giovedì 23 marzo 2017

26 Marzo 2017 – IV Domenica di Quaresima

«Gesù passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Gv 9,1-41

Nel ciclo liturgico del Lezionario, dedicato quest’anno a Matteo, fanno eccezione le ultime tre domeniche di quaresima i cui testi del vangelo sono tratti da Giovanni. Sono le pericopi più lunghe di tutto il periodo e trattano rispettivamente dell’incontro con la Samaritana al pozzo di Sicar (III domenica), della guarigione del cieco nato a Gerusalemme (IV domenica) e della risurrezione di Lazzaro in Betania (V domenica): tre argomenti dalle mille sfaccettature, pieni di allusioni e di implicazioni pratiche difficilmente individuabili ad una prima, veloce lettura. Giovanni, come al solito, sembra dare maggior peso all’importanza teologica dei fatti, piuttosto che a quella storica: ma proprio per questo è l’autore che, rispetto agli altri, eccelle nel riferire tutta una serie di sensazioni, di emozioni, di annotazioni, di stati d’animo, estremamente reali, che offrono al racconto una miniera di spunti meditativi.
Questo succede anche nel vangelo di oggi, dedicato alla guarigione del cieco nato. Un capolavoro di psicologia, una rassegna variegata di personaggi comprimari, tutti puntualmente in preda a stati d’animo diametralmente opposti, descritti tutti con abile realismo.
Il motivo di fondo che domina la scena è anche qui il contrasto, l’opposizione tra luce e tenebre, tra chi vede e chi invece è cieco.
I personaggi coinvolti sono sei: i discepoli di Gesù, i farisei, i genitori del cieco, ovviamente il cieco, i suoi conoscenti, e infine Gesù. Nel vangelo sembrano avere tutti altre cose da pensare, altri interessi da seguire, altre preoccupazioni da risolvere: il cieco è solo una comparsa: lui e la sua situazione fanno da riempitivo, non meritano attenzione! Nessuno lo vede, nessuno lo considera, tranne Gesù: Lui solo lo “vede”, Lui solo comprende i disagi causati dalla sua grave infermità, Lui solo capisce i suoi problemi, le sue esigenze. Tutti sono calamitati da altre cose, da altre preoccupazioni.
Per esempio i discepoli; essi dimostrano una sola preoccupazione: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Sono vittime ancora dei retaggi di una arcaica mentalità ebraica: “Se uno è malato, vuol dire che lui o qualche suo antenato ha sicuramente peccato”. Il problema dei discepoli è quindi: “Chi è il colpevole? Dov’è l’errore? Di chi le responsabilità?”. Sono quelli che vogliono individuare ad ogni costo il colpevole, la causa, il responsabile; in questo modo si sentono liberi, evitano di farsi coinvolgere. “È colpa sua o di altri; noi non c’entriamo, non ci interessa, non dobbiamo fare nulla”.
Una mentalità molto diffusa anche oggi, questa dei discepoli. Succede qualche fatto grave? Ci sono abusivismi edilizi, discariche a cielo aperto, figli che uccidono i genitori, droga nelle scuole, immigrati che creano problemi? L’unica preoccupazione di questi tipi è di scaricare le colpe su qualcuno, trovare il colpevole. Così si sentono a posto, tranquilli, con la coscienza in pace. Trovato il colpevole, vero o presunto, fatto il processo mediatico in tv, tutto cade nell'indifferenza. Ma per quanto ci riguarda, siamo proprio sicuri di essere esenti, di non avere alcuna responsabilità su questi fatti? Ignoriamo le cause reali solo perché non le vediamo, o perché non le vogliamo vedere?
Poi gli amici, i conoscenti del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui, è quello di prima”; altri “no”; altri “gli assomiglia”. Sono quelli per i quali gli altri non contano nulla: uno può cambiare quanto vuole, ma essi fingono di non accorgersene. Dicono di amare ma in realtà detestano che gli altri possano mutare, migliorare, diventare “altri”; soprattutto se ciò altera il loro rapporto. Sono quelli che etichettano la gente una volta per tutte, quelli che hanno già deciso come siamo e come saremo, come ci comporteremo, come e cosa risponderemo o diremo. L'iniziativa altrui non è ammessa!
Poi ci sono i genitori. A quel tempo il popolo era succube dei capi della sinagoga, ne aveva il terrore: una loro scomunica equivaleva alla morte sociale. I genitori del cieco guarito, interrogati sull'autenticità della guarigione del figlio, hanno quindi un timore folle, cercano di non compromettersi, e per non sbilanciarsi, non rispondono in maniera diretta: “Non sappiamo; del resto è grande, è adulto, chiedetelo a lui”. Del tipo: “Arrangiatevi; non vogliamo complicazioni; abbiamo paura!”. Sono quelli cioè che si tirano indietro, che non vogliono problemi, neppure quando si tratta di difendere i propri cari! Nella vita purtroppo non c’è tradimento peggiore che venir abbandonati, ignorati, messi in cattiva luce, accusati ingiustamente proprio da chi doveva proteggerci, dai nostri famigliari, da chi doveva naturalmente difenderci.
Poi ci sono i farisei. I farisei sono quelli che si fissano troppo spesso su principi addirittura grotteschi: gente ridicola che si straccia le vesti perché uno ha fatto un amalgama di sputo e polvere, gente che si oppone a qualunque iniziativa appellandosi ai regolamenti, alle leggi, alle tradizioni: “Noi siamo figli di Mosè: la sua legge è la nostra ragione di vita; quell’uomo è un peccatore, come si permette di vantare una guarigione avvenuta in maniera illegale? Come può pretendere di insegnare a noi?”. I farisei sono quelli che si trincerano dietro al si è fatto sempre così!, Le regole prescrivono questo!; quelli che hanno paura di ammettere la diversità, i mutamenti, il variare dei tempi. Hanno paura di cambiare atteggiamento, di cambiare il loro cuore. Piuttosto negano la realtà. Sono troppo preoccupati della loro facciata, dell’essere “allineati e coperti”, del loro perbenismo, anche se esclusivamente esteriore e formale. Sono tutti quelli che non vogliono vedere in faccia la realtà: non accettano di confrontarsi con le loro paure, con le loro manie, se la nascondono: preferiscono ignorare l’evidenza, anche perché “vedere” significa “cambiare”, significa cioè affrontare la fatica immane di una conversione personale: molto meglio quindi non vedere.
Infine, per fortuna, c’è Gesù: l'unico veramente e totalmente libero; uno che non ha nulla da perdere, che non ha paura di rimetterci la faccia di fronte alle contestazioni di chi è in cattiva fede. Gesù non deve angosciarsi di nulla: e proprio per questo si prende cura dell'uomo bisognoso e sofferente.
Così infatti, se noi siamo preoccupati di difendere la nostra faccia di “brave persone”, non potremo mai accorgerci degli altri, di un nostro comportamento inopportuno che li ferisce; se siamo pieni di rabbia, di paura, non riusciremo mai a renderci conto che le nostre reazioni non sono “difese” dettate dalla prudenza, dall'amore, ma vere e proprie “offese” dettate dal rancore. Siamo spaventati dal guardarci dentro: abbiamo paura di scoprire che la realtà non è quella che esibiamo noi. 
Tutte le persone che abbiamo visto, i farisei, i genitori, gli amici, hanno già tutti le loro idee: si defilano da ogni responsabilità diretta. Ma in questo modo dov’è l’amore? Dov’è l’aver cura del prossimo? Sono purtroppo tantissimi gli innamorati delle belle parole, delle idee grandiose, quelli che si entusiasmano dei progetti, degli ideali, ma che poi, nella vita pratica, dimostrano di ignorare completamente le necessità delle persone: per loro non esistono, amano soltanto loro stessi.
Ma Gesù no: Gesù ci vede bene; ci guarda, ci stringe tra le sue braccia, si prende cura di noi: “Vedo che stai male, che stai soffrendo; vedo che hai sbagliato nell’amare, che hai percorso una strada senza uscita, che hai ammirato cose che ritenevi meravigliose e che non lo erano; che hai rincorso soluzioni che poi si sono rivelate effimere: tu pensavi di sapere tutto della vita, e invece eri cieco, ti sei sbagliato. Io sono qui: se vuoi, io ti curo. Guarda che non sei destinato a rimanere sempre cieco: torna a vedere, ritorna alla luce, ritorna alla vita”.
Gesù è amore, è fiducia, è misericordia: non giudica, ma si mette al nostro fianco per aiutarci, per consolarci, per farci vedere ciò che non abbiamo visto; lo fa perché possiamo tornare ad amare: “Ci sono io vicino a te, io ti aiuto!”. Il suo scopo è forse quello di stabilire chi ha ragione, chi ha sbagliato, di chi è la colpa, oppure quello di aiutare un cieco a riacquistare la vista? Quello di condannare o quello di aiutare a non sbagliare più, un poveretto che si era perduto ?
Se guardiamo nel vangelo, quando Gesù si imbatte nelle miserie della gente, mai si pone il problema del peccato. Quando passa vicino ad uno zoppo, ad una donna senza moralità, ad un muto, ad un cieco, non si chiede mai se sono in grazia di Dio o se sono in peccato. Gesù, se può, guarisce. Sempre. E questo succede anche con noi; Gesù non ci chiede mai se abbiamo sbagliato, se la nostra vita è giusta, se siamo buoni o cattivi. Gesù ci guarda, “vede” il nostro buio, e ci aiuta. Egli non guarda mai ciò che non va in noi, il nostro lato negativo; Egli guarda sempre e solo in positivo, guarda quello che in futuro potremo diventare. Gesù non è un moralista; non è l’intransigente che ama giudicare e condannare, ma è il guaritore, colui che vuole in noi la massima concentrazione di vita, di amore, di libertà, di gioia, di fiducia.
Se una bottiglia è vuota, come facciamo a toglierle il vuoto? Non possiamo! Possiamo però sempre riempire quel vuoto! Se ci concentriamo sempre sul nostro vuoto, su ciò che non siamo, su ciò che non riusciamo a fare, su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, otteniamo di noi un’immagine decisamente negativa. Ma se concentriamo il nostro sguardo su quel poco che abbiamo fatto, su quel poco che facciamo, su quello che potremmo fare, la nostra immagine risulterà sicuramente più positiva, forse anche accettabile. Allora applichiamoci, lavoriamo seriamente sul positivo: così, per esempio, quando parliamo di qualcuno, evitiamo di sparlare di lui, evidenziamo soltanto i suoi lati più belli, valorizziamo ciò che ha di più prezioso: perché così lo faremo sentire amato, importante, valorizzato; si sentirà spronato a sviluppare tante altre sue doti positive.
Riccardo Muti, il grande musicista e direttore d’orchestra che conosciamo, alla prova di ammissione al conservatorio, ha conseguito il punteggio massimo. L’esaminatore però gli ha detto: “Ti ho riconosciuto il massimo non per come suoni ora, ma per come saprai suonare un giorno”. In realtà la sua esecuzione non era stata perfetta: se l’esaminatore si fosse limitato a valutare soltanto le sue imperfezioni, forse lo avrebbe bocciato. Ma egli ha visto oltre, ha proiettato il candidato nel suo futuro, ha fatto leva sui suoi lati positivi, ha premiato le sue potenzialità: ed ha funzionato!
È l’amore, la fiducia, il guardare in positivo una persona che la fa cambiare, non il disprezzo, non il giudizio temerario,  non l'esasperazione dei suoi lati negativi. 
Questo, in estrema sintesi, è uno dei messaggi interessanti del vangelo di oggi. Il vero peccato, ci dice, non è quello di essere ciechi, ma quello di volerlo essere a tutti i costi, di ostinarsi a non vedere. Un messaggio che va preso sul serio, senza addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo: un messaggio che si serve di parole tremende: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. Che significa? In pratica ci dice che tanta gente è persuasa di sapere solo lei cosa sia la verità; tanta gente che è convinta di essere un esempio di vita per gli altri, gente che crede di conoscere chi è Dio, gente che è convinta di essere bravi cristiani, ottimi genitori, padri, preti, ecc. Gente insomma che sa tutto, che non accetta consigli, che non sa ascoltare, che non vuole mettersi in discussione.
Gesù a questa gente dice una cosa soltanto: “Siete completamente ciechi; ma, convinti di vederci bene, pretendete di guidare gli altri. Questo è il vostro vero dramma”. Infatti: “Come può un cieco guidare un altro cieco?”. Impossibile, è chiaro.
Che fare allora? Dobbiamo convertirci: “conversione” infatti significa risveglio, aprire gli occhi, vederci. Solo i figli della luce sono quelli che ci vedono, che non dormono, che si rendono conto della situazione. Gli altri, i figli delle tenebre, sono quelli che vivono nel peccato, nell’oscurità, nella notte, nell’ignoranza.
Gran brutta cosa voler rimanere al buio dell’ignoranza, insistere nel rifiutare la luce dell’Amore. Anche noi una volta eravamo ciechi; siamo entrati in questa vita con l’oscurità nell’anima: ma poi il Signore ha fatto anche per noi il grande miracolo, chiamandoci alla luce della fede. Il battesimo ci ha purificati, illuminati, riconciliati, salvati. Esattamente come scrive san Paolo: “Fratelli, un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce.” (Ef 5,8-14). Già, questo è il punto: per non ricadere nella cecità, per non dimenticare la chiamata d’amore di Dio, dobbiamo comportarci come figli della Luce. Dobbiamo cioè alimentare continuamente questa luce che è la fede. Esserne gelosi. Perché è solo illuminati da questa luce, che possiamo produrre i buoni frutti: amore, giustizia, verità.
Questo è il criterio con cui dobbiamo affrontare le sfide del nostro tempo: non possiamo guardare il mondo, le sue lusinghe, le sue ideologie, attraverso gli occhi e le interpretazioni mercenarie dei media,dei falsi profeti, che hanno interesse a giocare nel torbido. Noi abbiamo i nostri occhi. Occhi che devono scrutare alla Luce dello Spirito. Dobbiamo combattere lo sconforto, la rassegnazione, dobbiamo entrare nella mischia, dobbiamo indicare alla gente quelli che sono i segnali discreti della presenza di Dio, la sua bontà, i suoi progetti d’amore. Dobbiamo soprattutto dimostrare con la nostra vita, di averli capiti questi progetti, di averli fatti nostri: perché questo significa dare lode a Dio; questo significa avere fede; questo, soprattutto, significa amare. Viviamo dunque nella luce e vivremo in Dio. Amen.



venerdì 17 marzo 2017

19 Marzo 2017 – III Domenica di Quaresima

«Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: Dammi da bere. I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? .I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. (Gv 4,5-42).

Gesù, dopo un lungo viaggio sotto il sole, giunge a Sicar, in Samaria, e si siede presso il pozzo di Giacobbe, chiamato così perché si trovava nel terreno che “Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe”. È dunque qui, a questo pozzo, che avviene l’incontro meraviglioso tra Gesù e la Samaritana, di cui ci parla il vangelo di oggi.
Ovviamente, come al solito, per capire bene il significato di questa situazione, dobbiamo calarci nella logica e nella mentalità di quel tempo. Prima di tutto, perché scegliere proprio un pozzo come luogo dell’incontro?
Per noi, oggi, un pozzo non rappresenta nulla: ma a quel tempo era il luogo in cui avvenivano gli “incontri” importanti della vita: il pozzo, l’acqua, era l’elemento fondamentale, indispensabile per la sopravvivenza, per cui tutti andavano al pozzo, uomini e donne. E data la grande affluenza, era visto come il luogo degli incontri sentimentali, della “ricerca dell’amore”, un luogo in cui era possibile trovare l’anima gemella o semplicemente una donna o un uomo.
Gesù riesce a scavalcare anche qui tutti i luoghi comuni, tutte le “barriere”: quella del sesso, perché per ad rabbì come lui, era proibito rivolgere la parola ad una donna fuori di casa; quella della razza, perché i samaritani, a causa dei matrimoni misti con gli impuri Assiri, erano considerati dei bastardi; la barriera della nazionalità, in quanto i samaritani, abitanti in una regione diversa, erano considerati dei forestieri; la barriera della religione, perché erano considerati scismatici, impuri; infine la barriera della convenienza, perché rivolgere la parola ad una donna, al pozzo, significava corteggiarla, farle degli approcci, in una parola “provarci”. Gesù dunque rompendo ogni schema, parla tranquillamente con la Samaritana.
Nella sua vita egli fu un uomo libero, e grazie a questa sua libertà, fece degli incontri meravigliosi. Gesù non giudicava e non condannava a priori le persone, non si faceva preclusioni su di loro, né aveva pregiudizi: le incontrava e basta. Non rifiutava mai nessuno. Non ha mai detto: “Questo no perché è ricco (Zaccheo); questa no perché dicono che è una donna di malaffare (l’adultera, la samaritana); questo no, perché lo sanno tutti che è un ladro (Levi); questo no, perché la legge non lo permette (guarire di sabato); questa no, perché è una cosa sconveniente (la donna che lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò); questi no, perché sono pagani, eretici (samaritani); questi no, perché sono peccatori (i pubblicani, le prostitute)”.
Lui controllava tutto personalmente, voleva rendersi conto di come stavano realmente le cose.
Un comportamento decisamente fuori dagli schemi, a causa del quale fu considerato un anti-dio e condannato a morte: era evidentemente un personaggio scomodo e inopportuno soprattutto per le autorità de tempio e per tutte quelle persone piene di regole, dalla mentalità rigida e ristretta.
Gesù era un uomo assolutamente “libero”: talmente libero da non permettere in alcun modo che ideologie, barriere religiose, discorsi della gente, o quant’altro, gli impedissero di incontrare qualunque persona. Di fronte alle “regole”, alle convenienze che dicevano: “Non incontrare costui”, Gesù diceva: “E perché no? Lo voglio incontrare di persona, voglio parlarci, sentire il suo cuore... poi vedremo”.
Gesù dunque, è stanco, affaticato, accaldato: siamo verso mezzogiorno; vista la donna che stava sopraggiungendo al pozzo per attingere acqua, senza tanti preamboli, le chiede da bere.
Gesù è solo: gli apostoli si erano assentati per andare in paese a cercare del cibo.
La donna rimane interdetta dalla richiesta di Gesù e gli chiede: “Come mai tu, che fra l’altro sei Giudeo, chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?”. È giustamente sospettosa, perché si rende immediatamente conto che l’uomo che le ha rivolto la parola, oltre ad essere da solo, era oltretutto uno “straniero”. Che poi quell’uomo fosse anche un rabbino, un “maestro”, era una cosa piuttosto insolita.
Era quindi naturale che la donna pensasse a Gesù come ad uno che “ci provasse”. Anche perché dopo le prime schermaglie, egli porta il discorso su di un livello molto personale, intimo: “Va a chiamare tuo marito e ritorna qui”.
La donna fin dall’inizio continua a rispondere alle pressanti domande di Gesù, eludendo il loro significato “spirituale”: continua cioè il colloquio mantenendosi su un piano decisamente materiale, contingente; si difende bene, cerca di essere brillante, a volte anche sarcastica (ma bene! Se hai di quest’acqua miracolosa, che come dici tu toglie completamente la sete, dammene in abbondanza, così non dovrò più sobbarcarmi la fatica di venire qui tutti i giorni al pozzo!); fino a quando Gesù opera l’affondo decisivo, entrando nella sua vita privata. Con il suo invito diretto, la mette in difficoltà, la scopre, rivela la sua debolezza. Impreparata a ciò, la donna, sempre più diffidente, cerca di sottrarsi, fugge a questo tipo di discorso dicendo: “Non ho marito”.
Ma Gesù continua, la mette di fronte alla dura verità: “Sì, dici bene di non aver marito. Ma non perché tu non ne abbia avuti. Ne hai già avuti cinque di mariti e questo che hai adesso in effetti non è tuo marito”. Il che tradotto in parole povere, significa: “sei una donna di facili costumi!”.
Siamo sempre presso un pozzo e il pozzo è simbolo di profondità. Il pozzo costringe a scavare, ad andare a fondo per tirare fuori ciò che c’è sotto, ciò che c’è di nascosto.
Gesù non fa il moralista; anche se gli era capitata un’occasione unica: lui giudeo con una donna così “disinvolta” e per giunta samaritana!: “Non ti vergogni! Ma che razza di donna sei! Vivi nel peccato! Sei impura!”. Egli si limita a costringere la donna ad ammettere nella sua vita una verità dura e difficile: “Ho avuto tanti uomini ma nessuno mi ha mai riempito l’anima; nessuno è mai stato in grado di placare la mia sete interiore”.
Ecco: Gesù è l’unico che ci mette di fronte alla nostra verità. Gesù non fa sconti sulla nostra vita; Lui non ci giudica, non ci condanna, ma vuole che scendiamo nel nostro pozzo, che andiamo dentro di noi, e che tiriamo fuori le cose per come stanno veramente.
Incontrare il Signore è dirsi la verità, non mentirsi, non raccontarsi “balle”.
A volte noi sentiamo che dietro le nostre affermazioni c’è qualcosa che andrebbe rivisto, indagato, portato fuori, a galla. Ma non ci spingiamo oltre perché è meglio “non crearci troppi problemi”. Così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all’incontro con noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore, a tutte le sue potenzialità. Così facendo viviamo una vita ipocrita, mascherata, non nostra: mostriamo una verità che non è verità, una immagine falsata, un’immagine distorta, costruita a beneficio degli altri; e così facendo fuggiamo da noi stessi. Vivere una vita non nostra non può che portarci inevitabilmente all’insoddisfazione e all’infelicità.
La verità è difficile da accettare quando abbiamo qualcosa da nascondere, da difendere. La verità è l’unica strada per raggiungere Dio: perché dirsi la verità, significa cercarla in profondità, nella nostra anima, dove Dio risiede, e incontrarlo faccia a faccia.
Se la donna non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono ancora affamata d’amore”) non avrebbe potuto incontrare l’Amore vero, il Signore Gesù, colui che toglie ogni sete.
È chiaro che se dobbiamo difendere altre “verità”, è impossibile dirci la verità.
Se vogliamo a tutti i costi che la nostra famiglia sia considerata perfetta, non possiamo certo ammettere che in casa nostra ci siano dei problemi. E se ci sono, li sminuiamo, li nascondiamo, li seppelliamo.
Se dobbiamo difendere la nostra immagine di persone “superiori” non possiamo far vedere di essere in crisi, non possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di essere defettibili, non possiamo insomma rivelare la nostra debolezza, le nostre deficienze.
Quando pensiamo che almeno le persone più care, quelle che amiamo di più, prima o poi riusciranno a placare il nostro malessere, la nostra inconfessata sete di assoluto, di Amore, di Dio, ci illudiamo, siamo completamente in errore; perché pretendiamo da loro qualcosa che non possono darci. Siamo come la Samaritana: affamati di vero amore, ma senza qualcuno che possa effettivamente soddisfarci; le persone possono farci l’impossibile, ma a noi non basterà mai, saremo sempre insoddisfatti; inutile pretendere da qualcuno ciò che non potrà mai darci. Commetteremmo un imperdonabile “peccato”: peccato, in ebraico, significa appunto “sbagliare centro, non cogliere l’obiettivo, fallire una scelta”; in tal caso avremmo completamente sbagliato la “fonte”: perché solo Dio può colmare la nostra inestinguibile sete d’amore. “Avere fede” significa allora non perdere mai di vista il nostro obiettivo finale, il motivo per cui ci troviamo in questo mondo, quel “qualcosa” che dobbiamo realizzare, seguire, vivere: quello insomma per cui Dio ci ha creati. Se viviamo per futili motivi, se siamo concentrati solo su “obiettivi” transitori, falsi, insicuri, se la nostra chiamata, la nostra personale “vocazione” è l’ultima delle nostre preoccupazioni, allora vuol dire che abbiamo mancato in pieno lo scopo della nostra vita.
In tutti i nostri rapporti umani è importante che ci sia la preghiera, lo spirito, la fede. Se non c’è la fede facciamo di chiunque altro un falso Dio e gli chiediamo l’impossibile.
Gesù nel vangelo si spinge ancor oltre. Non solo dice: “Non fare di nessun uomo il tuo Dio”, ma addirittura: “Non fare di nessuna autorità, di nessuna esperienza, di nessuna associazione, di nessun gruppo parrocchiale, il tuo Dio”.
È decisamente difficile per noi accettare il significato e le conseguenze delle parole di Gesù:
“È questa l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano”.
Ma dov’è in concreto questo Dio che dobbiamo adorare? Lo troviamo forse in chiesa, nei vescovi, nei preti, in una liturgia solenne, nelle persone che si sacrificano per il prossimo, in noi quando preghiamo? Forse sì, forse no. Dio non è riconoscibile necessariamente in un “luogo” o in una “persona”. Certo, per noi è più facile e più gratificante localizzarlo al di fuori di noi: magari seduto su di un trono celeste, dotato di poteri magici, circondato da creature soprannaturali che lo servono; oppure incontrarlo nelle grandi feste annuali (Natale, Pasqua), nelle solenni liturgie, nei dogmi di fede, nelle località “religiose” più celebri e visitate, o nella maestosità delle cattedrali. In questo modo ci risparmiamo lo sforzo di scrutarci nel profondo, di esaminarci, di decifrare bene la nostra anima, per riuscire ad individuare, a restituire concretezza e percepibilità al Dio, Amore assoluto, che ci inabita.
Perché Dio non è qui o lì: Dio è soltanto dove c’è Spirito e Verità. Questo è il criterio. Allora nella nostra vita non dobbiamo tanto preoccuparci di “come” appariamo esteriormente, di come gli altri ci percepiscono, se siamo brillanti, professionali, al top, ecc., quanto piuttosto di “chi” siamo interiormente, se cioè nel nostro parlare, nel nostro agire, nel nostro amare, traspare lo Spirito e la Verità. Se è così, allora sicuramente Dio è in noi. Perché quando un uomo è fedele alla sua coscienza, aderente allo Spirito, attento agli slanci del suo cuore, Dio è in lui. Non importa se si dichiara credente oppure ateo: Dio in ogni caso, è in lui.
Quando un uomo trasforma se stesso nella Verità e vive alla luce dello Spirito, Dio è in lui. Quando un uomo ama, rispetta, onora tutti gli esseri viventi, Dio è in lui.
Un giorno durante una conferenza fu chiesto al prete che parlava: “Ma nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, c’è Dio?”. E lui rispose: “Se c’è spirito e verità, allora Dio c’è!”.
Non so se nelle nostre comunità parrocchiali ci sia Spirito e Verità: so per certo però che se ci sono, lì c’è Dio. Amen.



venerdì 10 marzo 2017

12 Marzo 2017 – II Domenica di Quaresima

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,1-9).

Pietro e gli altri che furono tra i primi a seguire Gesù non avevano ancora capito bene chi egli fosse. Nonostante avessero passato molto tempo insieme, continuavano a proiettare su di lui le loro personali aspettative: lo vedevano cioè come il Messia energico, potente, l’unto di Dio, che avrebbe sistemato con la forza e le armi la tragica situazione politica del paese occupato dai Romani, riportandovi giustizia, pace, benessere. Questo era ciò che loro pensavano, ma non quello che Gesù era in realtà. Era necessario quindi che la loro idea subisse in modo spettacolare un cambiamento radicale e definitivo.
Gesù dunque prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta sulla cima di un monte. Perché proprio loro? Perché sono nel gruppo gli elementi più “in vista”: sceglie Pietro, uomo di riferimento, uno “solido”, tutto d’un pezzo, personaggio già destinato ad essere il futuro “leader”; sceglie poi Giacomo e Giovanni, i due fratelli soprannominati i “boanèrghes”, gli ambiziosi “figli del tuono”, proprio per la loro voglia di emergere, di primeggiare, al punto da candidarsi più tardi ad occupare i primi posti nel nuovo Regno di Gesù. Un trio insomma che costituiva lo “zoccolo duro” del gruppo, convinto com’era del carattere esclusivamente politico della missione di Gesù. Erano pertanto le persone che più di ogni altra necessitavano di uno straordinario e spettacolare “scossone”.
Se domenica scorsa era stato satana a condurre Gesù nel deserto, adesso è Gesù che conduce i suoi “satana” in cima al monte. E cosa succede lassù?
Improvvisamente “vedono” apparire Mosè ed Elia, i due personaggi chiave della storia di Israele, oltretutto mai morti ma rapiti in cielo: entrambi avevano incontrato Dio “faccia a faccia” sullo stesso monte Sinai (detto anche Horeb): Mosè, il promotore della Legge, della Torah, grande condottiero del popolo, l’artefice della liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto; Elia, grande profeta e severo restauratore della Legge, al punto da imporne a tutti l’osservanza con uno zelo che rasentava la violenza! Quindi due “icone” della Scrittura, due “veterani” del rapporto personale con Dio.
Pietro come al solito reagisce per primo e dice a Gesù: “Signore, che bello per noi stare qui: se vuoi facciamo tre tende, una per te, una per Mosè ed una per Elia” (17,4). È chiaro che è molto colpito dalla situazione: ne è estasiato, felice, sente dentro di se esplodere gioia, meraviglia, stupore e nello stesso tempo grande timore. Ma perché pensare subito a delle “tende”, come a voler prolungare nel tempo quella “festa”? Per capirlo dobbiamo rifarci alla “festa della mietitura” o delle Capanne, che Pietro conosceva molto bene: una festa importantissima, celebrata da tutto il popolo con grande sfarzo e solennità, dimorando per sette giorni in tende o capanne, a ricordo della marcia nel deserto fatta dal popolo, condotto proprio dal quel grande Mosè che aveva organizzato la fuga dalla schiavitù egiziana. Un Mosè che per Pietro meritava il massimo rispetto, al punto da riservargli la tenda più importante, quella centrale: era lui infatti l’esempio che Gesù avrebbe dovuto seguire, realizzando un’impresa analoga: liberare il popolo dalla schiavitù dei Romani e porre fine all’ingiustizia religiosa dei farisei.
A questo punto però Matteo molto acutamente fa notare che né Mosè, né Elia rivolgono una parola ai discepoli; non se li filano proprio, parlano solo ed esclusivamente con Gesù. Come mai? Perché questa è la novità: l’evangelista fa capire in pratica che Mosè ed Elia, ossia la Legge e i Profeti, non hanno più nulla da dire direttamente agli uomini, se non attraverso Gesù. In altre parole il Vangelo di Gesù abolisce la Legge mosaica e l’antico Profetismo; tutto ciò che Dio deve dire, da questo momento in poi, lo dirà soltanto attraverso la persona di Gesù, suo “figlio prediletto, nel quale si è compiaciuto” (17,5).
Per questo, dopo il primo momento di gioiosa meraviglia, i tre si rendono conto che quanto succede davanti a loro è “altro” rispetto alle loro supposizioni: vengono presi dall’ansia, dalla paura, e “cadono a terra”. Capiscono di essere coinvolti in una solenne manifestazione di Dio, e ricordando il detto della Scrittura: “Chi vede Dio faccia a faccia, muore” (Es 33,20), vengono assaliti dal terrore della morte. Cadere a terra, è segno di disfatta (1Sam 17,49); non capiscono il vero significato di tutto questo, ma intuiscono che la realtà è un’altra, che i loro sogni di restaurazione politica non possono trovare in Gesù alcun sostegno: le loro sono soltanto delle false illusioni, improponibili e irrealizzabili. La missione di Gesù ha un altro scopo: non sanno ancora esattamente quale, ma tanto basta per capire che il loro progetto è completamente fuori tema. E si perdono di fronte all’ignoto.
Gesù però si avvicina a loro, li “tocca” e li “rialza”: compie cioè gli stessi gesti (toccare e rialzare), pronuncia le stesse parole(“non abbiate paura”), esattamente come usa fare nelle guarigioni. E della loro guarigione si tratta: i tre infatti si “risvegliano” guariti dai falsi programmi che avevano costruito su di Lui.
Adesso lo vedono per quello che veramente egli è; scomparsi improvvisamente Mosè ed Elia, rimasto “solo”, Gesù è soltanto Gesù: tutti i loro “film” precedenti sono scaduti, privi di fondamento. Ora finalmente sono liberi di ricominciare.
È una grande conquista l’essere liberi da condizionamenti ideologici: dobbiamo riconoscere infatti che i “convincimenti”, le idee fisse, sono sempre e comunque fuorvianti. Quando ci “piantiamo” su un’idea, diventiamo illogici, vediamo solo ciò che vogliamo vedere noi: facciamo indossare agli altri delle maschere, dei ruoli, che non corrispondono alla loro autentica natura: per cui li vediamo non come sono nella realtà, ma come noi ce li immaginiamo.
Un fenomeno che ci succede spesso anche quando leggiamo il Vangelo: cioè non “vediamo”, “non capiamo”, ciò che effettivamente il testo dice, ma vediamo e capiamo soltanto ciò che “immaginiamo” esso dica; in pratica vediamo e capiamo ciò che fa comodo a noi.
Così, per esempio, per tanti secoli abbiamo attribuito a Dio l’immagine distorta di un Dio terribile, forte, vendicativo, un Dio più da temere che da amare, un Dio esigente, che gradisce soprattutto il sacrificio, la penitenza, l’obbedienza assoluta ai suoi precetti; un Dio che si arrabbia, che puntualmente ci punisce se non facciamo come dice Lui. In realtà il Vangelo insegna tutt’altra cosa: nel suo Vangelo, infatti, Gesù ha chiaramente rivelato un Dio che è Padre amoroso, misericordioso; ci ha svelato che il Regno di Dio è libertà, è verità posto al centro del nostro cuore e della nostra vita.
Così pure in tantissimi anni non abbiamo mai voluto vedere in Gesù un “guaritore” misericordioso, un innamorato dei deboli, dei sofferenti: abbiamo sempre preferito ignorare questa sua predisposizione all’amore, interpretando i suoi miracoli solo come manifestazione della sua divina potenza, piuttosto che della sua paterna bontà, del suo amore, della sua misericordia, della sua umanità più piena.
Sempre per questo motivo abbiamo volutamente sorvolato sulla cordialità dei rapporti umani che Egli intratteneva con gli uomini, le donne e i bambini; abbiamo fatto finta di non vedere la sua libertà, la sua generosità, la sua “passione” nelle relazioni sia maschili che femminili; abbiamo bypassato i suoi sentimenti umani, fino a pensare che a causa della sua perfezione divina Egli ne fosse totalmente sprovvisto: per questo in Lui non abbiamo voluto vedere (bastava leggere!) l’uomo che ha pianto, che si è disperato, che si è angosciato, che ha avuto paura, che ha sopportato pazientemente rifiuti, incomprensioni, derisioni, oltraggi, percosse e via dicendo.
Anche noi come i tre del Tabor, dobbiamo allora fare il grande “passaggio”, dobbiamo fare il nostro “trasfigurante” reinserimento nella vita, per vedere le cose, le persone e Dio stesso per quello che sono, nella loro realtà e genuinità, e non attraverso il filtro deformante dei nostri personali condizionamenti ideologici.
Questa è stata in pratica la loro esperienza trasformante: hanno cioè “girato pagina”, hanno “perduto” il Dio della Legge e dei Profeti, il Dio dell’Antico Testamento, il Dio che intere generazioni prima di loro avevano conosciuto e con cui loro stessi erano cresciuti, ed hanno “trovato” il “nuovo”, il vero, l’autentico volto di Dio nel volto di Gesù.
Ecco, il vangelo ci dice proprio questo: Gesù “fu trasfigurato davanti a loro e il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Quello che ora essi vedono è il volto di un Gesù inedito per loro, di un Gesù nuovo, completamente diverso da ogni loro precedente immaginazione. Le squame dei pregiudizi, degli egoismi, delle superstizioni, della politica, sono cadute definitivamente dai loro occhi.
E allora chiediamoci: possiamo vivere anche noi una “trasfigurazione” simile? In tal caso, quali cambiamenti, cosa dobbiamo aspettarci in concreto di vedere?
Beh, prima di tutto va chiarito che la “trasfigurazione” non è un fenomeno che possiamo vedere con gli occhi fisici, ma lo possiamo percepire solo con gli occhi del cuore, della fede. Un’esperienza, ovviamente, che sarà possibile solo a quanti dispongono di questi occhi, a quanti cioè avranno la sensibilità di sentir nascere e crescere dentro il loro cuore i semi di questa “trasformazione”, con la gioia prorompente che l’accompagna, e di “viverla”.
“Dio è amore”, dice l’evangelista Giovanni. E solo chi sa aprirsi all’Amore può capire Dio, può immedesimarsi nella trasfigurazione di Gesù. Tutti quelli che non sanno spalancare il proprio cuore, non potranno mai sentire quanto Lui sia Amore e continueranno a cercare invano.
Ma a noi, nel nostro piccolo, come e quando può capitare una “trasfigurazione”? Non è un qualcosa riservata ai santi, alle persone votate unicamente a Dio che vivono “eroicamente” la loro fede?
Nossignori: tutti nella vita possono vivere attimi “speciali” di trasfigurazione”, percepire, sentire, sperimentare la bontà, la bellezza di Dio-Amore. Così, per esempio, quando ci succede di commuoverci davanti alla serenità di un volto sofferente, quando usciamo vincitori dalle nostre lotte interiori, ottenendo delle piccole conquiste spirituali; quando vinciamo le nostre paure, affrontando difficoltà che prima ci sembravano insuperabili; quando ci capitano momenti meravigliosi, assolutamente impensabili; quando nelle sofferenze si aprono nuovi spiragli di vita; quando ci innamoriamo di una persona speciale; quando nel buio del dolore per la morte di una persona cara entra la luce della rassegnazione; quando da perduti che pensavamo di essere, ci siamo ritrovati; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo, ha un senso e uno scopo particolarissimo; quando percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, la ricchezza della sua anima; quando ci commuoviamo di fronte alle prime conquiste di un bimbo, alle sue “uscite”, ai suoi occhi luminosi che ci cercano; quando siamo rapiti dalla bellezza struggente di un tramonto, dalla luminosità prorompente del sole che si alza dal mare, dalla maestosità regale delle vette che si fondono col cielo, dalla leggiadria di un fiore, dal rinnovarsi perpetuo della natura e delle stagioni. Quando, in una parola, la nostra anima si fonde in Dio e i nostri occhi riacquistano l’innocenza dell’amore, ecco: è allora che noi viviamo i nostri momenti di “trasfigurazione”. È allora infatti che, commossi, possiamo avvertire tutta la forza, la bellezza, l’intensità della vita che ci scuote l’anima. Sono quelle esperienze personali nelle quali non possiamo rimanere impassibili, non piangere dalla felicità, dalla gioia, dalla commozione.
Una volta pensavo che commuoversi, piangere, fosse una dimostrazione di debolezza. Oggi so che vuol dire essere vivi, “sentire” ciò che viviamo, “sentire” ciò che gli altri vivono; che vuol dire lasciarsi toccare, lasciarsi colpire, lasciarsi investire da ciò che succede: non essere freddi come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo.
Il mondo che non crede, ci dirà che siamo matti a voler insistere sulla fede: e nella sua incredulità, nella sua superficialità, continuerà ad essere infelice. Noi invece, “trasfigurati” dall’amore di Dio, saremo felici, davvero tanto, tanto felici.
Elias, 37 anni, era un uomo impegnato nella liberazione dei ragazzi dalla prigionia delle Favelas, in Brasile. Un giorno gli squadroni della morte andarono a casa sua e lo uccisero. Sua madre quando lo vide sanguinante gli disse: “Figlio mio, te l’avevo detto di non occuparti di quella gentaglia!”. “Mamma, sono stato al mondo 37 anni: ho vissuto questi 37 anni con Dio. Sono felice di ciò che ho fatto. Lasciami andare!”. E così morì. Sul suo diario aveva scritto: “Quando incontri Dio non puoi più essere lo stesso, non puoi più far finta di non vedere, non puoi più tirarti indietro. Lui ti fa vivere davvero”. Amen.



venerdì 3 marzo 2017

5 Marzo 2017 – I Domenica di Quaresima

«Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,1-11). 

La liturgia propone ogni anno, nella prima domenica di quaresima, il vangelo sulle tentazioni di Gesù. Cerchiamo allora di capire esattamente in cosa consistono queste “tentazioni”, come mai siano riportate da Matteo con così tanti particolari. C’è da dire, prima di tutto, che l’episodio delle tentazioni non è un fatto storico inteso come lo pensiamo noi: che cioè Gesù sia stato “fisicamente” per quaranta giorni nel deserto e che lì si sia scontrato materialmente con il diavolo. No: il racconto di Matteo non è un evento “storico”, ma una riflessione “haggadica”; una riflessione personale, cioè, con cui l’evangelista, volendo sottolineare la particolare importanza dell’insegnamento di Gesù, lo ha fatto imitando lo stile dell’Haggadah, ossia il metodo abituale con cui i rabbini commentavano i vari passi della Bibbia, arricchendoli con racconti, aneddoti ed esortazioni morali per renderne più comprensibile il messaggio: un metodo quindi, quello di Matteo, con cui esprime in immagini non tanto un fatto storico, ma una dimensione, una possibilità, un qualcosa di importante che Gesù ha vissuto durante la sua vita terrena: nel nostro caso, appunto, le lusinghe di satana, per indurlo ad usare il suo potere, le sue conoscenze, la sua posizione di Figlio di Dio, per scopi diversi da quelli che costituivano le linee guida della sua missione.
In un unico episodio e con delle immagini molto plastiche, Matteo dunque concentra in questo racconto quello che è successo durante l’intera vita di Gesù: le tentazioni cioè di seguire la strada del godimento, del possesso, della potenza, e non quella della Croce, l’unica che Egli doveva percorrere.
Leggiamone allora i particolari: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto”.
Siamo subito dopo il Battesimo nel Giordano: si erano appena “aperti i cieli”, e lo Spirito di Dio era sceso su di Lui; è l’investitura ufficiale di Gesù da parte di Dio: lo Spirito del Padre, lo Spirito dell’Amore, lo riconosce pubblicamente davanti al popolo: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. Parole di consacrazione, attraverso le quali Gesù percepisce che il Padre è al suo fianco: una presenza di accoglienza, di sostegno, di predilezione, di amore incondizionato.
Ebbene: quello stesso Spirito subito dopo lo spinge, lo manda, lo “conduce” nel deserto: il verbo greco anècze (fu portato), usato al passivo, indica chiaramente che è lo Spirito che vuole questo; è lo stesso Dio di prima che lo manda laggiù, per vivere un’esperienza difficile e traumatica.
Questo ci aiuta a capire come la nostra idea di Dio sia falsata. Per noi, infatti, se una cosa è bella, buona, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio; se al contrario è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non può venire che dal demonio, dal male.
Ma qui non è così: è Dio stesso, il suo Spirito, il Padre amoroso che “spinge” Gesù nel deserto per confrontarsi col maligno. Questo ci dice che tutto quanto ci capita, qualunque cosa, buona o cattiva, che ci riservi la vita, viene sempre da Dio, è Lui che la permette. Non chiediamoci più allora se una certa situazione dipenda dal diavolo o da Dio: chiediamoci piuttosto quale sia la prova, quale la difficoltà, il passaggio, che dobbiamo affrontare e superare nella nostra crescita. Satana infatti non è il male in sé, ma un ostacolo, uno sbarramento che ci complica il cammino verso il bene, un passaggio obbligato che ciascuno di noi deve compiere per evolvere, per liberare le sue energie, le potenzialità che sono dentro di noi. Per cui l’unica competenza del demonio, la sua unica funzione, peraltro a noi indispensabile per raggiungere la maturità, è quella di farci crescere. Non imputiamo quindi a lui l’onere delle nostre colpe, delle nostre deficienze: è molto comodo scaricare su di lui la responsabilità dei nostri errori, del nostro egoismo! Non attribuiamo al diavolo un ruolo decisionale che non gli appartiene: “È colpa sua, è lui che l’ha voluto, che posso farci io?”. Che possiamo farci? A chi spetta, se non a noi, decidere cosa fare? Solo noi siamo gli unici preposti alla soluzione dei nostri problemi. Nessun altro.
Dio, al massimo, può riservarci ogni tanto lo stesso trattamento riservato al Figlio: quando cioè è venuto il momento per noi di dimostrargli la serietà delle nostre convinzioni, la nostra sincerità di figli, una prova del nostro amore, ci spinge nel “deserto”, a fare i conti con le tentazioni del maligno; vuole cioè che anche noi, come Gesù, ci confrontiamo con i nostri demoni, li combattiamo faccia a faccia e li vinciamo. La parola “tentare” (in greco peirazo) equivale infatti a “mettere alla prova, verificare, fare un test”.
Un po’ come succede ai nostri ragazzi a scuola con la “verifica”, con l’esame: i professori vogliono sapere se hanno studiato, se sono preparati ad affrontare il corso della vita. La tentazione è la stessa cosa. La tentazione non è Dio che vuol “farci cadere in errore, farci sbagliare, che ci seduce per provare se siamo forti”. No, Dio non è così cattivo: Dio vuole che siamo noi stessi a renderci conto se siamo sinceri, convinti delle nostre promesse, leali con Lui: che siamo noi stessi a controllare il grado di autenticità della nostra fede. La tentazione è quindi un dono, non un male: infatti ogni volta che ne usciamo vincitori, oltre all’intima soddisfazione di scoprire in noi quella forza che prima pensavamo di non avere, riceviamo una carica di ottimismo, uno stimolo reale a dimostrare sempre più intensamente il nostro amore a Dio .
Ecco perché è necessario entrare nel “deserto”, ecco perché dobbiamo essere tentati, ecco perché dobbiamo affrontare i nostri demoni. Con coraggio, senza temere che la nostra onorabilità venga meno, sia imbrattata, oltraggiata: nessuno potrà mai farlo se non noi stessi, perché l’ultima parola, quella decisiva, è solo ed esclusivamente nostra.
Convinciamoci che ogni ingresso nell’ombra, nella zona buia della tentazione, anche se all’inizio può farci paura, ha sempre il pregio di portare con sé un dono di luce, un prova di maturazione, un’esperienza diretta del nostro amore da offrire a Dio.
I regali più belli non ce li fanno gli altri, ce li facciamo noi andandoli a cercare coraggiosamente nel nostro deserto, nelle nostre zone d’ombra: i tesori più preziosi sono nascosti “dentro” di noi e per ottenerli vanno cercati; le nostre migliori possibilità sono come le perle preziose, nascoste nel “fondo” del mare, rinchiuse “dentro” le loro ostriche: solo portandole alla luce, possono sprigionare la loro bellezza, ed irradiare ovunque il loro fascino.
La pienezza, la perfezione, non è data dal possedere tante cose, ma dal “tirar fuori” quei doni, quelle ricchezze che sono dentro di noi, e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere.
Quello che ci attende è dunque un cammino importante, un passaggio obbligato nel profondo della nostra anima, per riappropriarci delle nostre “terre promesse”, per rilanciare i nostri propositi di conversione trascurati, inascoltati, abbandonati. Dobbiamo certo misurarci con i nostri demoni; ma è necessario per rispondere coraggiosamente alle grandi domande della nostra esistenza, quelle domande rimaste disattese, accantonate, ignorate fino ad oggi:  “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Come voglio vivere? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto? Fino a che punto sono disposto ad ascoltare la Voce che ho dentro?”. Domande alle quali possiamo dare una sincera risposta soltanto nella solitudine dell’anima, nel nudo confronto con noi stessi; perché possiamo raccontare delle belle storie a tutti, possiamo illudere chiunque, mai noi stessi!
“Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti…”. Cosa dobbiamo fare dunque nei nostri “quaranta” giorni, nel nostro deserto quaresimale? Dobbiamo digiunare! Dobbiamo cioè vietarci l’assunzione di tutti quei “cibi” dannosi, malefici, che degradano e avviliscono l’anima, saziando esclusivamente il nostro delirio di onnipotenza.
Sono tre le tentazioni che satana propone a Gesù: non sono inviti espliciti a fare delle cose peccaminose, ma delle seduzioni molto fini, intriganti. Si tratta di tentazioni molto attuali anche per noi, perché ogni uomo le conosce bene, le accetta volentieri, le usa abbondantemente.
La prima: “Dì che questi sassi diventino pane”. È la tentazione “del pane”, del benessere personale, dell’assicurarsi la prosperità materiale anche a scapito degli altri.
Il diavolo sa che Gesù è Figlio di Dio: a lui non interessa mettere in dubbio questa sua figliolanza divina, ma di suggerirgli i vantaggi che da essa egli potrebbe ricavare. “Usa le tue eccellenti capacità, il tuo prestigio popolare, ad esclusivo vantaggio della tua persona”. In altre parole Satana invita Gesù a spogliarsi della sua divinità, ad abbandonare la sua missione d’amore, per vivere in modo umano, egoistico, usando le sue potenzialità solo per risolvere le esigenze materiali, i suoi problemi quotidiani, per agevolare la sua “carriera”. È la tentazione di fare a meno di Dio, come era già stato per Adamo. Ma per Gesù l’unico cibo valido è quello di fare sempre e comunque la volontà del Padre. Egli, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto trasformare in pane tutti i sassi di questo mondo: ma non lo ha fatto. Per Lui agire egoisticamente a proprio tornaconto, disinteressandosi del prossimo, è una scelta destabilizzante, diabolica: diventa invece un miracolo autentico quando i doni di Dio vengono messi a servizio esclusivo dei fratelli bisognosi.
La seconda: “Gettati giù dal pinnacolo del tempio e gli angeli ti sorreggeranno”. Il tentatore in pratica non fa altro che dire a Gesù: “Fai quello che la gente si aspetta da te. Non sei il Messia? Comportati e mostrati comunque come tale. Tutti si aspettano che tu venga in modo prodigioso? Accontentali! E visto che ci sei e che puoi (sei figlio di Dio!), lanciati e fatti sostenere dai tuoi angeli, così tutti sapranno che tu sei il Messia”. Tra le varie cose che la gente si aspettava dal Messia, c’era anche una sua spettacolare manifestazione nel tempio di Gerusalemme: ora, il suo “pinnacolo” era il punto più alto, più in vista: se Gesù avesse fatto qualcosa di spettacolare da quell’altezza, tutti lo avrebbero potuto ammirare. Un fenomeno un po’ da baraccone, ma questo era il Messia che allora la gente si aspettava: se però Gesù fosse diventato un simile Messia, non sarebbe mai stato il Figlio di Dio che noi conosciamo. In pratica è la tentazione della “religione”: una tentazione umana molto forte anche oggi è quella di usare Dio e le parole del Vangelo per i propri fini, per un proprio tornaconto, che con Dio non c’entra proprio nulla! La storia è piena di questo falso uso delle Scritture e delle tradizioni religiose. In nome di Dio si sono fatte e si fanno guerre fratricide, si continua a commettere ingiustizie enormi. Con il risultato di far allontanare dalla fede intere generazioni.
Qui vuol dire che se riusciremo ad accontentare tutti, a costo di qualunque compromesso, avremo sicuramente l’approvazione generale, ma perderemo noi stessi. Così, facciamo pure leggi contro la morale naturale, leggi che certa gente pretende a tutti i costi: sicuramente otterremo voti e tanto consenso umano, ma tradiremo Dio e la nostra coscienza, rendendola sorda e inefficace. Cerchiamo pure, con la nostra abilità untuosa, l’approvazione dei capi, dei potenti, delle persone che contano: non avremo più problemi dall’alto, ma avremo perso completamente la nostra libertà. Cercare infatti ad ogni costo l’approvazione, il consenso degli altri, per Gesù è una scelta diabolica, perché significa rinunciare alla propria missione, tradire il proprio “mandato”, diventando dei “traditori”, piuttosto che “servitori” dei fratelli.
Infine la terza tentazione: il diavolo alza ancora il prezzo; non c’è riuscito con la fame e con la religione, per cui a questo punto tira in ballo la seduzione più forte: la ricchezza.
“Ti darò tutto questo se prostrandoti mi adorerai”. Una ricchezza smisurata a prezzo della rinuncia alla nostra intelligenza, alla nostra dignità; a prezzo di una viscerale sottomissione alle leggi nefaste del male: “fai quello che ti dicono”. E questa volta il diavolo porta Gesù su di un monte altissimo. Perché? Perché la vetta del monte anticamente era considerata la residenza degli dei: per cui salire lassù in alto, significava entrare in una condizione superiore, divina. Essere come Dio, allargare il possesso su tutto e su tutti, è sempre stata la massima aspirazione dell’uomo. In cambio, però, il diavolo chiede una cosetta non proprio insignificante: abbassarsi a fare sempre quello che vuole lui.
Una cosa, tutto sommato, ci riesce abbastanza facile: se tutti fanno così, se tutti si comportano in un certo modo, perché non ci adeguiamo anche noi? È più semplice che non creare problemi per remare contro, per voler distinguersi dalla massa! Se tutti dicono di essere cattolici, di vivere da buoni cristiani, ma all’atto pratico trascurano completamente i valori del vangelo, chi siamo noi per ribellarci a questo andazzo? Facciamo anche noi altrettanto! Del resto non dipende da noi, non è colpa nostra, è il mondo che va così, è la convivenza sociale che impone questa scelta; non possiamo farci nulla!
Oggi siamo schiavi dei budgets economici, degli obiettivi da raggiungere, dei mercati e della concorrenza: le lobbies finanziarie impongono al mondo di seguire una certa direzione di loro gradimento? Tutto il popolo bue deve adeguarsi. Ma se tutti i governanti preferiscono defilarsi, se tutti i media prezzolati continuano a magnificare tali iniziative, se tutte le popolazioni sottostanno passivamente a simili imposizioni, dove andremo a finire?
La mentalità dominante nella società contemporanea è che purtroppo il denaro può tutto; che la “bustarella” è il motore che muove ogni decisione umana. Non la cultura, non la religione, ma è il denaro che stabilisce i criteri guida di una società: non i valori morali, ma la potenza del denaro condiziona la vita globale. Tutto ha un “suo prezzo”: basta solo trovare quello giusto per far cambiare indistintamente opinioni, leggi, scelte di vita. È la cosiddetta “etica del quanto”; ci sono persone che sembrano rifiutare certi accorgimenti, sembrano resistere a certi livelli di corruzione: ma di fronte al rialzo del prezzo finiscono per modificare anch’essi il loro costume, perdere la loro moralità, la loro integrità, la loro coerenza.
Ebbene: quale è a questo punto il nostro prezzo? Siamo davvero convinti che nulla può portarci fuori strada, che nulla può farci rinnegare le nostre scelte di valore, i principi guida della nostra coscienza? La fede che professiamo ci rende immuni dal cedere alle tentazioni dell’affermazione egoistica, del potere assoluto, della ricchezza smisurata?
Beh, perlomeno è consolante sapere che anche Gesù è passato per questa strada stretta, e che anche lui è stato messo alla prova del “fregarsene degli altri” quando aveva fame, dell’affermare il proprio prestigio, dell’essere immune dal “prezzo giusto”.
Lui è rimasto fedele in tutto. Affidiamoci allora a Lui in queste nostre prove con le quali purtroppo la nostra vita deve fare continuamente i conti. Come Gesù ha sconfitto il suo tentatore, così anche noi, con il suo aiuto, faremo sicuramente altrettanto. Amen.



giovedì 23 febbraio 2017

26 Febbraio 2017 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro…» (Mt 6,24-34)

Siamo sempre nel grande “Discorso della montagna”, considerato dagli studiosi come il “manifesto” di Gesù. Il brano che la liturgia ci propone in questa domenica, si apre con una esortazione programmatica: “siate voi stessi; nella vita perseguite un solo ideale; scegliete bene la vostra strada e siate costanti nel percorrerla, non cercate ovunque la soluzione dei vostri problemi, non ne verrete mai a capo”. Giusto, diciamo noi: ma come riusciamo a coniugare la decisione di “servire un solo padrone” con i mille problemi di sopravvivenza con i quali dobbiamo fare quotidianamente i conti?”. Si può e si deve, dice il vangelo: l’essenziale è fare le proprie scelte alla luce della fede, perché è con la fede che si può contare in ogni occasione sulla provvidenza di Dio.
E andiamo ai particolari del testo:
Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Parole note, sentite migliaia di volte, che tuttavia non abbiamo mai preso in seria considerazione. Anche perché, ripeto, ci sembrano illogiche, fuori dalla realtà, impraticabili.
Come la mettiamo per esempio con i doppi, i tripli “servizi”, e anche di più, con i quali spesso ci misuriamo nell’arco della “giornata”? E poi, è proprio vero che se si ama un padrone automaticamente dobbiamo disprezzare l’altro? È proprio vero che se preferiamo uno dobbiamo detestare l’altro? Nossignori, non è vero: tant’è che a noi capita spesso di sperimentare amore e apprezzamenti per l’uno e per l’altro “padrone”. Ma come al solito non è come pensiamo noi! Il Vangelo non si esprime in questo senso.
Qui i verbi “amare e odiare” non si riferiscono alle emozioni umane, agli stati d’animo, che un dipendente deve nutrire nei confronti del padrone; essi piuttosto intendono “qualificare” in senso positivo (amare) o negativo (odiare) gli effetti di una nostra scelta; non importa quale essa sia, l’essenziale è che deve essere una sola tra due alternative. È impossibile infatti cavalcare contemporaneamente due cavalli; come non possiamo stare nello stesso momento in due località diverse. Non possiamo insomma, nel corso della nostra breve vita, seguire contemporaneamente due stili di vita, opposti e incompatibili tra loro: o amiamo l’uno e odiamo l’altro, o viceversa.
“Nessuno può servire due padroni”: il senso letterale ci apparirà più chiaro se lo retrodatiamo ai tempi di Gesù: allora il servo, lo schiavo, aveva sempre, per definizione, un unico padrone. Per cui, dice il vangelo, se ha un padrone, non può averne un secondo; quindi, è impossibile anche per voi essere contemporaneamente servi di due padroni, non potete cioè “servire”, essere “schiavi”, di Dio e di mammona. Ma chi è questo “Mammona”? Cosa vuol dire essere schiavi di mammona?
Con “Mammona” (in ebraico “ma’amùn”, con la stessa radice di “emunà” = fede) gli antichi intendevano qualcosa che “dava fiducia”, un qualcosa su cui si poteva contare, fare affidamento: per cui “mammona” erano quei beni, quelle sostanze, che assicuravano una dignitosa sopravvivenza per il domani. Un termine quindi privo di qualunque connotazione negativa. Solo secoli più tardi esso ha assunto il valore di ricchezza disonesta, di beni conquistati iniquamente, con l’inganno, con egoismo vorace, senza scrupoli; in tal senso “mammona” è diventata sinonimo di “immorale, di iniquità, di male in assoluto”, di qualcosa insomma decisamente negativa. Per Gesù quindi questo termine è decisamente “negativo”: per cui è proibito dedicare a “mammona” ogni nostra iniziativa, proibito trasformarla in un assillo esclusivo, proibito “sceglierla” e rincorrerla come stile di vita, proibito insomma sottostare alle sue imposizioni, diventare suoi “servitori”, suoi schiavi.
Nella nostra vita si impongono pertanto, quotidianamente, delle “scelte oculate”. Ma in che cosa consiste esattamente questo nostro “scegliere”? Ebbene: “scegliere” vuol dire optare per “questo” e non per “quello”; vuol dire dirigere le nostre risorse, il nostro amore, tutto il nostro potenziale, in un’unica direzione, su di un’unica direzione, perché tutto e il contrario di tutto non possono simultaneamente coesistere. Scegliere vuol dire “plasmare” la nostra vita, darle valore: trasformarla, con le nostre scelte, in una vita onesta, dignitosa, corretta. Attenzione però: perché anche con le nostre “non scelte” sono già una scelta; una scelta peraltro improponibile per gente come noi che abbiamo scelto di camminare al seguito di Gesù.
Ogni scelta, insomma è un “sì” a qualcosa e un “no” a qualcos’altro: qui, la nostra scelta deve avvenire tra Dio e Mammona: non tanto tra un bene e un male ma, come ho detto, tra due diversi e incompatibili stili di vita. Gesù infatti, poco prima, ci aveva già messo in guardia:
“Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21).
I tesori della terra, “mammona”, sono precari, sono soltanto cibo per il corpo: non sono cattivi, ma sono limitati, distolgono l’attenzione da cose più importanti e indispensabili, danno solo una “parvenza” di sicurezza, nient’altro. I tesori del cielo, Dio, sono invece definitivi, sono cibo per l’anima: la riempiono, la fanno sentire davvero viva, vitale, felice.
La scelta spetta solo a noi: tocca a noi scegliere a che livello vivere, se con Dio o Mammona, se con la sicurezza o la caducità; facciamolo subito e bene! Se poi, attratti dalle lusinghe di questo mondo, la nostra vita non è come pensavamo, non lamentiamoci: perché gli unici responsabili delle nostre scelte siamo noi.
Se pensiamo che l’Eucaristia domenicale, gli incontri di “Ascolto della Parola”, di meditazione, di preghiera solitaria, siano “inutili”, tempo perso, e preferiamo vivere nello sconforto, nella frustrazione, nessun problema, nessun dramma: dipende solo da noi, siamo noi che scegliamo di vivere così!
Se non frequentiamo mai alcun corso di approfondimento religioso in cui imparare a crescere, a conoscere meglio la nostra fede, a metterci in gioco, a conoscerci nel profondo, a “convertire” la nostra vita, e ci sentiamo insoddisfatti, irrealizzati, privi di serenità, non lamentiamoci: siamo sempre noi che scegliamo di vivere a questo livello. Se il nostro unico pensiero, la nostra idea fissa, è quella di aumentare sempre più i nostri soldi; se siamo ossessionati dalla paura di essere criticati, giudicati male, inferiori agli altri; se le nostre preoccupazioni sono soltanto quelle di dove andare in vacanza, di quale vestito comprare, di quale moda da seguire, non lamentiamoci: siamo ancora noi che scegliamo cosa mettere al primo posto nella nostra vita.
Noi che ci riteniamo intelligenti, ottimi conoscitori di come vanno le cose del mondo, cerchiamo furbescamente di convivere con Dio e Mammona, saltellando un po’ dall’uno e un po’ dall’altra. Attenzione però: perché Dio può anche tollerare di essere ignorato, ma mai di essere messo al secondo posto. Non sarebbe Dio. Quindi facciamo le persone serie e decidiamoci: o l’Uno o l’altra; decidiamoci cioè se seguire Dio, Amore eterno, o gli idoli appariscenti destinati al nulla. Se essere figli del Dio vivente, nello splendore della Luce e dell’Amore vitale, o diventare delle maschere fredde, senza vita, buie, ombre funeree di noi stessi. Dipende solo da noi. Dipende dalla passione e dalla serietà con cui scegliamo, dalla fedeltà e decisione con cui poi difendiamo la scelta fatta: per essa dobbiamo insistere, faticare, lottare.
A questo punto facciamoci una domanda: cosa riteniamo essenziale per la nostra vita? Cosa abbiamo messo al primo posto? C’è un modo per saperlo? Certamente: perché nel nostro cuore occupa il primo posto ciò a cui pensiamo di più, ciò che condiziona continuamente la nostra attenzione, le nostre preoccupazioni, i nostri interessi! Per cui se pensiamo continuamente a goderci la vita, vuol dire che al primo posto ci sono i soldi. Se il nostro assillo è la disonestà della gente, perché fa di tutto per imbrogliare, per farsi solo i fatti suoi, allora al primo posto c’è la diffidenza. Se pensiamo sempre di essere delle vittime, di essere ingiustamente il bersaglio della cattiveria altrui, allora al primo posto c’è la rabbia. Se la nostra preoccupazione principale è quella di vestirci sempre all’ultima moda, di esibire continuamente il nostro fisico atletico, vuol dire che al primo posto c’è la vanità, l’ammirazione da parte degli altri. Se temiamo sempre di sbagliare, che ogni cosa che facciamo, se sia giusta o sbagliata, allora al primo posto c’è l’insicurezza, l’indecisione, la sfiducia, la paura di decidere.
Ma se vediamo sempre il lato bello, il lato positivo delle cose, allora al primo posto c’è la fiducia, c’è l’amore. Se vediamo sempre che le contrarietà della vita “non sono poi così gravi”, vuol dire che al primo posto c’è l’ottimismo. Se siamo convinti che nell’intimo dei nostri fratelli ci sia sempre un lato buono, ci sia del bene, che se fanno “certe” scelte le fanno più per paura, per necessità, che per cattiveria, allora in loro vediamo sicuramente Dio.
Cosa c’è dunque di più importante nella nostra vita? A cosa pensiamo sempre? Perché tutti noi siamo “servi” di qualcuno o di qualcosa. Tutti noi “dipendiamo” da colui o da ciò che, nella nostra scala delle priorità, occupa il primo posto: quello è il nostro Dio; quello è il Dio o l’idolo che serviamo, il Dio o l’idolo a cui abbiamo votato la nostra fedeltà.
“Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,31-33). Sono versetti altrettanto noti. Parole che sgorgano dal cuore, che sono un’autentica poesia, un’ode, un inno, un canto di Gesù in onore del Padre. Cerchiamo di capirle meglio.
Prima di tutto il “Non preoccupatevi”: cosa intende qui Gesù con “preoccupazione”? Questo termine (dal greco merimnao che significa “preoccuparsi, affannarsi, darsi preoccupazione, angustiarsi”) ricorre in questo testo per ben quattro volte: e sempre con un significato decisamente diverso dal nostro. La preoccupazione per noi è un sentimento passeggero, circoscritto, riguarda un aspetto particolare della nostra vita. Noi, per esempio, ci preoccupiamo se una persona cara ritarda notevolmente ad un appuntamento: ma poi appena arriva, la nostra preoccupazione scompare. Così pure ci preoccupiamo per un esame, per cosa servire a tavola agli invitati, per come comportarci per fare sempre bella figura con tutti, ecc. Uno stato d’animo occasionale, contingente, temporale, accessorio.
Al contrario quando il vangelo parla di “preoccupazione” non intende un sentimento passeggero, destinato a cessare, ma un fenomeno persistente che coinvolge la totalità della nostra mente. Preoccupazione è allora un qualcosa che si impone continuamente alla nostra attenzione, che assorbe ogni nostro pensiero, che fa passare in seconda linea tutto il resto.
In ogni caso, per accettare il contenuto di questi versetti dobbiamo ricorrere alla fede: senza il filtro della fede, gli esempi portati da Gesù non sono reali, condivisibili. Infatti, è proprio vero che gli uccelli del cielo sono nutriti dal padre celeste? No, perché anche loro devono faticare e volare per trovare di che nutrirsi. È proprio vero che i gigli del campo non lavorano? No, perché dentro la pianta c’è un lavorio enorme. È proprio vero che mangiare e bere ci viene dato in aggiunta? No, perché il cibo e l’acqua sono essenziali e non ci cadono dal cielo.
Pertanto, da un punto di vista materiale, tutto dipende da noi, non da Dio: se non ci diamo noi da fare, non mangiamo e non beviamo. Ma se guardiamo le cose dal punto di vista spirituale, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto effettivamente dipende da Dio. Gli uccelli sono nutriti dal padre celeste? Certo. E i gigli vestiti meglio di Salomone? Certo! Se guardiamo nostro figlio appena nato, è naturale che lo consideriamo una creatura “nostra”. Ma se lo guardiamo con altri occhi, come possiamo dire che è opera nostra? È un miracolo, è un dono: non siamo noi che l’abbiamo creato, che gli abbiamo infuso l’anima, lo spirito. È stato Qualcun altro. Quando guardiamo un tramonto meraviglioso, le stelle o la luna, il volgere puntuale delle stagioni, sappiamo certamente la spiegazione dal punto di vista scientifico; ma con altri occhi non possiamo non riconoscere che tutto è mosso da Lui. Quando siamo felici, quando siamo traboccanti d’amore, quando ci viene da dire: “Potrei anche morire da quanto sono felice”, questa felicità, questo amore, viene realmente da noi? Siamo noi gli autori di queste sensazioni? Se guardiamo umanamente la nostra vita realizzata, felice, pensiamo giustamente di essere noi gli autori di tutto, ma con gli occhi più profondi del cuore non possiamo non convenire che qualche angelo ci ha sempre protetti e indirizzati.
“Fede” allora vuol dire che la vita è più di quello che vediamo. Per cui Gesù qui voleva dire: “Guarda oltre gli uccelli del cielo; oltre i gigli del campo! Guarda “oltre”, e troverai qualcos’altro, troverai Qualcun altro”. Allora, quando guardiamo una cosa, guardiamo oltre; quando guardiamo una persona, guardiamo dentro di lei. Omettere ciò significa essere “superficiali, significa fermarsi alla superficie delle cose: in tal caso la montagna è un ammasso di detriti, sassi, alberi e terra; la persona, un insieme ordinato di muscoli, tessuti, nervi, cellule, ecc.; la vita, un susseguirsi incalzante di avvenimenti scanditi dal tempo. Ma è tutto qui? Assolutamente no: guardare con gli occhi della fede non equivale ad essere ciechi, a non vedere cosa c’è attorno o vicino a noi, essere cioè fuori dalla realtà. Fede, ripeto, è vedere “oltre”, vedere “dentro” le cose, dentro le persone, dentro gli avvenimenti; è vedere la vera realtà, la vera essenza di ogni cosa, è andare oltre la crosta, l’aspetto esteriore.
Le parole di Gesù, insomma, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto a quei poveri che lo seguono, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa non mangiare domani. Le sue non sono parole che introducono una filosofia di vita apatica, stoicista o meglio atarassica!
Niente di tutto ciò. Non facciamo confusione!
Questo vangelo, al contrario, deve farci riflettere, deve interrogarci su alcune cose fondamentali. Prima di tutto, ci fa sapere che per le nostre scelte vitali, per la scelta della via buona, è indispensabile la luce dalla fede. È la fede che deve essere “lampada per i nostri passi”. Per questo dobbiamo sempre parlare il linguaggio della fede; quella stessa fede che siamo chiamati a trasmettere ai nostri fratelli.
Una fede che non consiste nelle parole, nei discorsi, ma nel mistero. “Mistero”, che viene dal greco “miein”, vuol dire “rimanere senza parole, a bocca aperta”. È la sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di troppo grande, di talmente forte, intenso, bello, enorme, che nessuna parola può in realtà contenere. Il linguaggio della fede, allora, è musica, è danza, è stupore, meraviglia, entusiasmo (in greco entusiasmo vuol dire avere un Dio dentro); è commozione, pianto, vulnerabilità, tenerezza, compassione; è passione (da pathos che vuol dire percepire, sentire, patire). La fede insomma è la percezione del Mistero di Dio che ci abita.
Riusciamo noi a percepirlo? Sappiamo piangere? Sappiamo emozionarci? Sappiamo mostrarci nella nostra vulnerabilità? Sappiamo chiedere scusa? Sappiamo gioire? Sappiamo innamorarci? Sappiamo commuoverci? Sappiamo entusiasmarci? Se la nostra risposta è “sì”, allora vuol dire che “sentiamo” la voce di Dio nel nostro cuore; una voce che renderà il nostro cammino più sicuro, più deciso, più coraggioso. Non per niente la fede elimina la paura. Un esegeta ha calcolato che l’espressione “non temere” ricorre 365 volte nella Bibbia, tante quanti sono i giorni dell’anno. Allora ogni mattina facciamo tesoro di questa esortazione divina: alziamoci con la certezza che nel momento del bisogno, Dio sicuramente ci fornirà tutte le risorse necessarie, le capacità, le forze sufficienti per affrontare e superare qualunque disagio della vita. O per accettarlo con cristiana rassegnazione. Non sappiamo esattamente come, ma questa è la nostra fede.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso”.
Gesù sa bene come è fatto l’uomo. Conosce molto bene le nostre debolezze, la nostra voglia di rincorrere l’effimero, i lustrini del mondo, di affannarci, di agitarci per qualunque bene tarocco, a costo anche di rinunciare alla vera bellezza della vita, all’autenticità dell’amore.
Lui sa che noi vorremmo essere sempre al sicuro, avere tutte le certezze: degli affetti, del tempo, delle cose, di tutto insomma. Che noi vorremmo avere tutto e subito: oggi, per essere tranquilli domani. Ma il futuro non offre garanzie: il domani è nelle mani di Dio: e nel momento stesso in cui pensiamo di averlo toccato, di goderlo, ci sfugge inesorabilmente di mano. Per questo ci insegna di affidare il nostro domani alla provvidenza del Padre, accogliendo con semplicità e riconoscenza quell'oggi che Egli ci concede di vivere.
Allora, nella serenità di chi si sente affrancato da ogni “preoccupazione” terrena, accogliamo con gioia il messaggio del Vangelo.
Chi sceglie di seguire Gesù è veramente felice, perché libero. È libero di darsi ai fratelli con cuore lieto e generoso; è libero di appassionarsi alla propria vita, sapendo che essa è un dono di Dio. Un dono immeritato e sovrabbondante. È libero di cercare quel Regno di Dio, promesso ai servi fedeli. Ed è proprio in questo cercare umile, orante, continuo, settimana dopo settimana, vangelo dopo vangelo, che noi riusciremo a raggiungere il vero senso della vita. Senza peraltro mai “possederla”: perché possedendola, torneremmo inesorabilmente ad essere schiavi delle preoccupazioni, degli affanni, degli accumuli, dei piaceri smodati, delle ipocrisie di questo mondo.
Cercare tuttavia non è garanzia di comprendere tutto; ci offre però la possibilità di imparare. Di vivere. Di amare. Le cose belle della vita non sono lontane da noi: le troviamo nelle pieghe del nostro vivere quotidiano. Usciamo allora di casa ogni mattina, ammiriamo le bellezze della natura, del creato, capolavoro di Dio; spalanchiamo gli occhi e il cuore. Abbandoniamoci in Lui. E potremo tuffarci in un oceano di bellezze, in un universo di meraviglie. E finalmente capiremo. Capiremo sul serio che Gesù è fedele, è di parola. Capiremo che la vita è un suo dono preziosissimo, un tesoro incalcolabile, oro puro. Amen.



giovedì 16 febbraio 2017

19 Febbraio 2017 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,38-48).

Continuiamo anche oggi la lettura del Discorso della montagna (Mt 5-7), sintesi di tutta la predicazione di Gesù, “magna carta” per meritare l’accesso al Regno di Dio.
Abbiamo visto domenica scorsa la premessa di Gesù: contro quanti affermavano che era venuto per abolire la Legge e i Profeti, Egli continua ad assicurare che non avrebbe annullato proprio nulla, anzi che con Lui tutte le Scritture avrebbero trovato la loro autenticità, il loro “compimento”: solo Lui, infatti, personificazione dell’amore e della volontà del Padre, con la sua natura, con la sua vita, con la sua Parola, poteva offrire il vero senso della Legge e delle promesse profetiche, innestandole al grande “comandamento dell’amore”.
Nel vangelo di oggi, Gesù continua dunque a contrapporre un prima e un dopo: una norma consolidata nel tempo e normalizzata, che Lui rilegge, perfeziona e completa con i suoi insegnamenti: non propone una legge nuova, ma un compimento nuovo, rivoluzionario, unico, come unica è la sua giustizia, riflesso dell’amore del Padre.
In pratica Gesù capovolge l’equilibrio imperfetto e precario della Legge antica: la rilancia, proponendo una nuova visione dei valori decisamente più stabile, completa e radicale; una visione che si poneva decisamente “oltre” la prassi di allora, in una prospettiva di vita completamente nuova, fino ad allora impensabile; come? non opponendo resistenza al malvagio, ma rispondendo  ai suoi attacchi, anche se crudeli e feroci, con amore; pregando per i nemici, assumendo come modello ideale la misericordia di Dio, che è Padre di tutti, buoni e cattivi.
“Occhio per occhio, dente per dente” prescriveva infatti la legge del taglione: che non era poi un incitamento a vendicarsi, ma la positiva introduzione di un certo “limite” alle smisurate rappresaglie vendicative con cui si usava rispondere ad un torto ricevuto. In pratica: “Se intendi vendicarti per un’offesa, fallo alla pari, non andare oltre la misura dell’offesa ricevuta”. Una legge che garantiva una certa equità, ma comunque decisamente imperfetta: di essa Gesù propone infatti un sostanziale miglioramento, in grado di assicurare al cuore e alla vita dell’uomo, pace e serenità. “Io vi dico, amate i vostri nemici”.
Ma cosa vuol dire “amare i propri nemici”? Bisogna fare qui una piccola distinzione: dobbiamo cioè distinguere l’amore concreto da quelle che sono le sensazioni, i “sentimenti d’amore”. Mi spiego: Gesù non dice: “Devi sorridere ai tuoi nemici” oppure “devi provare simpatia, considerazione, ammirazione per loro”, o ancora “devi sentire affetto” per i tuoi nemici, per chi ti ha fatto del male, per chi ti ha ferito (che sono tutti “sentimenti d’amore”). Gesù non è uno sprovveduto; Egli sa benissimo che non si possono comandare le “emozioni”. Egli in pratica dice un’altra cosa: “Ama in maniera concreta i tuoi fratelli, anche se sono tuoi nemici, e lo devi fare indipendentemente dalle tue emozioni”. Cioè: “Devi comunque continuare a far loro del bene, a fare sempre ciò che è bene per loro, ciò che è meglio per loro, anche se in cuor tuo nutri naturali sensazioni contrarie; devi usare nei loro confronti la massima carità, quella vera, autentica, anche se li consideri tra i tuoi nemici peggiori”.
In sostanza non dobbiamo mai abdicare all’amore per far posto alle nostre naturali e lecite emozioni di rabbia, di risentimento, di disappunto. Perché facendo così finiremo per avvelenare il nostro cuore.
Noi siamo convinti di essere buoni cristiani, persone oneste, perché amiamo la nostra famiglia, rispettiamo i nostri amici, vogliamo bene ai vicini, non facciamo loro del male. Ma Gesù ci dice che se amiamo “quelli che ci amano”, non facciamo nulla di straordinario: questo lo sanno fare tutti, anche quelli che non hanno fede. La nostra vita, purtroppo, è talmente impantanata nella mentalità di questo mondo, che siamo convinti di essere giusti, “osservanti”, pii cristiani, anche quando facciamo le cose più naturali, più ovvie di questo mondo, cose che non richiedono alcuno sforzo, come per esempio amare chi ci ama. Il problema serio nasce invece quando non siamo amati, quando il nostro amore non è corrisposto, quando non siamo capiti, quando veniamo fraintesi, quando ci sentiamo compatiti o addirittura odiati! Come ci comportiamo allora? Beh, ovviamente, facciamo quello che ci riesce più facile, più naturale, più immediato: piuttosto che perdonare e amare, ripaghiamo con la stessa moneta: “Ti sto antipatico? Anche tu a me! Non mi sopporti? Neppure io! Mi odi? Io pure!”. Del resto, pensiamo, che male c’è? Non facciamo nient’altro che restituire agli altri ciò che riceviamo! Attenzione però, perché, alla fin fine ciò equivale a: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ossia, anche noi, da “buoni cristiani”, ci avvaliamo dell’antica logica “del taglione”.
L’ideale di perfezione propostoci oggi da Gesù è invece di gran lunga superiore, contiene un messaggio nuovo, sconvolgente e rivoluzionario. È il più controcorrente di tutti, perché non si tratta tanto di osservare una legge umana, ancorché difficile, impossibile, ma di donare a tutti la stessa vita di Dio: l’amore.
Una cosa, l’amore vero, autentico, che oggi è decisamente svalutato dalla nostra società. Quanti di noi, infatti, sono disposti ad accettare in pieno le parole del Vangelo? Eppure esse costituiscono l’essenza del cristianesimo, sono l’unica chiave per capire e vivere la nostra religione! È una delle cose straordinarie che Cristo richiede da noi. Cose straordinarie che dobbiamo fare in maniera ordinaria, ogni giorno! Se ci professiamo cristiani, ma non parliamo il linguaggio dell’amore, del perdono, della non violenza, noi professiamo e diciamo il falso. Dobbiamo invece essere convinti che l’amore è più forte dell’odio. Dobbiamo credere che solo l’amore assicura all’umanità un domani migliore. Qualcuno ha detto che il cristiano, o è l’uomo del paradosso, o l’uomo della banalità. Ebbene, noi non possiamo annullare la potenza del Vangelo,il “paradosso” di Cristo, adeguandoci alla mentalità della “legge del taglione”, alla banale mentalità mondana.
Dobbiamo ridare all’amore la sua vera dimensione, scoprendone la bellezza, la grandezza e le esigenze. L’amore è sicuramente la prova più difficile e impegnativa alla quale un cristiano è chiamato. Ma è anche la testimonianza più alta che egli possa dare alla sua fede. Nella vita noi potremo avere al massimo due o tre occasioni per dimostrare a tutti il nostro “eroismo”; ogni giorno però abbiamo la possibilità di amare, di amare tutti, di amare sempre. Sì, perché se tutto quello che facciamo, dalle cose più semplici a quelle eroiche, non le facciamo per amore, non servono a niente.
Ecco allora che ci aspetta una belle sfida, un bel percorso in salita.
Del resto tutto il “discorso della montagna” ci pone di fronte non ad una, ma ad una “catena di montagne” da scalare: il punto d’arrivo più alto, la vetta panoramica da raggiungere, ci viene indicata proprio dalle parole di Gesù con cui Matteo conclude il vangelo odierno: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. In estrema sintesi Gesù ci raccomanda: “Dovete essere sempre quel che siete!”. Che vuol dire? Che siamo figli di Dio chiamati ad essere sempre come Lui; siamo sue creature, il cui vivere naturale deve diventare soprannaturale, creature finite create e proiettate verso l’Infinito. Siamo tutti immagine di Dio: e siamo tali, siamo cioè noi stessi, soltanto se siamo “santi, perfetti” come Lui.
Allora, e concludo, essere “santi come Lui”, significa condividere con Lui quel medesimo amore con cui Lui ama tutte le sue creature; significa diventare un “segno”, una “icona” del suo Amore nella nostra quotidianità; significa spendere la nostra vita a favore dei fratelli, con un amore pari a quello che noi stessi riceviamo continuamente dal Padre. Amen.