata, perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore”.

Ecco allora l’evidente messaggio per noi: nella vita dobbiamo sempre aver presente ciò che noi vogliamo, ciò che gli altri si aspettano da noi, ciò di cui noi stessi abbiamo maggior bisogno; dobbiamo imparare a conoscere le nostre aspettative, ad esprimerle, esternarle: non possiamo proiettarle sugli altri, non possiamo pretendere che siano gli altri a capirle, offendendoci, irritandoci se ciò non avviene. Perché Marta non è stata diretta con sua sorella? Perché non le ha chiesto discretamente ma chiaramente di darle una mano? Perché ha continuato invece a mugugnare dentro di sé, senza parlarle? Perché ha inopportunamente coinvolto Gesù, cercando in Lui un alleato contro di lei?

Troppe persone sono purtroppo incapaci di affrontare direttamente le persone con le quali hanno qualche malinteso! Vanno piuttosto dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un altro non serve a nulla, se non a farci compatire e ad innescare una catena di pettegolezzi senza costrutto.

Maria, al contrario di Marta, coglie al volo il bisogno di Gesù, lo ascolta. Non è lei che parla, non è lei che decide ciò di cui Egli ha bisogno. Quando arriva, non dice una sola parola, semplicemente lo ascolta; svuota il suo cuore, fa spazio nella sua mente, perché Gesù entri e si senta pienamente accolto.

Quando dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci su come comportarci, su cosa dirgli, di quali argomenti parlare: impariamo piuttosto ad ascoltare, e poi tutto viene da sé. Non pretendiamo sempre di insegnare, di modificare tutto e tutti secondo i nostri gusti.

Facciamo come ha fatto Maria con Gesù: ascoltiamo, creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego onnipresente, creiamo spazio, perché chiunque vuole entrare possa portare sé stesso, sentirsi a proprio agio, mostrarsi serenamente per quello che è.

Il vangelo dice che Maria, nell’ascoltare Gesù, stava seduta ai suoi piedi: stava cioè a contatto con la terra (humus), sottolineando con ciò il suo atteggiamento di umile (humilis) ascolto. Ed è così che anche noi dobbiamo accogliere i nostri fratelli; dobbiamo cioè far capire loro che siamo lì con la massima disponibilità. Essi questo lo sentono, lo percepiscono subito: e in quel piccolo spazio d'amore che offriamo, essi potranno finalmente esprimere le loro paure, le loro angosce, le loro speranze, le loro necessità, le loro contraddizioni, i loro sogni impossibili; avranno insomma la possibilità di piangere e di ridere, potranno disperarsi ed essere consolati, potranno sentirsi al sicuro, protetti, capiti, amati.

Ecco perché, invece di scegliere immediatamente il ruolo di Marta, più semplice e meno impegnativo, dobbiamo immedesimarci con decisione in quello di Maria: infatti solo costruendo “amore”, il mondo diventerà migliore. Poi affronteremo anche, come Marta, i problemi del lavoro, della casa, del cibo, delle cose da fare. Prima di tutto però dobbiamo sempre assicurare carità, amore, ascolto, perché sono le cose più importanti di cui il mondo ha bisogno: sono questi gli elementi essenziali che evitano a noi, insensibili, egocentrici, accartocciati nelle nostre aridità, di morire definitivamente dentro. Amen.

 

 

mercoledì 6 luglio 2022

10 Luglio 2022 – XV Domenica del Tempo Ordinario


Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa così».

  

Il vangelo di oggi si concentra, con la parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento puramente provocatorio di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in difficoltà Gesù, l’unico vero “maestro”. Che costui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di voler creare una discussione tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.

Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: troviamo insomma lo stesso verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.

La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente quell’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti ritieni tanto sapiente, tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.

La sua, oltretutto, è uno degli interrogativi classici che la gente comune, non particolarmente religiosa, si pone in cuor suo: gente cioè il cui principale scopo della vita non è certo quello di amare e onorare Dio e il prossimo, con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutte le vibrazioni del loro cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante è al massimo quella di trovarsi “in regola”. Nessuno di queste persone, in pratica, cerca veramente Dio, nessuno cerca l’altro, nessuno cerca di “vivere” veramente. Ciò che conta è la semplice osservanza delle regole, di “tirare avanti alla meno peggio”. Una domanda, quella del dotto ebreo, che oggi potrebbe suonare più o meno così: “Gesù, cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa suggerisce la Chiesa?”. Una domanda che, se posta diversamente, con umiltà e sincerità, sarebbe stata sicuramente lecita e lodevole. Ma Gesù non cade nel tranello del suo provocatore, capisce bene dove lui vuole arrivare; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; l’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, gli risponde a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: osserva la legge, e otterrai sicuramente la ricompensa che essa prevede”. Chiuso. Tutto chiaro!”.

Ma l’esperto legale non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.

E qui Gesù lo mette in difficoltà, gli confonde completamente le idee: questa volta, per capire la sua risposta, bisogna avere una mentalità ben diversa da quella legale, giuridica, chiaramente fredda, statica, razionale. Il “dottore della legge” non avrebbe mai potuto capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità; per lui tutto si riduceva a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni, per cui il “prossimo” poteva essere soltanto un famigliare o al massimo un concittadino. Gli altri no, erano esclusi! Quindi esattamente agli antipodi dell’insegnamento di Gesù, per il quale l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, ovunque, con chiunque, punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che gli ordina di amare, non la legge!

Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico di quei poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla politica, dalla loro religione. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!

Il dottore “della legge” non può capire questo linguaggio. Per cui Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.

Un racconto molto attuale e realista per quel tempo: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, era purtroppo nota per la sua pericolosità, con frequenti agguati, rapine, imboscate. Sarebbe stato preferibile evitarla, ma un uomo, non potendo fare altrimenti, sfidando sorte e pericoli, decide di percorrerla: purtroppo, per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto, abbandonandolo sulla strada mezzo morto, solo con sé stesso, con nessuno che potesse soccorrerlo, aiutarlo. A chi avrebbe potuto ricorrere quel poveretto? Chi chiamare? Su chi poter fare affidamento per essere soccorso? È logico pensare che egli abbia rivolto il suo primo pensiero ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, ad un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, fa capire Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi una cosa simile, non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri” nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo sulla base del proprio “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può considerarvi come “prossimo” e correre da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”.

Questo è quanto in pratica ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita della vostra anima. Se non state attenti, il ruolo vi distacca da voi stessi, dalla vostra sensibilità, da ciò che avete dentro; non vi ascoltate più; coerenti col ruolo, continuate a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siete più voi che sentite e decidete, ma è il vostro ruolo che sente e agisce per voi in maniera automatica”. Parole sacrosante: come dobbiamo comportarci allora nella pratica?

Spersonalizziamoci: evitiamo cioè di pensare sempre, in qualunque situazione, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli della vita.

Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il buon samaritano.

Egli non ha maschere o ruoli da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.

In tre, sacerdote, levita e samaritano, passano per la stessa strada; tutti e tre vedono l’uomo ferito: ma solo del samaritano il vangelo sottolinea un particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che colpisce, che fa addirittura soffrire, che fa vibrare, che scuote completamente: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.

Come poteva quell’uomo tirare dritto? Come poteva quel samaritano far finta di niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: al contrario dei cuori del sacerdote e del levita, che erano morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.

Non “sentire” il cuore, significa pertanto essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe chiedere loro: “Sensibili come? fino a che punto?”. Perché se sentiamo rumori di 140 decibel (il motore delle auto da corsa), non significa “essere sensibili”, ma più semplicemente non essere completamente sordi: ma come la mettiamo con quelli al di sotto dei 10 decibel, come il respiro umano? Impariamo ad affinare sempre più la nostra “sensibilità”; impariamo ad avvertire sempre più nitidamente anche la voce impercettibile dei nostri fratelli, del nostro prossimo bisognoso. Non dimentichiamoci mai, in proposito, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; e soprattutto rimaniamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.

  

mercoledì 29 giugno 2022

03 Luglio 2022 – XIV Domenica del Tempo Ordinario


Lc 10,1-12.17-20

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”».

  

Tutti gli esegeti concordano nel dire che queste parole non appartengono personalmente a Gesù, pur riflettendo scrupolosamente il suo pensiero: sono invece di Luca, il quale, dopo l’ascensione di Gesù in cielo, di fronte a nuove problematiche sorte tra i discepoli, avrebbe fatto risalire direttamente alla sua voce questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, in cui avrebbe condensato, appunto, le sue paterne sollecitazioni rivolte ai suoi. Nel particolare momento storico in cui Luca riporta questo testo, dunque, Gesù non c’è più: spetta quindi ai discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione e nella catechesi, per assicurare a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio. E per farlo, bisogna dotarsi anche di un nuovo stile operativo.

Sono parole, infatti, che esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per la nuova situazione che si era venuta a creare improvvisamente nella Chiesa nascente: l’urgente necessità di trovare nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”.

C’è, in pratica, urgente bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato al suo commiato da questo mondo: uomini in grado di seguire il suo esempio, soprattutto nel parlare, a suo nome, al cuore della gente. La loro è infatti una missione molto particolare: non servono discorsi didattici altisonanti, dottrinalmente perfetti; non devono dimostrare la bellezza letteraria, l’importanza, il valore del Vangelo che devono annunciare; le loro parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad amare quel “lieto annuncio” di Cristo, e soprattutto imparare a seguire la sua persona, a seguire cioè l’autore di quel Vangelo, Colui che con infinito amore, ha sacrificato sul patibolo della croce la sua vita, per la salvezza dei popoli.

Cosa devono fare, allora, questi nuovi “settantadue”, ossia tutti gli aderenti di allora e di ogni tempo? devono semplicemente ripetere le stesse azioni che Lui, il loro Maestro, ha fatto nella sua vita terrena: cioè guarire i malati e annunciare che il Regno di Dio “è qui, in mezzo a voi”. Non devono quindi proporsi come giudici intransigenti, ma come consolatori degli afflitti, guaritori delle anime e dei cuori in difficoltà.

Il mondo è sempre pieno di persone sofferenti nell’anima, persone che magari sono convinte di essere malate fisicamente, e che cercano quindi affannosamente dei medici in grado di guarirle; non si rendono conto però che la loro malattia è diversa da quelle del corpo, è di un altro tipo, e che quindi per poter guarire il loro malessere, devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, a quella dello Spirito.

Ecco perché, soprattutto oggi, abbiamo bisogno di “medici” dell’anima in grado di far riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi: “medici” che facciano capire che tutti possono “guarire”, perché la Forza guaritrice è dentro ognuno di noi, è nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è infatti fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, è decisamente contagiosa, aggredisce anche il corpo, lo indebolisce, giungendo a causare anche gravi problemi.

Abbiamo bisogno di “medici”, di gente entusiasta, pratica, convinta; di gente che lavora sodo, non dei soliti parolai. Tant’è che Gesù, affrontando questo discorso sulla necessità di nuovi operai, usa due verbi molto significativi: prima di tutto un “Pregate”: qualunque impresa, qualunque essa sia, ha sempre bisogno di un continuo intervento di Dio; ma subito dopo aggiunge un perentorio “Andate!”; alla preghiera deve cioè seguire l’azione.

In genere però, noi operai moderni, ci fermiamo alla prima esortazione, al “Pregate”: siamo infatti molto bravi con le parole: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa! C’è bisogno urgente di operai!”. Ma quando passiamo al secondo verbo, al più concreto “andate”, le cose cambiano: perché noi in maniera molto elegante ci defiliamo! In giro si fa un gran parlare della necessità di missioni universali, di sinodalità, di responsabilità personale di ognuno, di collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione corale ecc. ecc.: noi ci tuffiamo anche, ci buttiamo a pesce con le nostre belle parole, con i nostri discorsi accalorati, illustrando ampi e dettagliati programmi; solo che sono rivolti agli altri, a terzi: per la loro realizzazione sono essi che devono darsi da fare: è la manovalanza, secondo noi, a doversene fare carico, noi siamo la “mente direttiva”, siamo gli strateghi, non possiamo abbassarci ai fatti concreti.

Ci lamentiamo allora perché la società di oggi fa schifo? Muoviamoci noi per primi, responsabilizziamoci, comportiamoci coscienziosamente, anche nelle piccole cose, diamo per primi il buon esempio. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!

La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Nicchiamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri fioretti, fatti solo con le labbra. Dio ci vuole responsabilmente impegnati, ci vuole all’opera! Non per nulla, nel seguito, ci dà una bella serie di comportamenti da tenere.

Certo non è una cosa da prendere alla leggera. È un “sì” a Dio, che non è facile onorare. Si tratta di essere degli agnelli che devono vedersela coi lupi: nel mondo, infatti, sono accolti bene soltanto quelli che organizzano feste, che offrono pranzi, che ossequiano i potenti, che appoggiano indiscriminatamente qualunque loro iniziativa; in altre parole sono quelli che dimostrano sempre e comunque di essere accomodanti, simpatici, che non si espongono mai di persona, che non prendono mai una posizione contro le ideologie del momento, perché nella vita non si sa mai! Chi al contrario “va” nel mondo in nome di Cristo e nel proporre il vangelo come regola di vita, si permette di farlo con un certo vigore, denunciando in maniera chiara e dettagliata la sconvenienza di certe norme sociali, l’indecenza di certe iniziative sguaiate, apertamente contrarie a Dio e alla religione, oltre che al buon gusto, automaticamente deve fare i conti con una massa di lupi inferociti che fanno di tutto per attaccarlo e sbranarlo. Del resto va bene così, è sempre stato così anche con Gesù; la ferocia di una folla aizzata dal male si è sempre distinta per la sua arroganza e prepotenza nel contrapporre le proprie idee!

Quella che Gesù prospetta ai suoi discepoli è una strada lunga e faticosa da percorrere: per questo impone subito la prima regola fondamentale: dovete camminare soprattutto “leggeri”: “se oltre al mio Vangelo, alla mia Parola, vi caricate anche di tutti i vostri interessi personali, dei tornaconti da raggiungere, degli egoismi da difendere, è chiaro che siete troppo impacciati, troppo appesantiti: dovete necessariamente liberarvi dalla zavorra”. È infatti un po’ come andare in montagna: dobbiamo partire con uno zaino il più leggero possibile; perché se pesa troppo, ci rallenta e finiamo col non riuscire più ad andare avanti. Ecco perché: “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.

Il compito da assolvere è impegnativo e le raccomandazioni si fanno sempre più circostanziate; durante il loro cammino non devono neppure salutare chi incontrano; più che giusto perché se si fermassero a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarebbe anche bello, ma non arriverebbero mai alla meta.

Dobbiamo pertanto essere anche noi cristiani “liberi e leggeri”: solo così potremo viaggiare spediti. Se da un lato la prosperità, il benessere materiale richiedono l’avere grandi quantità, di possedere cioè il più possibile, dall’altro il servire Dio, la spiritualità, impongono l’esatto contrario: avere il meno possibile, il minimo indispensabile.

Dobbiamo inoltre essere rispettosi, caritatevoli, senza imporre nulla a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno poi loro a doversi giustificare con Dio.

Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare due volte”: allora “rispettare” vuol dire guardare, tenere in considerazione, sia le esigenze dell’altro che le sue scelte, anche se sono diverse dalle nostre; rispettare significa pertanto accettare che nella vita, oltre noi, ci siano anche gli altri. Di conseguenza: dovunque andiamo, portiamo la pace: “Pace a questa casa”. Pace, in ebraico “shalom”, in greco “eirène”, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente: pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro di sé non ha pace, non è serena, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.

Comportandosi dunque esattamente come Gesù aveva suggerito loro, i “settantadue” vanno e tornano entusiasti: “È proprio vero, Signore! Anche noi siamo riusciti a fare quelle stesse cose che tu hai fatto!”.

Ecco: se anche noi ci fidassimo più di Lui che di noi stessi, se camminassimo per le strade della vita ascoltando i suoi consigli, scopriremmo di non essere mai soli, di agire con la sua stessa forza: perché Lui è dentro di noi, con il suo Spirito, e con Lui possiamo arrivare ovunque e a tutto, perché nulla ci è impossibile. Lo sottolinea Gesù stesso agli apostoli: “Non siate felici per il potere che scoprite di avere, per quelle cose che riuscite a fare. Non siete voi, non è merito vostro, ma è lo Spirito che è in voi che compie i vostri prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi saranno comunque scritti nei cieli”.

L’uomo passa: per quanto sia benemerito il suo nome, ben presto verrà dimenticato. Dopo pochi anni dalla sua morte, nessuno più si ricorderà di lui. I nomi scritti sulla sabbia, infatti, vengono ben presto cancellati dal vento; ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre! Amen.

 

  

mercoledì 22 giugno 2022

26 Giugno 2022 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 9, 51-62

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».

 Un vangelo chiaro quello di oggi. Un vangelo esplicito, che ci offre una serie di indicazioni sulla qualità della sequela: indicazioni che non fanno sconti a nessuno; in particolare a quelli che si riempiono la bocca della “bontà assoluta” di Dio, che lo considerano un “bonaccione”, che “si accontenta” di poco, per giustificare le loro scelte di vita opportunistiche, limitate, egoistiche.

Siamo nel nono capitolo di Luca: un capitolo decisivo, in cui Gesù, che si trova in Galilea, prende “la ferma decisione” di raggiungere Gerusalemme per la Pasqua, pur sapendo che lì sarebbe stato crocifisso. Per arrivarci però, è costretto a passare per la Samaria, regione dai rapporti non certo pacifici con i galilei: per cui ai discepoli che Egli aveva mandato per pianificare gli spostamenti suoi e del suo gruppo, gli abitanti respingono ogni richiesta di accoglienza e di ospitalità per la notte. Probabilmente era gente già prevenuta nei confronti di Gesù, gente a cui certi suoi discorsi su “cose” spirituali, non interessavano per nulla; non volevano neppure sentirne parlare, non avevano insomma nessuna voglia di cambiare, di guardarsi dentro: volevano stare alla lontana da problemi “spirituali”, conversioni, “rotture”.

Luca, che conosceva l’ambiente, interpreta questo rifiuto in chiave teologica: i Samaritani cioè rifiutano il passaggio di Gesù attraverso il loro paese, perché si oppongono che lui vada a Gerusalemme. Come mai? Perché raggiungere Gerusalemme (tutto il vangelo di Luca è in vista di questa “ascesa” alla città santa, che segnava il ritorno del Figlio unico al Padre) significava permettere a Gesù di coronare la sua missione redentrice, di venire accreditato come Figlio di Dio, salvatore del mondo; in pratica significava rifiutarlo nella sua essenza, nel suo volto divino, nella sua unicità e particolarità. Significa insomma rifiutare Gesù stesso.

È quindi naturale che, di fronte a tanta intransigenza, Giacomo e Giovanni, i “boanèrghes”, le teste calde, reagiscano da par loro, chiedendo l’immediata distruzione di quel territorio: che un “fuoco dal cielo” bruci e consumi tutti gli occupanti; un po’ come era successo ai soldati, mandati dal re Acazia per uccidere il profeta Elia, che aveva avuto l'ardire di annunciargli la morte imminente (2Re 1,1-18); solo che a Gesù non interessa dimostrare la sua potenza, come fece Jahweh in quell’occasione; il suo unico scopo è di dar prova del suo amore. Gesù non è potente nella forza, ma nell’amore: la sua forza è tutta qui, in un amore che non ha forza; il suo potere sta nel non avere potere. “Non ci vogliono? Lasciamoli stare. Andiamo altrove”.

Del resto, sembra dire, è anche giusto che qualcuno nella vita ci rifiuti: perché dovremmo andare bene a tutti? Per questo dobbiamo ricordarci sempre che è normale che qualcuno ci rifiuti; non abbiamo diritto ad essere accettati da tutti. E se questo ci fa star male, se per questo soffriamo, siamo noi che sbagliamo: perché nella vita è nostro dovere convivere pacificamente con tutti: con quanti ci dicono “Sì” e con quanti ci dicono “No”. Da questo capitolo dunque il vangelo di Luca non è solo “Parola da ascoltare”, ma anche e soprattutto “Via da seguire”, una via che si sviluppa progressivamente durante il suo cammino verso Gerusalemme e che termina lassù, in alto, sulla croce del Golgota.

Il volto “teso” di Gesù, (in greco “estèrisen”, si indurì) che si avvia verso la sua passione, si pone in netto contrasto con il volto di quanti, alla proposta di seguirlo, dimostrano con diverse scuse la loro indifferenza, la loro “piccineria” umana, la loro superficialità, molto simili ai nostri “distinguo”, al nostro continuo rimandare qualunque seria decisione: perché l’unico scopo radicato nella nostra mente, nella nostra vita, è quello di emergere sempre più nell’avere, nel potere, nell’apparire. In pratica Luca ci descrive tre diverse maniere, tre ipotetiche possibilità, di rispondere alla chiamata divina.

La prima possibilità ci riporta la decisione spontanea da parte di un tizio incontrato per caso lungo la strada: contiene una promessa ferma, convinta: “Ti seguirò dovunque tu vada”. È una risposta categorica, sullo stile di quelle di Pietro. Il chiamato ha sentito impellente il desiderio di seguire Gesù, ha capito la bontà di tale aspirazione, ma – come Pietro - non ha fatto i conti con la fragilità della natura umana, non ha capito che seguirlo significa andare oltre l’elemento umano, significa trasferire ogni sicurezza umana nel divino. E Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo”. Che significa? “Calma, amico mio: guarda che seguirmi non è come andare incontro agli agi, al benessere”. Ma perché cita qui le volpi e gli uccelli? Nella cultura ebraica la volpe è considerata l’animale più astuto ma anche ingenuo, insignificante. Erode, la “volpe” (Lc 13,32), furbo ma banale, cerca la salvezza nascondendosi nel suo palazzo, nella sua tana: e pensa di poter vivere tranquillo. Gli uccelli poi sono gli animali più semplici, meno impegnativi, con minori esigenze: “Guardate gli uccelli del cielo...” (Mt 6,26). Ebbene: sia le volpi che gli uccelli, hanno comunque la loro tana, il loro nido; al contrario Gesù invece non ha nulla, neppure una pietra su cui posare il capo: tutto ciò che possiede infatti non gli appartiene, deve restituirlo al Padre: come la sua vita. Con questa dichiarazione, Egli toglie immediatamente, a chi vuol seguirlo, ogni illusione di ricchezza, di ambizione; seguirlo non conduce in alcun modo agli onori, alla gloria, alla popolarità, ma al disprezzo sicuro da parte della società e dei potenti. Seguire Gesù significa venir considerati come inutili, insignificanti, gente banale, senza carattere.

Prima condizione per seguirlo è pertanto: “Non aspettatevi nulla: nessuna ricchezza, nessun onore, nessun merito, nessun riconoscimento umano, nessuna poltrona particolare”: una prospettiva non invitante, in stridente contrasto con lo stile di vita adottato da tanti “discepoli”, da tanti “pastori” moderni e disinvolti. Gesù ci mette qui in guardia contro le false illusioni, le false aspettative. Tutti siamo un po’ degli illusi! “Illusione” è per esempio pensare di poter superare da soli, con la nostra sola volontà, tutte le contrarietà della vita; “illusione” è pensare di essere immuni da ogni malattia, da tutti gli eventi negativi che ci circondano; “illusione” è pensare che essi siano riservati soltanto agli altri e non a noi; “illusione” è pensare che una volta imboccata la strada per seguire Gesù, diventeremo automaticamente migliori, diversi, perfetti; “illusione” è pensare che Dio sia sempre pronto a rimuovere ogni ostacolo davanti ai nostri passi; “illusione” è dire che ci conosciamo a fondo; “illusione” è pensare che se tutti si comportassero come noi, il mondo sarebbe sicuramente migliore; “illusione” è credere che per essere felici nella vita, sia sufficiente crearsi la propria “tana”.

Nella seconda possibilità, l’iniziativa parte invece da Gesù che dice ad un altro uomo, “seguimi!”. Una chiamata secca, inequivocabile; chi infatti deve seguire siamo noi, non lui. E mentre nel caso precedente è Gesù che risponde all’iniziativa dell’uomo, qui è l’uomo, il chiamato, che obietta all’invito di Gesù: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. In effetti egli non dice di no, non chiede una dispensa, chiede solo una proroga! Il motivo del resto è più che valido: seppellire il padre costituiva per la cultura ebraica l’obbligo più importante e più sacro per un figlio: il padre era colui che trasmetteva la tradizione, i valori etici e religiosi, il modello di vita da seguire. Onorare il padre (il famoso quarto comandamento) significava appunto imitarlo, fare come aveva fatto lui, portare avanti il suo patrimonio, le sue credenze, la sua tradizione: in questo modo il padre viveva nel figlio. Gli onori funebri, presieduti dal figlio, costituivano pertanto un obbligo che non poteva in alcun modo venire disatteso. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio”. Capisco che seppellire il proprio padre è un impegno importantissimo, irrinunciabile: ma seguire me, aderire immediatamente alla mia chiamata, è un dovere ancora più importante, improrogabile”. Una risposta, per quei tempi, a dir poco scandalosa. Ma Gesù non è nuovo nel rivoluzionare la nostra scala dei valori: lo aveva fatto anche al momento della chiamata dei suoi discepoli, ordinando loro di abbandonare padre, casa, lavoro. Tant'è che: “Essi, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (Mt 4,22)Il significato è chiaro: tutte le cose che abbiamo fatto prima, le cose che riempivano le nostre giornate, riguardano il passato, appartengono ad un altro mondo. Con la chiamata di Gesù, si apre una nuova vita, lo stile di vita cambia completamente: bisogna essere “vino nuovo in otri nuovi” (Mc 2,21.22). Non è più la ragione, l’interesse, il tornaconto a suggerire cosa dobbiamo fare, ma da quel momento tutto è ordinato, mosso, organizzato, dall’amore. Il “così fan tutti” non ha più alcun motivo di esistere. Per seguire Gesù il nostro cuore deve essere completamente libero: solo così ci si potrà dedicare all’annuncio del suo Vangelo fino ai confini della terra.

C’è infine la terza possibilità: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Anche quest’uomo è intenzionato a seguire Gesù: ma è meno convinto del precedente: l’altro chiedeva un po’ di tempo per adempiere un dovere sacrosanto; questi non ha invece una motivazione circostanziata, certa, valida; chiede solo vagamente “un po’ di tempo”; rimanda cioè la sua adesione ad un ipotetico domani, con la scusa di congedarsi da parenti e amici. Un tizio, costui, che ci rappresenta alla perfezione! “Guarda Gesù, io ti seguirò sicuramente, solo che prima devo sistemare alcune cosucce, per me importanti: devo laurearmi, devo sposarmi, devo concludere una sistemazione per il futuro; ma sta tranquillo, perché di sicuro prima o poi io ti seguirò!”. Ma anche questa volta le parole di Gesù sono lapidarie: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”. Il riferimento al comportamento esemplare tenuto dal profeta Eliseo all’invito di Jahweh, fattogli indirettamente tramite Elia, è evidente: chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi, brucia senza esitazione il suo aratro, sacrifica i suoi buoi e obbedisce alla volontà Dio (1Re 19,21). La chiamata di Dio ha infatti priorità assoluta, esige una risposta immediata, bisogna decidere subito, non c’è tempo per guardare indietro, al passato. Tutti conosciamo cos’è capitato alla moglie di Lot che, invitata dall’angelo di Dio di abbandonare velocemente Sodoma, si era fermata un solo istante per voltarsi indietro e guardare la città in fiamme: divenne immediatamente una statua di sale! (Gn 19, 26). Quando Dio chiama non sono ammessi indugi: perché quello è infatti il momento, in cui decidere prontamente della nostra vita o della nostra morte. Guardarsi indietro significa invece prendere tempo, ripensarci, ritornare sui propri passi, nicchiare, farsi cogliere dai dubbi, aver paura dell’incognito: e questo non è possibile per chi desidera entrare nel Regno dei cieli.

La radice di tutti questi comportamenti umani, di questi ripensamenti, è infatti l’attaccamento al nostro io, alle nostre comodità, alla nostra vita sicura e agiata: certo, anche noi arriveremo alla “rinuncia”, ma con calma, senza fretta: si tratta della nostra vita futura, e pertanto deve essere ben soppesata, valutata, vedere se è adatta ai nostri gusti, alle nostre possibilità, alle nostre esigenze. Gesù al contrario è l’uomo del subito, della decisione bruciante: “si, si, no, no”: esige risposte chiare, certe; non ama ripensamenti, trucchi, addomesticamenti, risposte a mezza voce. Non ama il piede su due staffe. In questo dobbiamo seguire il suo esempio: presa la “ferma” decisione di andare a Gerusalemme per sacrificarsi, è andato sempre avanti, dritto per la sua strada, a “muso duro” diremmo noi, senza tentennamenti. Un grandissimo, plastico, virile insegnamento, per la nostra debole, codarda mellifluità umana. Amen.

 

giovedì 16 giugno 2022

19 Giugno 2022 – SS. Corpo e Sangue di Cristo


Lc 9, 11-17

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.


 Oggi la Chiesa celebra la festa del Corpo e Sangue di Cristo, la festa dell’Eucarestia: Gesù non è più con noi fisicamente, ma è presente ogni giorno nell’Eucaristia sotto le specie del Pane e del Vino e nel Tabernacolo nelle Ostie consacrate. Storicamente la festa nasce a seguito del miracolo di Bolsena: un sacerdote dubitava della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino che lui consacrava nell’Eucaristia: un giorno, all’atto dello spezzare il pane, dalla piccola ostia sgorgò miracolosamente del sangue che macchiò di rosso il corporale: l’importante reliquia, insieme all’ostia, sono esposte alla venerazione dei fedeli nel duomo di Orvieto, costruito per conservare appunto la memoria e la documentazione del miracolo. Dal 1264, la festa venne estesa a tutta la Chiesa.

Ma cosa è successo esattamente quella sera, cui si riferisce il vangelo di oggi? Sappiamo che Gesù durante la sua vita pubblica ha toccato ripetutamente il tema della “cena”, del “pranzo” aperto a tutti: puri, impuri, giusti e peccatori; alla sua tavola c’è posto per tutti, perché essa è segno dell’amore infinito, smisurato, incondizionato di Dio. Finché Gesù è in vita, tutti possono vedere e sperimentare queste sue iniziative: Egli però sa bene di avere poco tempo per la catechesi; deve quindi preparare con cura la folla per il “dopo”, per quando Lui sarà ritornato al Padre.

Il suo è quindi un gesto preparato, programmato, con uno scopo ben preciso: la cena che egli offre alla folla non è una cena come tante altre; è una cena speciale, una cena “simbolica”, in cui Egli anticipa quelle azioni rituali che poi definirà nel cenacolo con i discepoli nella famosa “cena pasquale”, durante la quale istituirà appunto l’Eucaristia, sacramento della sua reale presenza nel tempo. Gli esegeti sono in difficoltà nell’attribuire il “dove” e il “quando” di questa prima “cena”: ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta è il suo significato, sono le sue parole. Egli in pratica delinea quel rito che, quando lui non ci sarà più, sarà in grado di riproporre lo stesso banchetto, intorno al quale tutte le genti potranno cibarsi del suo Corpo e godere della sua reale presenza: “Quando voi direte: Questo è il mio Corpo e questo è il mio Sangue io realmente sarò in mezzo a voi, vi nutrirò e la vostra “tavola” diventerà come quella mia stessa tavola di quando ero in vita”.

L’Eucarestia è pertanto l’amore di Dio che arriva a tutti, è la possibilità per tutti di ritrovare le forze necessarie ad affrontare gli inevitabili disagi della vita. L’Eucarestia è Gesù: tutti hanno accesso alla sua tavola. Tutti possono mangiare con Lui e di Lui non perché ne abbiano i meriti, ma perché è l’amore stesso di Dio vuole scendere su ogni cuore e su ogni anima. È un amore gratuito, destinato a quanti ne hanno bisogno. “Sei un lebbroso? Nessuno ti vuole per il tuo pessimo carattere? Tutti ti escludono perché sei soffocante, difficile, insopportabile? Vieni qui, mangiamo insieme; tu non sai quanto ti amo! Sei un pubblicano? Non sei in regola con le leggi? Sei un peccatore lontano da Me? Vieni da me solo per interesse? Non importa, vieni qui, mangiamo insieme, rilassati e sappi che il mio amore è garantito e gratuito. Sei una prostituta? Hai tradito l’amore? Hai tradito la fedeltà? Hai venduto il tuo corpo? La tua anima? La tua mente? Hai perso la tua dignità di donna? Vieni qui, mangiamo insieme, sii serena, qui sei a casa tua, io ti amo; il mio amore sarà la tua forza!”. 

Ecco, l’Eucarestia è esattamente questo: un banchetto, un pranzo per tutti, aperto a tutti, perché tutti hanno fame di Dio e Dio vuol darsi a tutti, perché tutti sono e saranno sempre figli suoi. Quella sera dunque, prima di intervenire, Gesù vuole testare la fede dei suoi discepoli: “Dategli voi stessi da mangiare”. Bella mossa. Gesù in pratica si defila; essi dispongono solo di cinque pani e due pesci, e le persone da sfamare sono circa cinquemila: devono essere loro, personalmente, a rendersi conto della potenza dell’Amore di Dio: “Ma Gesù, cosa dici? Non vedi che abbiamo solo cinque pani e due pesci? Come facciamo?”. Essi non guardano ancora con gli occhi di Gesù; si fermano al presente, alla situazione concreta: non credono nelle loro possibilità, non hanno ancora gli occhi della fede.

Quante volte succede anche a noi di non credere, di non aver fiducia in noi stessi. Ci guardiamo e diciamo: “Come facciamo? Non siamo in grado, non abbiamo forza, non abbiamo coraggio!”. Quando ci guardiamo, infatti, vediamo soltanto i cinque pani e due pesci: un nulla. “Chi sono io, di cosa dispongo per poter costruire la mia vita?”. Ma qui Gesù ci insegna come fare: prende quel poco che ha, lo benedice, e avviene il miracolo: con cinque tozzi di pane, riesce a sfamare migliaia di persone; tutti ne mangiano a sazietà e ne rimangono ancora dodici ceste! Egli sa per certo che partendo da quel niente, uscirà qualcosa di molto grande. Egli vive la fede: vive credendo profondamente nei poteri che il Padre gli ha conferito, e con Lui, egli li condivide: e così è stato. E così sarà sempre, per chiunque vive con fede.

Il problema fondamentale è appunto aver fede: è credere fermamente che, condividendo la Grazia di Dio, anche noi possiamo essere grandi, potenti, forti. Anche se questo ci spaventa: perché ci accorgiamo improvvisamente che la vita è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, che dobbiamo essere noi a plasmarla. Per questo, nell’Eucaristia, quando prendiamo sulla nostra mano il corpo di Cristo, dobbiamo veramente avere fede; dobbiamo essere assolutamente certi che quel piccolo pane, quell’ostia minuscola, all’apparenza insignificante, è il corpo e sangue di Cristo, che riesce sempre a sfamare milioni di persone. È il pane per tutti gli uomini. È il nostro pane di salvezza: quel pane che sazia la nostra fame d’amore, che disseta il nostro cuore arido, che rianima il nostro entusiasmo spento, che illumina il nostro buio, i nostri tunnel sotterranei; è quella forza che ci permette di ritrovare la giusta via, nel nostro inutile girovagare senza meta. 

Quel pane è Dio stesso che diventa noi; è Lui che viene a trovarci, che non si vergogna di entrare nella nostra casa in disordine, è Lui che vuole incontrarci da soli, a tu per tu, che vuole saziarci, che vuole soprattutto amarci. È sempre Lui che viene per primo, che ci offre la sua amicizia, che ci prende per mano, così come siamo, rallentati dalle nostre miserie; è Lui che dolcemente ci sussurra: “Tranquillo, va bene così. Mi piace stare con te quando sei vero, quando sei autentico, umile, spontaneo, senza finte maschere. Sii sempre te stesso; vivi sereno nella mia amicizia!”. E noi, in quel momento, ci sentiamo finalmente noi stessi, veri, autentici, mentre lo ascoltiamo, seduti al suo fianco nel salotto buono della nostra anima: perché con Lui non abbiamo nulla da dimostrare, nulla da difendere, nulla da valorizzare; non abbiamo cambiali in scadenza, non abbiamo facciate da esibire, compromessi da negoziare: con Lui possiamo tranquillamente rimanere noi stessi, lasciarci andare, e godere a piene mani del suo dolcissimo Amore. Amen.

 

giovedì 9 giugno 2022

12 Giugno 2022 – SS. Trinità.


«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16, 12-15).

 

Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. È il mistero di Dio in sé stesso. Cosa dichiara la festa di oggi: in sostanza ci dice che c’è un unico Dio; non un Dio solitario, ma un unico Dio in tre Persone divine. Spiega in proposito il Catechismo: “Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio…”. Ognuna delle tre Persone è la stessa realtà, cioè la stessa essenza o natura divina. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente nomi che indicano tre “modalità” diverse dell'Essere divino; essi sono realmente tre persone, distinte tra loro per le loro rispettive relazioni di origine: il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede da entrambi come vincolo d’Amore.

Detta così, la Trinità potrebbe risultare di non facile comprensione, frutto di concetti filosofici, di argomentazioni, di tesi e antitesi; uno sforzo speculativo, di alto equilibrismo teologico, accessibile a menti speculative. Nel suo concreto, però, la Trinità è piuttosto semplice: in parole povere altro non è che l’esperienza dell’amore e della comunione reciproca di Dio Padre con Dio Figlio: un amore che tramite lo Spirito si fa uomo, Verbo, Parola, e si rivela in Gesù, diventando “comprensibile”, “accessibile”, all’umanità intera.

Per i primi discepoli è successo proprio questo: hanno capito che Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, non solo sosteneva di essere figlio di Dio, ma si comportava realmente come figlio di Dio: in Lui c’era veramente Dio, era Dio! In quell’uomo essi hanno sperimentato un mondo di amore, di comunione, di vita, infinitamente grande, profondo. E per rendere facile anche a noi questa essenza divina, hanno utilizzato l’immagine che più riusciva ad esprimere il concetto: l’immagine di una famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro reciproco Amore, lo Spirito. Tre persone, dunque, unite strettamente tra loro, legate tra loro, ma comunque distinte, ognuna con un proprio ruolo specifico.

Ebbene, questa “relazione” intra trinitaria ci propone l’esatta immagine di come devono essere improntati anche i rapporti tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra fratelli, tra ogni appartenente al genere umano: un rapporto, cioè, tra persone diverse ma unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio.

Tutti in fondo inseguiamo gli stessi obiettivi: vivere insieme le gioie dello Spirito, sperimentare insieme la carità del Padre, progredire insieme sulle orme del Figlio: abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo una grande, unica, entità, pur avendo ciascuno di noi una sua individualità, una sua personalità, una propria autonomia decisionale, un proprio stile di vita.

Ci sono, è vero, molte persone che non tengono in alcun conto questa realtà: nelle loro relazioni pretendono l’annullamento della personalità altrui, al punto da volerli trasformare in un loro alter ego, una loro copia esatta; esigono che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono attenersi perfettamente ai loro “desiderata”. Sono persone egocentriche che non accettano alcuna contrapposizione, alcuna diversità rispetto a quello che è il loro personale punto di vista; ma un punto di vista”, come dice il saggio, è solo la vista da un solo punto: è cioè il classico comportamento di chi è talmente limitato, da non rendersi conto che in questo modo annulla le persone, le rovina, le deruba della loro individualità, rifiutando a priori qualunque valida possibilità di integrazione e di collaborazione.  

In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di “comunione fraterna”, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni finiscono nel nulla di una triste realtà: chi non si adegua al pensiero “elitario” dei responsabili, chi pensa di raggiungere per altre vie lo spirito del vangelo, chi insomma nell’umiltà dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente viene escluso, viene messo al bando, ignorato, isolato. Non è ammessa alcuna pluralità interpretativa di cosa sia il vero bene comune. Eppure la dottrina della Chiesa insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché, ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta, uniformità, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero, di una stessa interpretazione del divino alla luce dell’Amore, nell’aprirsi e nel donarsi con quella Carità che “unisce i cuori”.

Fare “unione” infatti non è fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. Fare “unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.

Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità: certo, talvolta potremmo arrivare anche a dispensare amore, ma non è l’Amore vero, l’Amore che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non potremmo vivere.

Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, rapporto, relazione. Ci fa capire in pratica che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.

Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, naturale, altrettanto non lo è il “sapersi relazionare”, che è una dote rara. Per questo dobbiamo imparare a costruire i nostri rapporti, le nostre relazioni, sull’esempio dell’Amore interpersonale della Trinità: purtroppo la maggior parte della gente non conosce il significato di “Trinità”; ignora quale potenza si possa sprigionare da una relazione interpersonale di tipo “trinitario”; non capiscono: pensano soltanto che “relazionarsi” consista nel saper parlare, nell’avere un linguaggio fluente, chiaro, convincente. Invece no: anzi, dobbiamo fare molta attenzione perché spesso le “nostre” relazioni, prive dell’elemento fondante della carità, sono solo misere espressioni del nostro egoismo, una pretestuosa e untuosa ricerca del nostro utile, del nostro tornaconto; i nostri legami di vita diventano legacci di morte, le nostre relazioni d'amore, un cappio al collo; in altre parole dobbiamo essere sempre noi a gestire le nostre relazioni: mai permettere alle relazioni di gestire noi!

Guardiamo allora dentro di noi, nel profondo del nostro cuore, analizziamo la natura delle nostre relazioni, confrontiamole con le relazioni d’amore e di verità che intercorrono nella Trinità tra Padre, Figlio e Spirito Santo; e preghiamo perché, anche nella nostra vita, sia sempre l’Amore a renderci credibili e autentici. Amen.