venerdì 3 marzo 2017

5 Marzo 2017 – I Domenica di Quaresima

«Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,1-11). 

La liturgia propone ogni anno, nella prima domenica di quaresima, il vangelo sulle tentazioni di Gesù. Cerchiamo allora di capire esattamente in cosa consistono queste “tentazioni”, come mai siano riportate da Matteo con così tanti particolari. C’è da dire, prima di tutto, che l’episodio delle tentazioni non è un fatto storico inteso come lo pensiamo noi: che cioè Gesù sia stato “fisicamente” per quaranta giorni nel deserto e che lì si sia scontrato materialmente con il diavolo. No: il racconto di Matteo non è un evento “storico”, ma una riflessione “haggadica”; una riflessione personale, cioè, con cui l’evangelista, volendo sottolineare la particolare importanza dell’insegnamento di Gesù, lo ha fatto imitando lo stile dell’Haggadah, ossia il metodo abituale con cui i rabbini commentavano i vari passi della Bibbia, arricchendoli con racconti, aneddoti ed esortazioni morali per renderne più comprensibile il messaggio: un metodo quindi, quello di Matteo, con cui esprime in immagini non tanto un fatto storico, ma una dimensione, una possibilità, un qualcosa di importante che Gesù ha vissuto durante la sua vita terrena: nel nostro caso, appunto, le lusinghe di satana, per indurlo ad usare il suo potere, le sue conoscenze, la sua posizione di Figlio di Dio, per scopi diversi da quelli che costituivano le linee guida della sua missione.
In un unico episodio e con delle immagini molto plastiche, Matteo dunque concentra in questo racconto quello che è successo durante l’intera vita di Gesù: le tentazioni cioè di seguire la strada del godimento, del possesso, della potenza, e non quella della Croce, l’unica che Egli doveva percorrere.
Leggiamone allora i particolari: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto”.
Siamo subito dopo il Battesimo nel Giordano: si erano appena “aperti i cieli”, e lo Spirito di Dio era sceso su di Lui; è l’investitura ufficiale di Gesù da parte di Dio: lo Spirito del Padre, lo Spirito dell’Amore, lo riconosce pubblicamente davanti al popolo: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. Parole di consacrazione, attraverso le quali Gesù percepisce che il Padre è al suo fianco: una presenza di accoglienza, di sostegno, di predilezione, di amore incondizionato.
Ebbene: quello stesso Spirito subito dopo lo spinge, lo manda, lo “conduce” nel deserto: il verbo greco anècze (fu portato), usato al passivo, indica chiaramente che è lo Spirito che vuole questo; è lo stesso Dio di prima che lo manda laggiù, per vivere un’esperienza difficile e traumatica.
Questo ci aiuta a capire come la nostra idea di Dio sia falsata. Per noi, infatti, se una cosa è bella, buona, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio; se al contrario è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non può venire che dal demonio, dal male.
Ma qui non è così: è Dio stesso, il suo Spirito, il Padre amoroso che “spinge” Gesù nel deserto per confrontarsi col maligno. Questo ci dice che tutto quanto ci capita, qualunque cosa, buona o cattiva, che ci riservi la vita, viene sempre da Dio, è Lui che la permette. Non chiediamoci più allora se una certa situazione dipenda dal diavolo o da Dio: chiediamoci piuttosto quale sia la prova, quale la difficoltà, il passaggio, che dobbiamo affrontare e superare nella nostra crescita. Satana infatti non è il male in sé, ma un ostacolo, uno sbarramento che ci complica il cammino verso il bene, un passaggio obbligato che ciascuno di noi deve compiere per evolvere, per liberare le sue energie, le potenzialità che sono dentro di noi. Per cui l’unica competenza del demonio, la sua unica funzione, peraltro a noi indispensabile per raggiungere la maturità, è quella di farci crescere. Non imputiamo quindi a lui l’onere delle nostre colpe, delle nostre deficienze: è molto comodo scaricare su di lui la responsabilità dei nostri errori, del nostro egoismo! Non attribuiamo al diavolo un ruolo decisionale che non gli appartiene: “È colpa sua, è lui che l’ha voluto, che posso farci io?”. Che possiamo farci? A chi spetta, se non a noi, decidere cosa fare? Solo noi siamo gli unici preposti alla soluzione dei nostri problemi. Nessun altro.
Dio, al massimo, può riservarci ogni tanto lo stesso trattamento riservato al Figlio: quando cioè è venuto il momento per noi di dimostrargli la serietà delle nostre convinzioni, la nostra sincerità di figli, una prova del nostro amore, ci spinge nel “deserto”, a fare i conti con le tentazioni del maligno; vuole cioè che anche noi, come Gesù, ci confrontiamo con i nostri demoni, li combattiamo faccia a faccia e li vinciamo. La parola “tentare” (in greco peirazo) equivale infatti a “mettere alla prova, verificare, fare un test”.
Un po’ come succede ai nostri ragazzi a scuola con la “verifica”, con l’esame: i professori vogliono sapere se hanno studiato, se sono preparati ad affrontare il corso della vita. La tentazione è la stessa cosa. La tentazione non è Dio che vuol “farci cadere in errore, farci sbagliare, che ci seduce per provare se siamo forti”. No, Dio non è così cattivo: Dio vuole che siamo noi stessi a renderci conto se siamo sinceri, convinti delle nostre promesse, leali con Lui: che siamo noi stessi a controllare il grado di autenticità della nostra fede. La tentazione è quindi un dono, non un male: infatti ogni volta che ne usciamo vincitori, oltre all’intima soddisfazione di scoprire in noi quella forza che prima pensavamo di non avere, riceviamo una carica di ottimismo, uno stimolo reale a dimostrare sempre più intensamente il nostro amore a Dio .
Ecco perché è necessario entrare nel “deserto”, ecco perché dobbiamo essere tentati, ecco perché dobbiamo affrontare i nostri demoni. Con coraggio, senza temere che la nostra onorabilità venga meno, sia imbrattata, oltraggiata: nessuno potrà mai farlo se non noi stessi, perché l’ultima parola, quella decisiva, è solo ed esclusivamente nostra.
Convinciamoci che ogni ingresso nell’ombra, nella zona buia della tentazione, anche se all’inizio può farci paura, ha sempre il pregio di portare con sé un dono di luce, un prova di maturazione, un’esperienza diretta del nostro amore da offrire a Dio.
I regali più belli non ce li fanno gli altri, ce li facciamo noi andandoli a cercare coraggiosamente nel nostro deserto, nelle nostre zone d’ombra: i tesori più preziosi sono nascosti “dentro” di noi e per ottenerli vanno cercati; le nostre migliori possibilità sono come le perle preziose, nascoste nel “fondo” del mare, rinchiuse “dentro” le loro ostriche: solo portandole alla luce, possono sprigionare la loro bellezza, ed irradiare ovunque il loro fascino.
La pienezza, la perfezione, non è data dal possedere tante cose, ma dal “tirar fuori” quei doni, quelle ricchezze che sono dentro di noi, e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere.
Quello che ci attende è dunque un cammino importante, un passaggio obbligato nel profondo della nostra anima, per riappropriarci delle nostre “terre promesse”, per rilanciare i nostri propositi di conversione trascurati, inascoltati, abbandonati. Dobbiamo certo misurarci con i nostri demoni; ma è necessario per rispondere coraggiosamente alle grandi domande della nostra esistenza, quelle domande rimaste disattese, accantonate, ignorate fino ad oggi:  “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Come voglio vivere? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto? Fino a che punto sono disposto ad ascoltare la Voce che ho dentro?”. Domande alle quali possiamo dare una sincera risposta soltanto nella solitudine dell’anima, nel nudo confronto con noi stessi; perché possiamo raccontare delle belle storie a tutti, possiamo illudere chiunque, mai noi stessi!
“Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti…”. Cosa dobbiamo fare dunque nei nostri “quaranta” giorni, nel nostro deserto quaresimale? Dobbiamo digiunare! Dobbiamo cioè vietarci l’assunzione di tutti quei “cibi” dannosi, malefici, che degradano e avviliscono l’anima, saziando esclusivamente il nostro delirio di onnipotenza.
Sono tre le tentazioni che satana propone a Gesù: non sono inviti espliciti a fare delle cose peccaminose, ma delle seduzioni molto fini, intriganti. Si tratta di tentazioni molto attuali anche per noi, perché ogni uomo le conosce bene, le accetta volentieri, le usa abbondantemente.
La prima: “Dì che questi sassi diventino pane”. È la tentazione “del pane”, del benessere personale, dell’assicurarsi la prosperità materiale anche a scapito degli altri.
Il diavolo sa che Gesù è Figlio di Dio: a lui non interessa mettere in dubbio questa sua figliolanza divina, ma di suggerirgli i vantaggi che da essa egli potrebbe ricavare. “Usa le tue eccellenti capacità, il tuo prestigio popolare, ad esclusivo vantaggio della tua persona”. In altre parole Satana invita Gesù a spogliarsi della sua divinità, ad abbandonare la sua missione d’amore, per vivere in modo umano, egoistico, usando le sue potenzialità solo per risolvere le esigenze materiali, i suoi problemi quotidiani, per agevolare la sua “carriera”. È la tentazione di fare a meno di Dio, come era già stato per Adamo. Ma per Gesù l’unico cibo valido è quello di fare sempre e comunque la volontà del Padre. Egli, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto trasformare in pane tutti i sassi di questo mondo: ma non lo ha fatto. Per Lui agire egoisticamente a proprio tornaconto, disinteressandosi del prossimo, è una scelta destabilizzante, diabolica: diventa invece un miracolo autentico quando i doni di Dio vengono messi a servizio esclusivo dei fratelli bisognosi.
La seconda: “Gettati giù dal pinnacolo del tempio e gli angeli ti sorreggeranno”. Il tentatore in pratica non fa altro che dire a Gesù: “Fai quello che la gente si aspetta da te. Non sei il Messia? Comportati e mostrati comunque come tale. Tutti si aspettano che tu venga in modo prodigioso? Accontentali! E visto che ci sei e che puoi (sei figlio di Dio!), lanciati e fatti sostenere dai tuoi angeli, così tutti sapranno che tu sei il Messia”. Tra le varie cose che la gente si aspettava dal Messia, c’era anche una sua spettacolare manifestazione nel tempio di Gerusalemme: ora, il suo “pinnacolo” era il punto più alto, più in vista: se Gesù avesse fatto qualcosa di spettacolare da quell’altezza, tutti lo avrebbero potuto ammirare. Un fenomeno un po’ da baraccone, ma questo era il Messia che allora la gente si aspettava: se però Gesù fosse diventato un simile Messia, non sarebbe mai stato il Figlio di Dio che noi conosciamo. In pratica è la tentazione della “religione”: una tentazione umana molto forte anche oggi è quella di usare Dio e le parole del Vangelo per i propri fini, per un proprio tornaconto, che con Dio non c’entra proprio nulla! La storia è piena di questo falso uso delle Scritture e delle tradizioni religiose. In nome di Dio si sono fatte e si fanno guerre fratricide, si continua a commettere ingiustizie enormi. Con il risultato di far allontanare dalla fede intere generazioni.
Qui vuol dire che se riusciremo ad accontentare tutti, a costo di qualunque compromesso, avremo sicuramente l’approvazione generale, ma perderemo noi stessi. Così, facciamo pure leggi contro la morale naturale, leggi che certa gente pretende a tutti i costi: sicuramente otterremo voti e tanto consenso umano, ma tradiremo Dio e la nostra coscienza, rendendola sorda e inefficace. Cerchiamo pure, con la nostra abilità untuosa, l’approvazione dei capi, dei potenti, delle persone che contano: non avremo più problemi dall’alto, ma avremo perso completamente la nostra libertà. Cercare infatti ad ogni costo l’approvazione, il consenso degli altri, per Gesù è una scelta diabolica, perché significa rinunciare alla propria missione, tradire il proprio “mandato”, diventando dei “traditori”, piuttosto che “servitori” dei fratelli.
Infine la terza tentazione: il diavolo alza ancora il prezzo; non c’è riuscito con la fame e con la religione, per cui a questo punto tira in ballo la seduzione più forte: la ricchezza.
“Ti darò tutto questo se prostrandoti mi adorerai”. Una ricchezza smisurata a prezzo della rinuncia alla nostra intelligenza, alla nostra dignità; a prezzo di una viscerale sottomissione alle leggi nefaste del male: “fai quello che ti dicono”. E questa volta il diavolo porta Gesù su di un monte altissimo. Perché? Perché la vetta del monte anticamente era considerata la residenza degli dei: per cui salire lassù in alto, significava entrare in una condizione superiore, divina. Essere come Dio, allargare il possesso su tutto e su tutti, è sempre stata la massima aspirazione dell’uomo. In cambio, però, il diavolo chiede una cosetta non proprio insignificante: abbassarsi a fare sempre quello che vuole lui.
Una cosa, tutto sommato, ci riesce abbastanza facile: se tutti fanno così, se tutti si comportano in un certo modo, perché non ci adeguiamo anche noi? È più semplice che non creare problemi per remare contro, per voler distinguersi dalla massa! Se tutti dicono di essere cattolici, di vivere da buoni cristiani, ma all’atto pratico trascurano completamente i valori del vangelo, chi siamo noi per ribellarci a questo andazzo? Facciamo anche noi altrettanto! Del resto non dipende da noi, non è colpa nostra, è il mondo che va così, è la convivenza sociale che impone questa scelta; non possiamo farci nulla!
Oggi siamo schiavi dei budgets economici, degli obiettivi da raggiungere, dei mercati e della concorrenza: le lobbies finanziarie impongono al mondo di seguire una certa direzione di loro gradimento? Tutto il popolo bue deve adeguarsi. Ma se tutti i governanti preferiscono defilarsi, se tutti i media prezzolati continuano a magnificare tali iniziative, se tutte le popolazioni sottostanno passivamente a simili imposizioni, dove andremo a finire?
La mentalità dominante nella società contemporanea è che purtroppo il denaro può tutto; che la “bustarella” è il motore che muove ogni decisione umana. Non la cultura, non la religione, ma è il denaro che stabilisce i criteri guida di una società: non i valori morali, ma la potenza del denaro condiziona la vita globale. Tutto ha un “suo prezzo”: basta solo trovare quello giusto per far cambiare indistintamente opinioni, leggi, scelte di vita. È la cosiddetta “etica del quanto”; ci sono persone che sembrano rifiutare certi accorgimenti, sembrano resistere a certi livelli di corruzione: ma di fronte al rialzo del prezzo finiscono per modificare anch’essi il loro costume, perdere la loro moralità, la loro integrità, la loro coerenza.
Ebbene: quale è a questo punto il nostro prezzo? Siamo davvero convinti che nulla può portarci fuori strada, che nulla può farci rinnegare le nostre scelte di valore, i principi guida della nostra coscienza? La fede che professiamo ci rende immuni dal cedere alle tentazioni dell’affermazione egoistica, del potere assoluto, della ricchezza smisurata?
Beh, perlomeno è consolante sapere che anche Gesù è passato per questa strada stretta, e che anche lui è stato messo alla prova del “fregarsene degli altri” quando aveva fame, dell’affermare il proprio prestigio, dell’essere immune dal “prezzo giusto”.
Lui è rimasto fedele in tutto. Affidiamoci allora a Lui in queste nostre prove con le quali purtroppo la nostra vita deve fare continuamente i conti. Come Gesù ha sconfitto il suo tentatore, così anche noi, con il suo aiuto, faremo sicuramente altrettanto. Amen.



giovedì 23 febbraio 2017

26 Febbraio 2017 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro…» (Mt 6,24-34)

Siamo sempre nel grande “Discorso della montagna”, considerato dagli studiosi come il “manifesto” di Gesù. Il brano che la liturgia ci propone in questa domenica, si apre con una esortazione programmatica: “siate voi stessi; nella vita perseguite un solo ideale; scegliete bene la vostra strada e siate costanti nel percorrerla, non cercate ovunque la soluzione dei vostri problemi, non ne verrete mai a capo”. Giusto, diciamo noi: ma come riusciamo a coniugare la decisione di “servire un solo padrone” con i mille problemi di sopravvivenza con i quali dobbiamo fare quotidianamente i conti?”. Si può e si deve, dice il vangelo: l’essenziale è fare le proprie scelte alla luce della fede, perché è con la fede che si può contare in ogni occasione sulla provvidenza di Dio.
E andiamo ai particolari del testo:
Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Parole note, sentite migliaia di volte, che tuttavia non abbiamo mai preso in seria considerazione. Anche perché, ripeto, ci sembrano illogiche, fuori dalla realtà, impraticabili.
Come la mettiamo per esempio con i doppi, i tripli “servizi”, e anche di più, con i quali spesso ci misuriamo nell’arco della “giornata”? E poi, è proprio vero che se si ama un padrone automaticamente dobbiamo disprezzare l’altro? È proprio vero che se preferiamo uno dobbiamo detestare l’altro? Nossignori, non è vero: tant’è che a noi capita spesso di sperimentare amore e apprezzamenti per l’uno e per l’altro “padrone”. Ma come al solito non è come pensiamo noi! Il Vangelo non si esprime in questo senso.
Qui i verbi “amare e odiare” non si riferiscono alle emozioni umane, agli stati d’animo, che un dipendente deve nutrire nei confronti del padrone; essi piuttosto intendono “qualificare” in senso positivo (amare) o negativo (odiare) gli effetti di una nostra scelta; non importa quale essa sia, l’essenziale è che deve essere una sola tra due alternative. È impossibile infatti cavalcare contemporaneamente due cavalli; come non possiamo stare nello stesso momento in due località diverse. Non possiamo insomma, nel corso della nostra breve vita, seguire contemporaneamente due stili di vita, opposti e incompatibili tra loro: o amiamo l’uno e odiamo l’altro, o viceversa.
“Nessuno può servire due padroni”: il senso letterale ci apparirà più chiaro se lo retrodatiamo ai tempi di Gesù: allora il servo, lo schiavo, aveva sempre, per definizione, un unico padrone. Per cui, dice il vangelo, se ha un padrone, non può averne un secondo; quindi, è impossibile anche per voi essere contemporaneamente servi di due padroni, non potete cioè “servire”, essere “schiavi”, di Dio e di mammona. Ma chi è questo “Mammona”? Cosa vuol dire essere schiavi di mammona?
Con “Mammona” (in ebraico “ma’amùn”, con la stessa radice di “emunà” = fede) gli antichi intendevano qualcosa che “dava fiducia”, un qualcosa su cui si poteva contare, fare affidamento: per cui “mammona” erano quei beni, quelle sostanze, che assicuravano una dignitosa sopravvivenza per il domani. Un termine quindi privo di qualunque connotazione negativa. Solo secoli più tardi esso ha assunto il valore di ricchezza disonesta, di beni conquistati iniquamente, con l’inganno, con egoismo vorace, senza scrupoli; in tal senso “mammona” è diventata sinonimo di “immorale, di iniquità, di male in assoluto”, di qualcosa insomma decisamente negativa. Per Gesù quindi questo termine è decisamente “negativo”: per cui è proibito dedicare a “mammona” ogni nostra iniziativa, proibito trasformarla in un assillo esclusivo, proibito “sceglierla” e rincorrerla come stile di vita, proibito insomma sottostare alle sue imposizioni, diventare suoi “servitori”, suoi schiavi.
Nella nostra vita si impongono pertanto, quotidianamente, delle “scelte oculate”. Ma in che cosa consiste esattamente questo nostro “scegliere”? Ebbene: “scegliere” vuol dire optare per “questo” e non per “quello”; vuol dire dirigere le nostre risorse, il nostro amore, tutto il nostro potenziale, in un’unica direzione, su di un’unica direzione, perché tutto e il contrario di tutto non possono simultaneamente coesistere. Scegliere vuol dire “plasmare” la nostra vita, darle valore: trasformarla, con le nostre scelte, in una vita onesta, dignitosa, corretta. Attenzione però: perché anche con le nostre “non scelte” sono già una scelta; una scelta peraltro improponibile per gente come noi che abbiamo scelto di camminare al seguito di Gesù.
Ogni scelta, insomma è un “sì” a qualcosa e un “no” a qualcos’altro: qui, la nostra scelta deve avvenire tra Dio e Mammona: non tanto tra un bene e un male ma, come ho detto, tra due diversi e incompatibili stili di vita. Gesù infatti, poco prima, ci aveva già messo in guardia:
“Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21).
I tesori della terra, “mammona”, sono precari, sono soltanto cibo per il corpo: non sono cattivi, ma sono limitati, distolgono l’attenzione da cose più importanti e indispensabili, danno solo una “parvenza” di sicurezza, nient’altro. I tesori del cielo, Dio, sono invece definitivi, sono cibo per l’anima: la riempiono, la fanno sentire davvero viva, vitale, felice.
La scelta spetta solo a noi: tocca a noi scegliere a che livello vivere, se con Dio o Mammona, se con la sicurezza o la caducità; facciamolo subito e bene! Se poi, attratti dalle lusinghe di questo mondo, la nostra vita non è come pensavamo, non lamentiamoci: perché gli unici responsabili delle nostre scelte siamo noi.
Se pensiamo che l’Eucaristia domenicale, gli incontri di “Ascolto della Parola”, di meditazione, di preghiera solitaria, siano “inutili”, tempo perso, e preferiamo vivere nello sconforto, nella frustrazione, nessun problema, nessun dramma: dipende solo da noi, siamo noi che scegliamo di vivere così!
Se non frequentiamo mai alcun corso di approfondimento religioso in cui imparare a crescere, a conoscere meglio la nostra fede, a metterci in gioco, a conoscerci nel profondo, a “convertire” la nostra vita, e ci sentiamo insoddisfatti, irrealizzati, privi di serenità, non lamentiamoci: siamo sempre noi che scegliamo di vivere a questo livello. Se il nostro unico pensiero, la nostra idea fissa, è quella di aumentare sempre più i nostri soldi; se siamo ossessionati dalla paura di essere criticati, giudicati male, inferiori agli altri; se le nostre preoccupazioni sono soltanto quelle di dove andare in vacanza, di quale vestito comprare, di quale moda da seguire, non lamentiamoci: siamo ancora noi che scegliamo cosa mettere al primo posto nella nostra vita.
Noi che ci riteniamo intelligenti, ottimi conoscitori di come vanno le cose del mondo, cerchiamo furbescamente di convivere con Dio e Mammona, saltellando un po’ dall’uno e un po’ dall’altra. Attenzione però: perché Dio può anche tollerare di essere ignorato, ma mai di essere messo al secondo posto. Non sarebbe Dio. Quindi facciamo le persone serie e decidiamoci: o l’Uno o l’altra; decidiamoci cioè se seguire Dio, Amore eterno, o gli idoli appariscenti destinati al nulla. Se essere figli del Dio vivente, nello splendore della Luce e dell’Amore vitale, o diventare delle maschere fredde, senza vita, buie, ombre funeree di noi stessi. Dipende solo da noi. Dipende dalla passione e dalla serietà con cui scegliamo, dalla fedeltà e decisione con cui poi difendiamo la scelta fatta: per essa dobbiamo insistere, faticare, lottare.
A questo punto facciamoci una domanda: cosa riteniamo essenziale per la nostra vita? Cosa abbiamo messo al primo posto? C’è un modo per saperlo? Certamente: perché nel nostro cuore occupa il primo posto ciò a cui pensiamo di più, ciò che condiziona continuamente la nostra attenzione, le nostre preoccupazioni, i nostri interessi! Per cui se pensiamo continuamente a goderci la vita, vuol dire che al primo posto ci sono i soldi. Se il nostro assillo è la disonestà della gente, perché fa di tutto per imbrogliare, per farsi solo i fatti suoi, allora al primo posto c’è la diffidenza. Se pensiamo sempre di essere delle vittime, di essere ingiustamente il bersaglio della cattiveria altrui, allora al primo posto c’è la rabbia. Se la nostra preoccupazione principale è quella di vestirci sempre all’ultima moda, di esibire continuamente il nostro fisico atletico, vuol dire che al primo posto c’è la vanità, l’ammirazione da parte degli altri. Se temiamo sempre di sbagliare, che ogni cosa che facciamo, se sia giusta o sbagliata, allora al primo posto c’è l’insicurezza, l’indecisione, la sfiducia, la paura di decidere.
Ma se vediamo sempre il lato bello, il lato positivo delle cose, allora al primo posto c’è la fiducia, c’è l’amore. Se vediamo sempre che le contrarietà della vita “non sono poi così gravi”, vuol dire che al primo posto c’è l’ottimismo. Se siamo convinti che nell’intimo dei nostri fratelli ci sia sempre un lato buono, ci sia del bene, che se fanno “certe” scelte le fanno più per paura, per necessità, che per cattiveria, allora in loro vediamo sicuramente Dio.
Cosa c’è dunque di più importante nella nostra vita? A cosa pensiamo sempre? Perché tutti noi siamo “servi” di qualcuno o di qualcosa. Tutti noi “dipendiamo” da colui o da ciò che, nella nostra scala delle priorità, occupa il primo posto: quello è il nostro Dio; quello è il Dio o l’idolo che serviamo, il Dio o l’idolo a cui abbiamo votato la nostra fedeltà.
“Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,31-33). Sono versetti altrettanto noti. Parole che sgorgano dal cuore, che sono un’autentica poesia, un’ode, un inno, un canto di Gesù in onore del Padre. Cerchiamo di capirle meglio.
Prima di tutto il “Non preoccupatevi”: cosa intende qui Gesù con “preoccupazione”? Questo termine (dal greco merimnao che significa “preoccuparsi, affannarsi, darsi preoccupazione, angustiarsi”) ricorre in questo testo per ben quattro volte: e sempre con un significato decisamente diverso dal nostro. La preoccupazione per noi è un sentimento passeggero, circoscritto, riguarda un aspetto particolare della nostra vita. Noi, per esempio, ci preoccupiamo se una persona cara ritarda notevolmente ad un appuntamento: ma poi appena arriva, la nostra preoccupazione scompare. Così pure ci preoccupiamo per un esame, per cosa servire a tavola agli invitati, per come comportarci per fare sempre bella figura con tutti, ecc. Uno stato d’animo occasionale, contingente, temporale, accessorio.
Al contrario quando il vangelo parla di “preoccupazione” non intende un sentimento passeggero, destinato a cessare, ma un fenomeno persistente che coinvolge la totalità della nostra mente. Preoccupazione è allora un qualcosa che si impone continuamente alla nostra attenzione, che assorbe ogni nostro pensiero, che fa passare in seconda linea tutto il resto.
In ogni caso, per accettare il contenuto di questi versetti dobbiamo ricorrere alla fede: senza il filtro della fede, gli esempi portati da Gesù non sono reali, condivisibili. Infatti, è proprio vero che gli uccelli del cielo sono nutriti dal padre celeste? No, perché anche loro devono faticare e volare per trovare di che nutrirsi. È proprio vero che i gigli del campo non lavorano? No, perché dentro la pianta c’è un lavorio enorme. È proprio vero che mangiare e bere ci viene dato in aggiunta? No, perché il cibo e l’acqua sono essenziali e non ci cadono dal cielo.
Pertanto, da un punto di vista materiale, tutto dipende da noi, non da Dio: se non ci diamo noi da fare, non mangiamo e non beviamo. Ma se guardiamo le cose dal punto di vista spirituale, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto effettivamente dipende da Dio. Gli uccelli sono nutriti dal padre celeste? Certo. E i gigli vestiti meglio di Salomone? Certo! Se guardiamo nostro figlio appena nato, è naturale che lo consideriamo una creatura “nostra”. Ma se lo guardiamo con altri occhi, come possiamo dire che è opera nostra? È un miracolo, è un dono: non siamo noi che l’abbiamo creato, che gli abbiamo infuso l’anima, lo spirito. È stato Qualcun altro. Quando guardiamo un tramonto meraviglioso, le stelle o la luna, il volgere puntuale delle stagioni, sappiamo certamente la spiegazione dal punto di vista scientifico; ma con altri occhi non possiamo non riconoscere che tutto è mosso da Lui. Quando siamo felici, quando siamo traboccanti d’amore, quando ci viene da dire: “Potrei anche morire da quanto sono felice”, questa felicità, questo amore, viene realmente da noi? Siamo noi gli autori di queste sensazioni? Se guardiamo umanamente la nostra vita realizzata, felice, pensiamo giustamente di essere noi gli autori di tutto, ma con gli occhi più profondi del cuore non possiamo non convenire che qualche angelo ci ha sempre protetti e indirizzati.
“Fede” allora vuol dire che la vita è più di quello che vediamo. Per cui Gesù qui voleva dire: “Guarda oltre gli uccelli del cielo; oltre i gigli del campo! Guarda “oltre”, e troverai qualcos’altro, troverai Qualcun altro”. Allora, quando guardiamo una cosa, guardiamo oltre; quando guardiamo una persona, guardiamo dentro di lei. Omettere ciò significa essere “superficiali, significa fermarsi alla superficie delle cose: in tal caso la montagna è un ammasso di detriti, sassi, alberi e terra; la persona, un insieme ordinato di muscoli, tessuti, nervi, cellule, ecc.; la vita, un susseguirsi incalzante di avvenimenti scanditi dal tempo. Ma è tutto qui? Assolutamente no: guardare con gli occhi della fede non equivale ad essere ciechi, a non vedere cosa c’è attorno o vicino a noi, essere cioè fuori dalla realtà. Fede, ripeto, è vedere “oltre”, vedere “dentro” le cose, dentro le persone, dentro gli avvenimenti; è vedere la vera realtà, la vera essenza di ogni cosa, è andare oltre la crosta, l’aspetto esteriore.
Le parole di Gesù, insomma, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto a quei poveri che lo seguono, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa non mangiare domani. Le sue non sono parole che introducono una filosofia di vita apatica, stoicista o meglio atarassica!
Niente di tutto ciò. Non facciamo confusione!
Questo vangelo, al contrario, deve farci riflettere, deve interrogarci su alcune cose fondamentali. Prima di tutto, ci fa sapere che per le nostre scelte vitali, per la scelta della via buona, è indispensabile la luce dalla fede. È la fede che deve essere “lampada per i nostri passi”. Per questo dobbiamo sempre parlare il linguaggio della fede; quella stessa fede che siamo chiamati a trasmettere ai nostri fratelli.
Una fede che non consiste nelle parole, nei discorsi, ma nel mistero. “Mistero”, che viene dal greco “miein”, vuol dire “rimanere senza parole, a bocca aperta”. È la sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di troppo grande, di talmente forte, intenso, bello, enorme, che nessuna parola può in realtà contenere. Il linguaggio della fede, allora, è musica, è danza, è stupore, meraviglia, entusiasmo (in greco entusiasmo vuol dire avere un Dio dentro); è commozione, pianto, vulnerabilità, tenerezza, compassione; è passione (da pathos che vuol dire percepire, sentire, patire). La fede insomma è la percezione del Mistero di Dio che ci abita.
Riusciamo noi a percepirlo? Sappiamo piangere? Sappiamo emozionarci? Sappiamo mostrarci nella nostra vulnerabilità? Sappiamo chiedere scusa? Sappiamo gioire? Sappiamo innamorarci? Sappiamo commuoverci? Sappiamo entusiasmarci? Se la nostra risposta è “sì”, allora vuol dire che “sentiamo” la voce di Dio nel nostro cuore; una voce che renderà il nostro cammino più sicuro, più deciso, più coraggioso. Non per niente la fede elimina la paura. Un esegeta ha calcolato che l’espressione “non temere” ricorre 365 volte nella Bibbia, tante quanti sono i giorni dell’anno. Allora ogni mattina facciamo tesoro di questa esortazione divina: alziamoci con la certezza che nel momento del bisogno, Dio sicuramente ci fornirà tutte le risorse necessarie, le capacità, le forze sufficienti per affrontare e superare qualunque disagio della vita. O per accettarlo con cristiana rassegnazione. Non sappiamo esattamente come, ma questa è la nostra fede.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso”.
Gesù sa bene come è fatto l’uomo. Conosce molto bene le nostre debolezze, la nostra voglia di rincorrere l’effimero, i lustrini del mondo, di affannarci, di agitarci per qualunque bene tarocco, a costo anche di rinunciare alla vera bellezza della vita, all’autenticità dell’amore.
Lui sa che noi vorremmo essere sempre al sicuro, avere tutte le certezze: degli affetti, del tempo, delle cose, di tutto insomma. Che noi vorremmo avere tutto e subito: oggi, per essere tranquilli domani. Ma il futuro non offre garanzie: il domani è nelle mani di Dio: e nel momento stesso in cui pensiamo di averlo toccato, di goderlo, ci sfugge inesorabilmente di mano. Per questo ci insegna di affidare il nostro domani alla provvidenza del Padre, accogliendo con semplicità e riconoscenza quell'oggi che Egli ci concede di vivere.
Allora, nella serenità di chi si sente affrancato da ogni “preoccupazione” terrena, accogliamo con gioia il messaggio del Vangelo.
Chi sceglie di seguire Gesù è veramente felice, perché libero. È libero di darsi ai fratelli con cuore lieto e generoso; è libero di appassionarsi alla propria vita, sapendo che essa è un dono di Dio. Un dono immeritato e sovrabbondante. È libero di cercare quel Regno di Dio, promesso ai servi fedeli. Ed è proprio in questo cercare umile, orante, continuo, settimana dopo settimana, vangelo dopo vangelo, che noi riusciremo a raggiungere il vero senso della vita. Senza peraltro mai “possederla”: perché possedendola, torneremmo inesorabilmente ad essere schiavi delle preoccupazioni, degli affanni, degli accumuli, dei piaceri smodati, delle ipocrisie di questo mondo.
Cercare tuttavia non è garanzia di comprendere tutto; ci offre però la possibilità di imparare. Di vivere. Di amare. Le cose belle della vita non sono lontane da noi: le troviamo nelle pieghe del nostro vivere quotidiano. Usciamo allora di casa ogni mattina, ammiriamo le bellezze della natura, del creato, capolavoro di Dio; spalanchiamo gli occhi e il cuore. Abbandoniamoci in Lui. E potremo tuffarci in un oceano di bellezze, in un universo di meraviglie. E finalmente capiremo. Capiremo sul serio che Gesù è fedele, è di parola. Capiremo che la vita è un suo dono preziosissimo, un tesoro incalcolabile, oro puro. Amen.



giovedì 16 febbraio 2017

19 Febbraio 2017 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,38-48).

Continuiamo anche oggi la lettura del Discorso della montagna (Mt 5-7), sintesi di tutta la predicazione di Gesù, “magna carta” per meritare l’accesso al Regno di Dio.
Abbiamo visto domenica scorsa la premessa di Gesù: contro quanti affermavano che era venuto per abolire la Legge e i Profeti, Egli continua ad assicurare che non avrebbe annullato proprio nulla, anzi che con Lui tutte le Scritture avrebbero trovato la loro autenticità, il loro “compimento”: solo Lui, infatti, personificazione dell’amore e della volontà del Padre, con la sua natura, con la sua vita, con la sua Parola, poteva offrire il vero senso della Legge e delle promesse profetiche, innestandole al grande “comandamento dell’amore”.
Nel vangelo di oggi, Gesù continua dunque a contrapporre un prima e un dopo: una norma consolidata nel tempo e normalizzata, che Lui rilegge, perfeziona e completa con i suoi insegnamenti: non propone una legge nuova, ma un compimento nuovo, rivoluzionario, unico, come unica è la sua giustizia, riflesso dell’amore del Padre.
In pratica Gesù capovolge l’equilibrio imperfetto e precario della Legge antica: la rilancia, proponendo una nuova visione dei valori decisamente più stabile, completa e radicale; una visione che si poneva decisamente “oltre” la prassi di allora, in una prospettiva di vita completamente nuova, fino ad allora impensabile; come? non opponendo resistenza al malvagio, ma rispondendo  ai suoi attacchi, anche se crudeli e feroci, con amore; pregando per i nemici, assumendo come modello ideale la misericordia di Dio, che è Padre di tutti, buoni e cattivi.
“Occhio per occhio, dente per dente” prescriveva infatti la legge del taglione: che non era poi un incitamento a vendicarsi, ma la positiva introduzione di un certo “limite” alle smisurate rappresaglie vendicative con cui si usava rispondere ad un torto ricevuto. In pratica: “Se intendi vendicarti per un’offesa, fallo alla pari, non andare oltre la misura dell’offesa ricevuta”. Una legge che garantiva una certa equità, ma comunque decisamente imperfetta: di essa Gesù propone infatti un sostanziale miglioramento, in grado di assicurare al cuore e alla vita dell’uomo, pace e serenità. “Io vi dico, amate i vostri nemici”.
Ma cosa vuol dire “amare i propri nemici”? Bisogna fare qui una piccola distinzione: dobbiamo cioè distinguere l’amore concreto da quelle che sono le sensazioni, i “sentimenti d’amore”. Mi spiego: Gesù non dice: “Devi sorridere ai tuoi nemici” oppure “devi provare simpatia, considerazione, ammirazione per loro”, o ancora “devi sentire affetto” per i tuoi nemici, per chi ti ha fatto del male, per chi ti ha ferito (che sono tutti “sentimenti d’amore”). Gesù non è uno sprovveduto; Egli sa benissimo che non si possono comandare le “emozioni”. Egli in pratica dice un’altra cosa: “Ama in maniera concreta i tuoi fratelli, anche se sono tuoi nemici, e lo devi fare indipendentemente dalle tue emozioni”. Cioè: “Devi comunque continuare a far loro del bene, a fare sempre ciò che è bene per loro, ciò che è meglio per loro, anche se in cuor tuo nutri naturali sensazioni contrarie; devi usare nei loro confronti la massima carità, quella vera, autentica, anche se li consideri tra i tuoi nemici peggiori”.
In sostanza non dobbiamo mai abdicare all’amore per far posto alle nostre naturali e lecite emozioni di rabbia, di risentimento, di disappunto. Perché facendo così finiremo per avvelenare il nostro cuore.
Noi siamo convinti di essere buoni cristiani, persone oneste, perché amiamo la nostra famiglia, rispettiamo i nostri amici, vogliamo bene ai vicini, non facciamo loro del male. Ma Gesù ci dice che se amiamo “quelli che ci amano”, non facciamo nulla di straordinario: questo lo sanno fare tutti, anche quelli che non hanno fede. La nostra vita, purtroppo, è talmente impantanata nella mentalità di questo mondo, che siamo convinti di essere giusti, “osservanti”, pii cristiani, anche quando facciamo le cose più naturali, più ovvie di questo mondo, cose che non richiedono alcuno sforzo, come per esempio amare chi ci ama. Il problema serio nasce invece quando non siamo amati, quando il nostro amore non è corrisposto, quando non siamo capiti, quando veniamo fraintesi, quando ci sentiamo compatiti o addirittura odiati! Come ci comportiamo allora? Beh, ovviamente, facciamo quello che ci riesce più facile, più naturale, più immediato: piuttosto che perdonare e amare, ripaghiamo con la stessa moneta: “Ti sto antipatico? Anche tu a me! Non mi sopporti? Neppure io! Mi odi? Io pure!”. Del resto, pensiamo, che male c’è? Non facciamo nient’altro che restituire agli altri ciò che riceviamo! Attenzione però, perché, alla fin fine ciò equivale a: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ossia, anche noi, da “buoni cristiani”, ci avvaliamo dell’antica logica “del taglione”.
L’ideale di perfezione propostoci oggi da Gesù è invece di gran lunga superiore, contiene un messaggio nuovo, sconvolgente e rivoluzionario. È il più controcorrente di tutti, perché non si tratta tanto di osservare una legge umana, ancorché difficile, impossibile, ma di donare a tutti la stessa vita di Dio: l’amore.
Una cosa, l’amore vero, autentico, che oggi è decisamente svalutato dalla nostra società. Quanti di noi, infatti, sono disposti ad accettare in pieno le parole del Vangelo? Eppure esse costituiscono l’essenza del cristianesimo, sono l’unica chiave per capire e vivere la nostra religione! È una delle cose straordinarie che Cristo richiede da noi. Cose straordinarie che dobbiamo fare in maniera ordinaria, ogni giorno! Se ci professiamo cristiani, ma non parliamo il linguaggio dell’amore, del perdono, della non violenza, noi professiamo e diciamo il falso. Dobbiamo invece essere convinti che l’amore è più forte dell’odio. Dobbiamo credere che solo l’amore assicura all’umanità un domani migliore. Qualcuno ha detto che il cristiano, o è l’uomo del paradosso, o l’uomo della banalità. Ebbene, noi non possiamo annullare la potenza del Vangelo,il “paradosso” di Cristo, adeguandoci alla mentalità della “legge del taglione”, alla banale mentalità mondana.
Dobbiamo ridare all’amore la sua vera dimensione, scoprendone la bellezza, la grandezza e le esigenze. L’amore è sicuramente la prova più difficile e impegnativa alla quale un cristiano è chiamato. Ma è anche la testimonianza più alta che egli possa dare alla sua fede. Nella vita noi potremo avere al massimo due o tre occasioni per dimostrare a tutti il nostro “eroismo”; ogni giorno però abbiamo la possibilità di amare, di amare tutti, di amare sempre. Sì, perché se tutto quello che facciamo, dalle cose più semplici a quelle eroiche, non le facciamo per amore, non servono a niente.
Ecco allora che ci aspetta una belle sfida, un bel percorso in salita.
Del resto tutto il “discorso della montagna” ci pone di fronte non ad una, ma ad una “catena di montagne” da scalare: il punto d’arrivo più alto, la vetta panoramica da raggiungere, ci viene indicata proprio dalle parole di Gesù con cui Matteo conclude il vangelo odierno: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. In estrema sintesi Gesù ci raccomanda: “Dovete essere sempre quel che siete!”. Che vuol dire? Che siamo figli di Dio chiamati ad essere sempre come Lui; siamo sue creature, il cui vivere naturale deve diventare soprannaturale, creature finite create e proiettate verso l’Infinito. Siamo tutti immagine di Dio: e siamo tali, siamo cioè noi stessi, soltanto se siamo “santi, perfetti” come Lui.
Allora, e concludo, essere “santi come Lui”, significa condividere con Lui quel medesimo amore con cui Lui ama tutte le sue creature; significa diventare un “segno”, una “icona” del suo Amore nella nostra quotidianità; significa spendere la nostra vita a favore dei fratelli, con un amore pari a quello che noi stessi riceviamo continuamente dal Padre. Amen.


giovedì 9 febbraio 2017

12 Febbraio 2017 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt  5,17-37).

Abbiamo detto che il “Discorso della montagna” costituisce la sintesi di tutta la predicazione di Gesù. Il Vangelo di oggi, di cui è parte essenziale, ci offre la chiave di lettura, l’autentica interpretazione del suo “nuovo” e rivoluzionario messaggio, spiegando a chiare lettere la sua stretta connessione con il pensiero veterotestamentario e con la Legge mosaica.
Di “nuovo” in pratica non c’è proprio nulla, tant’è che Gesù lo rimarca subito: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti…”. Assolutamente no! Egli non è “contro” la Legge: anzi si dichiara apertamente a suo favore.
Ma perché Gesù ha sentito il bisogno di questo chiarimento? Semplice: perché i “custodi dell’antica Legge”, i dottori della legge e i farisei, vedevano in Gesù un nemico, uno che non perdeva giorno per condannare, di fronte al grande pubblico, la loro ottusa interpretazione della Legge e della Scrittura; uno quindi che doveva essere messo a tacere ad ogni costo: e per questo ogni occasione era buona per screditarlo proprio con quella popolazione che lo seguiva entusiasta, vedendo in Lui, finalmente, l’incarnazione messianica tanto attesa, il restauratore del popolo ebraico.
Non dobbiamo dimenticare che Gesù è un ebreo: è nato in Palestina, da genitori ebrei, ha parenti ebrei, vive in una cittadina di soli ebrei. Il concetto chiave, assorbito con la nascita, era per Lui, come per tutti gli ebrei, l’Alleanza. Che voleva dire? Che Dio ad un certo punto della storia, aveva scelto il popolo ebraico come suo prediletto, aiutandolo sempre e in tutto, anche a scapito degli altri popoli. Unica condizione, unica contropartita, era la fedele osservanza della Legge che Dio aveva posto a suggello dell’antica Alleanza, stipulata con il patriarca Abramo. Pertanto, l’osservanza scrupolosissima della Legge costituiva l’unico elemento qualificante la loro religiosità. Un’osservanza però che, grazie proprio alle cavillose e ossessive interpretazioni delle autorità religiose, si era ridotta ad una vuota formalità esteriore.
Gesù, indignato per tale comportamento fuorviante, con la sua predicazione dice “Basta, così non si può più andare avanti!”: il rapporto con Dio non si può basare sulla Legge, sull’Alleanza, sul fatto che “noi siamo ebrei, noi veniamo da Abramo” (Gv 8,33), e poi ognuno si comporta come più gli piace. Non è più possibile continuare a fare il proprio comodo, giustificandosi che è “volontà di Dio, parola di Dio” ciò che non c’entra nulla con Dio. Pertanto: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.
A quel tempo tutti ormai pensavano: “Se lo dice la Bibbia, se è scritto nella Legge, allora si può fare!”. Ma Gesù: “No, neppure per sogno! Non bisogna essere fedeli alla lettera, alle parole, ma allo Spirito. La prima regola non è la Bibbia ma il cuore. Anche se lo dice la Bibbia, ma è contro il cuore, contro l’amore, allora è contro Dio”.
È chiaro allora come mai scribi e farisei fossero tanto furiosi con Gesù, perché le autorità più intransigenti lo odiassero profondamente.
Gesù però non è contro la Legge: lo ribadisce oggi. È contro l’interpretazione che di essa veniva data. Perché fare le cose “legalmente”, significa farle per “sentirsi in regola”, non certo per amore. L’amore comandato è “obbligo”, non è amore. L’amore non si può imporre.
Quindi Gesù non abolisce l’Antica Alleanza, ma la riporta al suo spirito. La conduce dall’esteriorità all’interiorità, le dà compimento, la fa evolvere dall’antico al nuovo. I suoi criteri di giudizio pertanto si scostano da quelli di una volta: “Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico…”. Chi sono questi “antichi”? Non è certo gente qualunque: Mosè, Abramo, Isacco, Giacobbe; sono i capisaldi della religione ebraica: Gesù, in realtà, rompe con ciò che tutti consideravano “legge”, con quegli schemi che tutti davano per scontati. Rompe non con “gli antichi”, ma con l’interpretazione falsa e stupida che la gente dava degli “antichi”. Questi infatti avevano creato delle leggi adatte al loro tempo; e lo avevano fatto per dei motivi ben precisi, per giuste necessità.
La legge del sabato, ad esempio; una legge che a noi può sembrare stupida: Gesù, invece, ne capisce benissimo il senso originario: la maggior parte della gente era dei poveracci che lavorava per i ricchi. Ora, senza questa legge che vietava il lavoro nel giorno di sabato”, i poveracci sarebbero stati costretti a lavorare anche in quel giorno. Con la Legge, è Dio stesso che ordina il riposo, e quindi tutti, ricchi e poveri, devono conformarsi ad essa. Gesù, a questo punto, non elimina la legge del sabato (il riposo è obbligatorio per tutti), ma una sua interpretazione troppo legalistica, assurda, fuori dalla realtà: in pratica cioè Gesù dice: “Se di sabato una pecora ti cade in una fossa, è ovvio che devi prenderla e tirarla fuori” (Mt 12,11).
Oppure la legge sulle decime:  le somme pagate dagli ebrei non servivano solo a mantenere il tempio e i suoi funzionari, ma anche a dare un pasto festivo ai poveri e agli emarginati della società che altrimenti non avrebbero avuto nulla da mangiare (Dt 14,24-27). Gesù non l’abolisce, perché sa che pagare “la decima” permetteva a molte persone di sopravvivere. Si arrabbia invece quando le persone, pagando le decime, pensano di essere completamente in regola con Dio. Così pure con i sacrifici al tempio, che permettevano a chi aveva peccato, chi aveva frodato, rubato, ecc., di venire riammessi nella comunità. Lo scopo iniziale era quindi di ottenere il perdono: se infatti uno aveva rubato, non solo doveva restituire ciò che aveva sottratto, ma un quinto in più del suo valore a titolo di “dono”, di “sacrificio” a Dio. Gesù allora non se la prende con i sacrifici in quanto tali, ma con coloro che li compivano quasi per “comprare” Dio, e sentirsi a posto con la propria coscienza.
Le leggi poi evolvono, cambiano. Gesù non dice: “Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Loro sono stati importantissimi per il loro tempo: ora però sappiamo cose che una volta non sapevano; ora abbiamo capito che Dio non è più soltanto un giudice che punisce chi sbaglia, ma è soprattutto un padre amoroso; abbiamo capito che Dio non è proprietà esclusiva di qualcuno ma è di tutti; abbiamo capito che Dio è misericordia, compassione, tenerezza anche per le donne, i bambini, gli esclusi, i lebbrosi e i peccatori. Questo “gli antichi” non lo sapevano: e noi oggi non possiamo rimanere stoltamente attaccati alle “loro” regole: le regole sono fatte per l’uomo e non l’uomo per le regole (Mc 2,27). Le regole servono per vivere, ma quando vanno contro la “vita”, non servono più e devono essere semplicemente sostituite da altre.
È successo anche recentemente, ricordate? Una volta le donne non votavano. Poi si è capito il valore della pari dignità tra uomo e donna e allora la regola è cambiata. In Italia la donna vota dal 1946; la prima nazione in cui la donna ha votato è stata la Nuova Zelanda nel 1893. Le leggi cambiano in base all’evoluzione della gente.
Una volta la lingua Liturgica era solo il latino: finché la gente capiva qualcosa, andava tutto bene; quando però non capì più nulla, al punto che durante la messa, mentre il prete faceva le “sue cose”, la gente passava il tempo recitando il rosario, si decise di introdurre anche la lingua “parlata”. Altra legge liturgica era che per fare la comunione bisognava osservare il digiuno stretto dalle ventiquattro ore prima.
Sono tutte regole che andavano bene, che avevano un senso, in un certo tempo. Poi le cose sono cambiate. Anche quelle che oggi sono le nostre regole, domani forse non lo saranno più.
Le leggi evolvono: non dobbiamo quindi attaccare alle regole ma allo spirito che sta dietro alle regole. Soltanto i valori rimangono immutati, durano per sempre; le regole non sono altro che l’applicazione pratica dei valori. Finché ci aiutano, le rispettiamo; quando non ci aiutano più le superiamo e ne facciamo delle altre.
Gesù, dunque, nel “contrapporre” la “sua” legge a quella patriarcale, va oltre: per Lui tutto ciò che è decretato contro l’uomo, è anche contro Dio, e quindi va corretto, va rivisto.
Nessuno può giustificarsi ancora dicendo: “È scritto nella Bibbia, quindi si può fare, è permesso!”. Il primo criterio che uno si deve porre è invece: “Quello che sto facendo è amore? Cosa dice il mio cuore, la mia coscienza?”. La Legge, per esempio, ordina di “non uccidere”, di non procurare la morte; ma l’uccisione non riguarda solo la “morte fisica”, puntualizza Gesù; c’è anche una morte civile, spirituale, che si attua con le parole, con la calunnia, con la maldicenza. L’omicidio verbale talvolta è più crudele, richiede più cattiveria, più falsità, di quello fisico.
Così per l’adulterio: la giustizia legale era “opinabile”, nel senso che difficilmente il marito veniva accusato di infedeltà: quando desiderava un’altra donna, ripudiava tranquillamente la moglie, anche con stupidi pretesti, e si univa legalmente con un’altra donna; la moglie invece non aveva alternative possibili: per sopravvivere era costretta a “risposarsi”, cadendo automaticamente nella qualifica di “adultera”. Allora Gesù dice: “State attenti! Non guardate solo alla forma, alle parole, ai cavilli legali che sono solo a vostro tornaconto. Il vostro relazionarvi sia sempre mosso dall’Amore”.
È l’amore che deve guidare i nostri passi, è l’amore che deve essere l’unico nostro punto di riferimento. L’amore esige mille attenzioni, la fedeltà all’amore è estremamente complessa e variegata: si è infedeli all’amore, per esempio, anche solo non facendo nulla per alimentare l’amore, per tenerlo vivo; siamo infedeli anche quando siamo freddi, distaccati, insensibili, quando umiliamo l’altro; non solo quando lo picchiamo o gli usiamo violenza, ma anche quando più semplicemente non gli apriamo il nostro cuore. L’amore non si esaurisce nell’atto sessuale, è molto, molto di più. Coinvolge l’intera vita comune. Non si può ridurre l’infedeltà matrimoniale al solo tradimento sessuale. Gesù ha una concezione molto più ampia: è “adultero” non solo chi compie l’atto fisico fuori dal matrimonio, ma anche colui che con il cuore, con la mente, si lascia andare a desideri osceni, sconci, indecenti. In proposito Gesù usa un linguaggio paradossale molto forte: “Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo… se è la tua mano, troncala e gettala via da te (Mt 5,29-30)”. L’occhio, nella Bibbia, è simbolo del desiderio, del voler possedere ciò che si vede. La mano è il simbolo dell’azione, del fare, del dare seguito e compimento al desiderio.
In pratica Gesù dice: “Se c’è qualcosa in te che devi cambiare, anche se è difficile, doloroso, devi farlo, devi estirparlo. Perché altrimenti “sei fuori” (“gettato nella Geenna”).
Quando c’è una cosa da fare, dobbiamo farla. È inutile barcamenarci dicendo: “Ma è difficile! Mi fa star male! Cosa dirà la gente? Perderò degli amici?”. Talvolta prendere delle decisioni è come andare dal dentista per sottoporsi ad un intervento doloroso: noi lo eviteremmo ben volentieri, ma non abbiamo alternative: dobbiamo necessariamente passare di là. E allora, anche nel nostro vivere l’amore, dobbiamo “ravvederci”, dobbiamo “convertirci”, dobbiamo cambiare in meglio: per vivere pienamente, per realizzarci, per “volare”, per essere noi stessi, non possiamo rimandare più: facciamolo e basta. Amen.



venerdì 3 febbraio 2017

5 Febbraio 2017 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!» (Mt 5,13-16)

Il brano del vangelo di oggi si trova, come quello di domenica scorsa e tutti quelli delle prossime domeniche, nel Discorso della Montagna (Mt 5-7), che costituisce il programma di Gesù, il manifesto, la sintesi di tutta la sua predicazione: Gesù non ha scritto libri, non ha pubblicato manuali di comportamento, ma ha lasciato questo grande e meraviglioso “Discorso della Montagna”.
Il testo di oggi ci propone in particolare due immagini riferite da Gesù ai suoi: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!».
Da notare innanzitutto i due verbi “siete”; non sono degli imperativi (“dovete essere!”) ma degli indicativi: indicano cioè una condizione già in atto, già presente in noi: vivere in questo modo, è già nelle nostre possibilità. Noi siamo “sale”, siamo “luce”: quindi è naturale vivere di conseguenza.
Ma come è possibile, visto che sale e luce presentano due caratteristiche completamente opposte? Se la luce infatti è immediatamente percepibile, non altrettanto succede per il sale. Il sale non si vede: però lo sentiamo subito, lo riconosciamo, ne percepiamo la presenza, anche se non lo vediamo: ci è mai capitato di mangiare una pietanza senza sale? Ce ne saremo accorti immediatamente!
Sale e luce, sono pertanto due realtà che si impongono immediatamente all’attenzione di chiunque e quindi sono entrambe facilmente armonizzabili nella nostra vita.
Cerchiamo allora di cogliere nel dettaglio il significato di queste caratteristiche, che Gesù simbolicamente ha trasformato in “virtù” determinanti per i suoi discepoli.
Prima di tutto il sale. Quali proprietà emergono dal testo? Che è invisibile, che non si vede, che la sua presenza non è percepibile all’occhio, ma che se non c’è, se manca totalmente, ogni cosa perde di sapore, di gusto, tutto appare senza senso, senza incisività.
L’importanza del sale e la sua indispensabilità non era una novità ai tempi di Gesù: non è una sua. Sappiamo infatti dalla storia che anticamente questo minerale era ritenuto così importante, e apprezzato per le sue qualità, da divenire una preziosa merce di scambio; lo stesso Plinio il Vecchio, contemporaneo di Gesù, arriverà addirittura a scrivere: “Nihil sole et sale utilius”: non c’è nulla di più utile del sole (la luce) e del sale. Era inoltre sinonimo di garanzia, di validità di un patto, di un’alleanza: sulla stretta di mano con si esprimeva il reciproco consenso e si sanciva la legittimità contrattuale, veniva versato un pizzico di sale. Per i Greci, dire di “aver mangiato un moggio di sale”, significava affermare l’esistenza di una amicizia inseparabile con qualcuno. Una simbologia peraltro giunta fino a noi attraverso il vecchio rituale del Battesimo dei bambini, (è stato sostituito dal nuovo Rito nel 1970), che prevedeva la benedizione del “sale della sapienza” e la sua imposizione sulla bocca del battezzando.
Essere allora, come dice Gesù, “il sale della terra”, significa dare sapore, dare gusto, dare il giusto valore alle persone, alla vita, alle cose.
Ma cos’è che dà “sale” alla vita? Ci sono fondamentalmente due elementi che concorrono a ciò. Prima di tutto il “sentimento”: il sano piacere, il bello della vita, il “gusto” della natura, l’amabilità delle persone, delle cose, derivano dalle vibrazioni interne della nostra anima. Più “sentiamo” queste vibrazioni, più siamo sensibili a questi “impulsi” dell’anima, più la nostra vita avrà senso, più sarà significativa, più godrà di un valore aggiunto.
Ma che succede se noi non avvertiamo queste vibrazioni, se le percepiamo poco o nulla? Succede che rischiamo di perdere completamente il senso, il gusto della vita. Non sentiamo più nulla: viviamo come anestetizzati, desensibilizzati. Non disponiamo più del “sale” della gioia, dell’amore, della vitalità, della compassione; nulla più ci commuove, nulla più ci intenerisce.
Per cui, nel grigiore più totale, ci lamentiamo che la vita è noiosa; che la vita è un tran-tran monotono, che è sempre la solita; e trasciniamo i nostri giorni nella cupa rassegnazione, quando invece, nella realtà, la vita è ricchissima di emozioni, di bellezza, di amore. Siamo noi purtroppo che non le sentiamo. Succede un po’ come quando indossiamo gli auricolari del cellulare: ci isoliamo, intorno a noi cala il silenzio, non sentiamo più nulla; i rumori, i suoni della vita, la voce di chi ci rivolge la parola, diventano impercettibili: siamo tagliati fuori dalla realtà, dalla vita. Cosa fare allora? Dobbiamo toglierci le cuffiette! Per sentire la “vita”, il sapore di ogni cosa, dobbiamo toglierci i tappi che ci siamo messi, magari in un momento particolarmente difficile, problematico, doloroso. All’inizio forse sentiremo un gran dolore (è proprio per non sentirlo che ci siamo messi i tappi), ma se avremo pazienza e volontà, piano piano, risentiremo tutto il gusto della vita, l’armonia del creato, l’importanza delle persone.
L’altro elemento che ci ridà “sale”, che ci restituisce il gusto di vivere, è il “sentirsi utili”.
Accade spesso, purtroppo, che tanta gente si chieda con angoscia: “Che vivo a fare? A che serve questa mia vita? ”. Non hanno prospettive, non guardano lontano: vivono schiavizzati dalle problematiche del presente. Magari buone, come “servendo” i figli: certo, far crescere una vita li fa sentire senz’altro utili, importanti, li fa sentire qualcuno; è insomma una gran cosa; ma poi, quando i figli crescono e se ne vanno di casa per vivere la loro vita, si sentono inutili, isolati, si abbandonano a loro stessi, cadono in depressione. Come pure altre persone che si sentono insostituibili al lavoro: quando ad un certo punto vengono “scaricati”, vivono un trauma profondo, un autentico fallimento. Ci sono poi persone che hanno l’assoluta necessità di sentirsi attive, “utili”, importanti, insostituibili, tanto da arrivare ad odiare i superiori che non riconoscono il loro talento, la loro genialità, dimenticando di coinvolgerle nelle varie iniziative (quante volte succede anche negli ambienti religiosi, nelle parrocchie!); allora si sentono non valorizzate, accantonate, abbandonate, inutili.
Attenzione però: perché nell’uomo c’è anche un sano bisogno di essere considerato, di essere visto, di esserci per qualcuno, di “sentirsi utile” che lo porta a combattere, a darsi da fare, un bisogno che non si ferma di fronte alle difficoltà. È il bisogno di essere “sale”, di offrire cioè un servizio al prossimo, ai fratelli, all’umanità: e ciò si realizza non con l’isolamento, non con l’invidia, non con la bramosia di gloria e onorificenze, ma con un vivere in positivo, un vivere che produca “vita”, evoluzione, benessere, amore, crescita. È quando sentiamo nascere dentro di noi qualcosa di importante, come una “chiamata”, una passione particolare, sentiamo di avere dentro di noi dei doni, dei talenti che possono essere utili a questo mondo: allora ci rendiamo umilmente disponibili, ci offriamo, ci doniamo. In una parola siamo “sale”.
“Voi siete il sale della terra”. La terra è la vita di tutti i giorni: essere sale della terra vuol dire quindi aiutare le persone a dare un senso, il loro senso, alla vita, a tutto ciò che accade intorno a loro. Dobbiamo aiutarle a pensare che le cose non accadono per caso. Dobbiamo farli riflettere su ciò che vivono, a porsi delle domande, ad ascoltare la voce di Dio che parla in continuazione attraverso la storia, attraverso i fatti, gli eventi, gli incontri, di ogni giorno. A quanti si chiedono ancora: “Dio? Ma chi è Dio? Dov’è Dio?”, pensando che Lui se ne stia altrove a farsi i fatti suoi, dobbiamo dimostrare con la nostra vita che Lui c’è, è presente al nostro fianco, ci parla, ci educa continuamente, ogni giorno; ci dona la sua “sapienza”. La parola “sapienza”, che viene dal latino “sàpere”, vuol dire appunto “avere sapore”. Solo con Lui noi diventiamo saggi, sapienti, solo con Lui noi “gustiamo” la vita, e imparando dalle nostre esperienze, diventiamo “sale” per il prossimo.
L’altra immagine proposta dal vangelo di oggi è la “luce”: “Voi siete la luce del mondo!”.
La luce, la lampada ad olio, per una povera casa palestinese era tutto. Per noi moderni invece la luce ha perso la sua eccezionalità. Parole come quelle del Salmo 118: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”, hanno perso il loro fascino; per noi la luce non è una cosa rara, ce l’abbiamo sempre a portata di mano, a disposizione. Basta un pulsante per accenderla! Non così ai tempi di Gesù: anche una luce fioca, una piccola lampada ad olio, erano fondamentali.
Non dimentichiamo inoltre che “Dio”, in lingua sanscrita, vuol dire proprio “luce”. Una luce abbinata da sempre alla vita: “venire alla luce”, “dare alla luce”, significa “nascere”; spegnere la luce, “morire”.
In pratica, allora, cosa vuol dire Gesù con “voi siete la luce del mondo”?
“Luce del mondo” una volta era Gerusalemme; di lei il Profeta Isaia aveva infatti scritto: “Alzati, vestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60,1-3).
Ora però, con Gesù, Gerusalemme ha cessato di essere tale: realtà statiche, come una città, un tempio in muratura, sono state sostituite da nuove realtà dinamiche, vive, palpitanti: i discepoli che Gesù manda in tutto il mondo ad annunciare la buona notizia (Mt 28,20).
Sono loro la nuova “luce del mondo”, sono loro che, al pari di una città costruita sopra un monte, non potranno passare inosservati. In altre parole, chi segue Gesù, chi vive le “beatitudini”, il suo messaggio, chi annuncia il suo Vangelo, in una parola il suo “discepolo”, è automaticamente “luce”: è visibile da tutti, può illuminare tutti.
Che significato avrebbe infatti accendere una lampada e metterla sotto un “moggio”, sotto un recipiente? Una lampada accesa va messa in alto, su un candelabro, perché la sua luce sia godibile da tutti. Tutti cioè, vedendo questa “luce”, vedendo questi discepoli, potranno constatare che è possibile vivere come loro, che è possibile per tutti vivere in maniera diversa, in maniera nuova; tutti potranno rendersi conto che è possibile adottare un altro stile di vita, un altro modo di fare, un modo diverso di sentire, di relazionarsi, di amare.
Ecco perché la fonte della nostra luce devono essere le opere buone. Perché è la nostra vita, il nostro modo di viverla, la luce che gli altri devono ammirare, che gli altri devono imitare; è il nostro buon esempio, la nostra convinzione, il nostro vivere il Vangelo in modo serio e coerente. Gesù in pratica non ci chiede di frequentare università pontificie, non ci chiede di insegnare teologia, non ci chiede di fondare associazioni e gruppi di preghiera, ma ci chiede semplicemente di vivere le sue “beatitudini”, di testimoniare onestamente il suo Vangelo.
Con il nostro vivere “luminoso” dobbiamo in pratica dire a tutti: “Anche tu sei anima, sei spirito, sei emozione, sei divino, sei energia, sei canto, sei luce, sei forza, sei fuoco; anche tu puoi vivere nel Tutto perché il Tutto già risplende in te”. Senza la Sua “Luce”, senza lo Spirito d’Amore, senza una nostra vita in simbiosi con la Vita, non c’è possibilità di salvezza per questo mondo! Amen.



venerdì 27 gennaio 2017

29 Gennaio 2017 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-12).

Il vangelo di oggi ci propone le “beatitudini”: un condensato di norme comportamentali che Gesù indica come insostituibili per quanti vogliono seguirlo come discepoli.
È la legge definitiva del nuovo corso di vita instaurato da Gesù: una legge però che, nello stile di Dio, non impone “cosa” dobbiamo fare o non fare, ma ci spiega semplicemente “come” dobbiamo essere: quindi non una legge “negativa”, nel senso che “vieta”, ma “propositiva”, nel senso che esorta a fare nostro il nuovo stile di vita improntato sulla carità.
Le beatitudini in pratica ci indicano il percorso che dobbiamo fare se vogliamo raggiungere il massimo delle nostre aspirazioni: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole per te e questa è la tua unica felicità. Tu non immagini neppure le possibilità che hai, come puoi vivere, come puoi sentirti soddisfatto e felice! Non immagini neppure la grandezza del tuo cuore, la potenza del tuo amore, la profondità dei tuoi rapporti, dei tuoi sentimenti, delle tue percezioni. Non immagini quanto tu possa sentirti ricco, ricolmo di vita, forte, pur non possedendo nulla”.
Le beatitudini, certo, non ci insegnano a vivere senza contrasti, senza conflitti, perché purtroppo vivere senza tale zavorra è impossibile. Non insegnano a scansare le contrarietà della vita ma ad entrarci dentro, a superarle; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (sarebbe comodo), ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io”; e di noi: “Tu puoi vivere meglio di come pensi”.
Le beatitudini infatti non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza. Non dicono che la povertà è un bene: la povertà è miseria, ma appartiene realisticamente alla nostra condizione umana. Non dicono che è un bene essere perseguitati: no, è terribile e crudele; chi lo cerca è un masochista, un ammalato! Ma non possiamo neppure vivere pensando di essere sempre bene accetti da tutti. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. Solo che piangere ci trasforma, ci purifica; è il modo naturale di esprimere le nostre sofferenze, i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti, le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà: non è bello, ma è necessario. Non dicono che dobbiamo chiudere gli occhi e subire le malefatte degli uomini: dicono invece che dobbiamo essere misericordiosi, che dobbiamo avere un cuore grande che giudica solo le azioni, i comportamenti umani, non gli uomini. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura; per questo diventano aggressivi, violenti, indisponenti. Ciò non significa tuttavia che dobbiamo subire tutto. Quando c’è da dire un “no”, da puntare i piedi contro qualcuno, facciamolo con tutta la nostra forza, tenendo però in considerazione la persona che sta dall’altra parte, commiserandola per la sua situazione.
Le beatitudini dunque non sono dei comandi: “Devi vivere così”. Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. Ci offre una possibilità: possiamo sceglierla o meno. Tocca a noi scegliere. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa dobbiamo fare per essere dei bravi cristiani!”, sono un cammino.
Dio dice: “Sii te stesso”. Dobbiamo cioè vivere la nostra vita. La società invece impone la competizione: “vivi imitando i più forti, i più potenti, superali!”. Molte persone si sono adattate talmente agli altri per compiacerli, da perdere se stesse; non ricordano più neppure chi siano. Dobbiamo rimanere noi stessi, perché essere qualcun altro è il fallimento della nostra esistenza. Viviamo la nostra vita: viverne un’altra non potrà mai farci felici.
Dio dice: “A me non devi dimostrare nulla, puoi vivere serenamente la tua vita anche se non hai successo!”. La società invece dice: “Puoi vivere solo se sei ricco, se hai profitti, se sei famoso, se sei bravo”. Per questo molte persone lavorano sempre di più. Non riescono a star ferme, sono sempre in movimento. E giustificano tutta questa loro iperattività come “agire”, che a seconda  dei casi definiscono come attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per i figli.
Altre persone invece sono convinte di non valere, di non essere poi così importanti, e allora cercano in tutti i modi la visibilità, l’esserci. È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per il prossimo sarò sicuramente un ottimo cristiano, un ottimo padre, un’ottima madre!”. Ma non è quello che facciamo che ci rende bravi cristiani, bravi genitori. È ciò che abbiamo dentro che ci rende tali. Dio non ci ama perché facciamo tanto. Dio ci ama perché siamo noi, perché siamo tornati ad essere sua somiglianza. Tutto quello che facciamo esteriormente, non ci rende più belli o più graditi ai suoi occhi.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore assolutamente sicuro che ci aspetta alla fine del nostro percorso!
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”. La nostra cultura dice invece: “No, non rivelare mai i tuoi sentimenti, soprattutto quelli più personali e profondi”.
Molte persone hanno imparato che non è bello farsi vedere deboli: chi è forte non piange mai. E per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma ciò non li rende affatto uomini forti, ma solo persone insensibili, rigide e gelide come il marmo. Il pianto è una reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha addolorati. Smettere di piangere non ci rende meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo. Tensione e dolore rimangono forzatamente dentro di noi, nascondendo la verità: facciamo credere che tutto vada bene, quando invece dentro di noi siamo profondamente scossi.
Al contrario molte persone credono che arrabbiarsi sia male. Nossignori: è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni di odio. Ogni volta che veniamo feriti nella nostra dignità, è normale per noi arrabbiarci. E una volta che siamo arrabbiati, dobbiamo accettare di esserlo, perché vuol dire che una ragione c’è: solo così possiamo iniziare a gestire la nostra rabbia e a buttarla fuori.
Molte persone, poi, hanno imparato a non aver mai paura. Così sono convinti di non aver paura di nulla; ma aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura. Non dobbiamo nascondere la paura dietro una maschera allegra o sorridente. Non dobbiamo resistere alla paura con tutte le nostre forze, la paura ci appartiene. Ci dice che ciò che stiamo facendo ci costa, ci mette in gioco, è qualcosa d’importante; sappiamo però di essere noi i più forti.
Altre persone infine si vergognano di come vivono, di ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore talmente grande da contenere ogni cosa; Lui non ha paura di ciò che a noi fa paura o di ciò che ci fa sentire in colpa; la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta qualunque cosa facciamo. Dobbiamo solo comunicare con Lui, condividendo ciò che proviamo. Non dobbiamo nascondergli nulla perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle nostre “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che noi non riusciamo ad amare. E quando non avremo più nulla da nascondere, allora ai suoi occhi saremo finalmente liberi e liberati.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Già questa prima beatitudine le racchiude tutte.
Il “povero” è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso. Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa uno che vive distaccato dalle cose, totalmente immerso in esse, ma senza aggrapparsi ad esse.
Pensiamo ad una cosa e diciamole: “Tu sei mia”. A che cosa possiamo dire: “Tu sei mia!”? Il marito, la moglie, sono nostri? I figli sono nostri? La vita è nostra? No, neppure la vita è nostra. Non ci sembra allora di essere i poveri più poveri? Non possediamo nulla, nemmeno la vita!
La povertà, l’essere nulla (diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente, ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
Quando si ama, ad esempio, la paura di perdere l’altro ci può distruggere. Iniziamo a temere che qualcuno ce lo sottragga, diventiamo gelosi e iniziamo a controllarlo. Iniziamo a temere che l’amore finisca o cambi, e leggiamo ogni situazione alla luce di questa paura, vedendo non la realtà, ma ciò che i nostri occhi vogliono vedere. Iniziamo a volerlo trattenere, ad aver paura quando esce di casa, a proteggerlo troppo, a sentirci soli quando non c’è. Iniziamo a pensare a quando non ci sarà più, a come sarà la nostra vita senza di lui, e se potremmo vivere ancora. Se poi si insinua il dubbio che l’altro non ci ami più, allora è la fine. La verità, in ogni caso, è che prima o poi, nella nostra vita, quest’amore lo perderemo in ogni caso. È la realtà! Ma se riusciamo a vincere questa paura, se ce ne liberiamo, possiamo amare con tutta la forza della nostra anima e con tutto il sentimento del nostro cuore, senza calcoli, senza riserve, senza paure, senza eccessivi attaccamenti, senza possederlo.
Ringraziamo Dio di ciò che viviamo e se le cose un giorno cambieranno, le affronteremo con la pienezza dell’oggi, che diventerà la nostra forza per il domani.
La prima beatitudine, dunque, dice la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ci appoggiamo? Su cosa possiamo davvero fidaci? Sulle cose? Passano tutte, tutte si usurano. Sulla gloria? Forse rimarrà un nome, ma noi non ci saremo più. Sulle persone? Non ci salvano.
Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa a cui ci possiamo appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Nella lingua ebraica “zerà”, oltre a “zero, niente”, significa anche “seme”. Ebbene, noi siamo “zero, nulla”, siamo vuoti, poveri di tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere “niente”, è nascosto, come in un “seme”, il nostro essere tutto.
Nel nostro niente c’è il Tutto. Nella nostra povertà c’è la Ricchezza. E più noi ci spogliamo, smettendo di confidare in noi stessi, più possiamo metterci nelle mani di Dio ed essere al sicuro.

Perché quando non avremo più nulla, è allora che avremo il Tutto. E quando saremo spogli di ogni cosa, è allora che saremo rivestiti di eternità. E quando tutto morirà, allora ci sarà la Vita. E quando tutto alla fine cadrà, allora per noi sarà l’Inizio. Amen.