giovedì 22 settembre 2016

25 Settembre 2016 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,19-31).

Il vangelo di oggi non parla dell’oltretomba, della vita dopo la morte, ma parla dell’al di qua, di questa nostra vita: ci dice cioè come dobbiamo vivere ora, per non correre il rischio di finire poi, nell’al di là, come il ricco; ci dice in pratica che se ora ci disinteressiamo del povero che urla alla nostra porta, nell’altra vita finiremo sicuramente nei tormenti come il ricco della parabola.
Ci sono dunque due personaggi in primo piano: il ricco e il povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, segno di grande agiatezza e di alta posizione sociale, una casa, cibo a volontà per cui ogni giorno mangia lautamente e abbondantemente; ha fratelli, cioè amici, relazioni, amore; ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, anzi si preoccupa dei suoi fratelli; non è malvagio; non fa niente di male. Egli ha tutto, non gli manca proprio niente. L’unica cosa che non ha è il nome.
Poi c’è Lazzaro. Lazzaro, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i cani. Lazzaro è indifeso, è mendicante, bisognoso, affamato e solo, malato e ricoperto di piaghe. L’unica cosa che possiede è un nome.
Per la Bibbia, il nome riassume un po’ la vita della persona che lo porta, la rappresenta, è la sua immagine speculare; persona e nome sono la stessa cosa, coincidono. Allora conoscere il proprio nome, vuol dire conoscere se stessi, la propria identità, avere un programma preciso da realizzare, insomma, vuol dire essere vivi. “Lazzaro” è il nome del povero: il suo significato è “Dio aiuta”: un nome che sintetizza infatti la sua vita: egli ha bisogno che qualcuno lo aiuti, che qualcuno si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione, ha bisogno di Dio.
Il ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome: in questo caso il ricco non ha nome perché è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa o attira la sua attenzione, neppure ciò che gli succede praticamente in casa; non ha insomma alcun potere sulla sua vita. Non si accorge neppure di Lazzaro: ma come avrà fatto a non vederlo? Egli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere. Ecco, questo è stato il suo problema, la causa della sua condanna: non accorgersi, non voler prendere coscienza di nulla.
Ebbene, questo, dice il vangelo, è quanto sicuramente ci capiterà, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere, addirittura in casa nostra!
Viviamo pure come quel ricco: insensibili, indifferenti a ciò che reclama la nostra attenzione, il nostro intervento, le nostre cure; sicuramente ci condanneremo da soli, già in questa vita ma soprattutto nell’altra, eterna, a tormenti e disagi senza fine. Viviamo pure superficialmente, ignoriamo volutamente o per ignoranza le cose di Dio, e ci troveremo nelle sofferenze del nostro inferno.
L’inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi: continuiamo a perderci in chiacchiere insulse, evitiamo furbescamente di porci domande che ci scombussolerebbero la “quiete”, non affrontiamo volutamente questioni profonde e vitali, non scaviamo dentro di noi, evitiamo le difficoltà, i problemi, sbarazziamoci di tutto ciò che è scomodo, che ci crea fastidio, non ascoltiamo mai la voce della nostra anima, del nostro cuore: poi vedremo cosa ci capiterà!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di amore, di aiuto, di tenerezza, di comprensione e non ci sono arrivati! Non sentirci amati, aiutati, considerati, è stato sicuramente drammatico. Certo, sarebbe piaciuto anche a noi vivere come quel ricco nelle comodità, senza aver bisognoso di nessuno, autosufficienti in tutto! Fa così male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, umiliarsi perché qualcuno ci presti attenzione, ascoltandoci, colmando il nostro vuoto abissale: c’è sempre il terrore di ricevere un no, di essere ancora ignorati, rifiutati!. E così viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e buttiamo la nostra vita nella ricerca irrazionale dell’effimero riconoscimento altrui, di apparire almeno esteriormente importanti, di sembrare qualcuno.
Ma “Lazzaro” sono anche quelli che ci stanno vicini: sono le persone che sono tristi, che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: e noi spesso facciamo finta di nulla, di non sentirle: vediamole, queste persone, accogliamole, ascoltiamole! Se chi ci è vicino non parla mai, ammutolisce, è sempre chiuso in se stesso, vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Se chi ci è vicino è sempre di malumore, non ci rivolge la parola, anzi ci evita, vediamolo, ascoltiamolo, cerchiamo di capire i motivi del suo urlo silenzioso. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito, i nostri figli, hanno bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che hanno bisogno di noi, del nostro apprezzamento, di sentirsi valorizzati, delle nostre dimostrazioni di stima? Come facciamo a non vedere l’angoscia di quanti ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che si tengono dentro il loro cuore? Lazzaro ci è vicino, pressante nella sua discrezione, ma noi non lo vediamo, non lo sentiamo, siamo distratti, occupati nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri passatempo.
E non ci accorgiamo, come l’uomo ricco, che viviamo già fin d’ora nell’inferno: perché il nostro inferno è la mancanza di amore, è la solitudine, è credere che nessuno mai potrà entrare in noi per chiederci e offrirci amore; inferno è chiudere con l’egoismo la porta del nostro cuore, della nostra mente, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L’inferno è la chiusura a Dio: è non permettergli di entrare con la sua luce dentro di noi, dove c’è tormento, solitudine e sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono e misericordia.
L’inferno o il paradiso è dunque nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra Lazzaro o se lasciarlo fuori.
La conversione è il momento preciso in cui smettiamo di ignorarlo, di resistergli e, con il cuore in lacrime, con dolore ma con un senso di liberazione, accettiamo che lui ci appartiene, che Lazzaro siamo noi: e proprio in quell’istante sperimenteremo su di noi il significato del suo nome: “Dio salva”.
Nella seconda parte della parabola poi, che si svolge in cielo, troviamo il ricco che rivolge al Padre Abramo l’accorata richiesta di mandare il povero Lazzaro dai suoi fratelli, su questa terra, per indurli a cambiare vita, per non fare la sua stessa fine.
Ma, dice Abramo, ciò non è possibile, oltretutto non serve a nulla; in altre parole: se uno ha il cuore indurito, se uno per principio non vuol credere, niente e nessuno potrebbe fargli cambiare idea, non crederebbe neppure se Cristo stesso ritornasse a predicare sulla terra. Del resto, prosegue Abramo, gli elementi, i segnali per credere, ci sono già tutti: chiunque può vederli, basta che lo voglia; chi invece testardamente non vuol vederli, non li vedrà mai!
Tutti abbiamo a disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molte persone vivono una vita insensata, da sordi; si tappano le orecchie per non udire, vivono ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione. Hanno in questa vita tutte le possibilità per imparare, per fare esperienza, per crescere, per coltivare la loro sensibilità, per prestare attenzione non soltanto al loro “Lazzaro”, alla loro anima, ma anche per soccorrere tutti i “Lazzaro” che soffrono accanto a loro. Hanno tutto, ma non fanno nulla! Altri profeti, altri miracoli per salvarsi? No: è la fede che ci indica il come, e la carità che lo mette in pratica! È credere in Dio, vivere alla sua presenza, credere e confidare nella sua bontà, nel suo Amore misericordioso, nella bontà e nella perfezione delle sue creature, nella bellezza del creato intero.
I miracoli li viviamo ogni giorno: esseri vivi, risvegliarsi al mattino, è già da solo un miracolo strepitoso che Dio compie ogni giorno per noi; i computer, i robots, le conquiste tecnologiche più estreme, fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della Vita. Ma questo pensiero neppure ci sfiora; siamo immersi in un continuo e meraviglioso miracolo che si chiama vita, che si chiama amore di Dio, e questo non ci impressiona, non ci stupisce, non ci commuove.
È proprio vero: chi non vuol credere, chi pensa di sapere tutto, chi vive orgogliosamente nella sua ostinazione, nel suo isolamento, non crederà mai, neppure se vedesse un morto alzarsi e camminare!
Noi su questa terra siamo esseri di luce e di ombra: siamo spiritualmente i poveri “Lazzaro” e materialmente i ricchi gaudenti; siamo cioè i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti, i prediletti di Dio, quelli che godono della Sua luce divina, ma siamo anche, e forse più, quelli che non guardano nessuno in faccia, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita non facendo nulla, i gaudenti di questo mondo, quelli insomma che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo. È vero, siamo divini ma anche terribilmente umani.
Il grande compito della nostra vita è pertanto portare luce dove c’è buio, dove c’è il diavolo, il male, perché egli ama il buio, l’oscurità, la notte, il sotterfugio, il nascondersi, l’anonimato.
Ma chi vuol scendere nel buio? Nessuno. Il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa terribilmente paura. Chi vuole proiettare un raggio di luce in certi inferni della vita? Nessuno, ovviamente; per quanto ci riguarda, il più delle volte preferiamo seguire la soluzione del ricco, la più semplice: chiudere gli occhi e far finta di nulla; negare cioè l’esistenza del male, dei malesseri interiori, delle sofferenze: non li vediamo, quindi non ci sono! Ma siamo degli illusi! Non abbiamo bisogno di altre profezie per saperlo! Quante volte abbiamo provato, noi personalmente, l’esperienza del buio, del nostro inferno: viviamo immersi nel niente; non abbiamo più riferimenti, il nostro spirito è smarrito, ci sentiamo perduti, il dramma della nostra anima che brancola nell’oscurità più totale, ci destabilizza. Ma se ad un tratto una persona pia riesce a far filtrare in queste nostre tenebre, in questo nulla, anche una piccolissima scintilla di Luce, ci accorgiamo immediatamente che il nostro inferno si attenua, diventa sopportabile, vivibile. Come mai? L’importanza della nostra missione! Perché noi, nonostante la nostra inadeguatezza, siamo figli della Luce, siamo figli del Dio che ha creato la luce; siamo figli destinati a vivere nella luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente ci aspetta per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen.


giovedì 15 settembre 2016

18 Settembre 2016 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare» (Lc 16,1-13).

La parabola di oggi, al primo impatto, potrebbe risultare quanto meno sconcertante, poiché Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro. Dopo le “parabole della misericordia” di domenica scorsa, siamo passati nel capitolo 16 del Vangelo di Luca, con la parabola del fattore infedele.
C’è un uomo ricco e, come tutti i ricchi, ha un amministratore dei suoi beni che è accusato di sperperare i suoi averi. Il padrone lo chiama e gli dice: “Rendimi conto della tua amministrazione, perché da adesso sei licenziato” (Lc 16,1-2). L’uomo, consapevole che il suo comportamento disonesto gli avrebbe procurato il licenziamento in tronco, cerca di risolvere al meglio questo problema imprevisto, ricorrendo astutamente ad uno stratagemma, in grado di creargli amicizie e connivenze importanti per il suo domani.
Ma osserviamo più da vicino i fatti: nella parabola l’amministratore non ammette le sue colpe, non si pente e non chiede scusa. Anzi, considerato che non ha più l’età per affrontare un nuovo lavoro manuale, decisamente più pesante, e che si vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, che fa? S’inventa una mossa in contropiede molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo padrone, ma questa volta a fini “pensionistici”, investendo per il futuro l’utile del suo malaffare . È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava allora, gli paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul totale delle entrate, ovviamente ad incasso avvenuto; allora convoca tutti i debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, e detrae da esso l’importo che egli riteneva destinato a lui. Insomma una truffa in piena regola, ma che per lui truffa non è: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò incassare più dal mio padrone, ma le investo ora che ho ancora l’autorità, per poterle riavere un giorno dai miei debitori, in termini di amicizia, di aiuto, di collaborazione. Sono certo che essi, a seguito della sostanziale riduzione dei loro debiti da me registrata, mi saranno sicuramente riconoscenti!”.
È chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver fatto sottoscrivere ai debitori delle “cambiali” con l’importo falsificato, è da furfante, non certo imputabile a motivazioni spirituali, teologiche o caritatevoli.
È in questa sua scaltrezza mefistofelica che sta infatti la sua “grandezza”: perso per perso, costretto a rinunciare di punto in bianco alla sua sicurezza economica, allo stipendio, al denaro contante, si crea, finché è ancora in tempo, un investimento per il futuro che, sebbene rischioso in termini di denaro e di ricchezza immediata, gli assicurerà comunque un ritorno di riconoscenza, di legami commerciali, di amicizie, di collaborazione negli affari, tutti elementi ottimali per poter ricominciare una nuova attività redditizia.
Dice il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8). Una conclusione che per noi è piuttosto difficile da concordare con l’esempio di vita e gli insegnamenti di Gesù. Ma qui Gesù non elogia la disonestà, la malafede, l’ingiustizia, i furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata è la sua furbizia, la sua intraprendenza, la sua intuizione, la sua prontezza di spirito. Doti per nulla negative, ma assolutamente condivisibili e consigliabili a chi si adopera nel fare il bene; doti raramente riscontrabili in chi lo vuol seguire. Tant’è che Gesù conclude la parabola, costatando un po’ amaramente: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Una constatazione che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato: suo malgrado, dopo tanto impegno da parte sua, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli delle tenebre, nei loro comportamenti negativi, sono più scaltri, più furbi, più “svegli” dei “suoi” figli, i figli della luce. Parole, le sue, che contengono un chiaro a pressante invito ai suoi di adottare nel bene una pari scaltrezza, di agire da insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta furbizia e inventiva.
Per avere tuttavia una visione più completa del messaggio di questa pagina del vangelo, dobbiamo tener conto anche di altre considerazioni più tecniche.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che ha molto a cuore il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi, con annessi e connessi. Egli infatti riporta sempre puntualmente gli interventi che Gesù fa a questo proposito: come per esempio nel capitolo 12, in cui parla della insensatezza di quell’uomo molto ricco che pensa solo ad aumentare le ricchezze fino all’inverosimile, rimandando continuamente nel tempo la possibilità di godersi la vita, senza capire che nessuno è padrone del tempo; per lui la ricchezza è garanzia di felicità, ma egli “muore” da subito, infelice, perché troppo attaccato ai soldi, perché fonda la sua vita soltanto sull’avere e non sull’essere.
Sempre lui, Luca, ritorna sul tema della ricchezza in questo capitolo 16, con il testo di oggi e con quello di domenica prossima, in cui leggeremo la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro.
Ora, il contrasto ricchezza-povertà era una questione sociale di grande attualità anche ai tempi di Gesù. Il termine di riferimento era il “Mammona”, cioè la ricchezza, che veniva comunemente distinta in ricchezza onesta e ricchezza disonesta. Ma per Gesù non c’è distinzione: la ricchezza è sempre, in ogni caso, “disonesta” (“adikia” in greco); per Lui l’arricchimento è sempre ingiusto, perché chi “accumula” solo per sé, inevitabilmente “sottrae” a qualcun altro: e questo si chiama “egoismo”.
Se però scendiamo un po’ più in profondità, vediamo che il termine “Mammona”, tradotto con “ricchezza”, in ebraico contiene la stessa radice di “amen”, un termine che conosciamo bene e che vuol dire “così sia”: un termine che introduce il significato di accettazione, di benestare, dell’augurarsi un qualcosa di sicuro, di certo; un termine insomma che dà sicurezza, su cui si può contare. E cosa c’è nella vita di veramente certo, cos’è che dà fiducia, che infonde sicurezza? Certamente, come abbiamo visto, non è il denaro, non l’accumulo di beni, non le ricchezze: pensare infatti che i beni materiali procurino felicità, è pura illusione. Allora, qual è la cosa che ci dà tranquillità, su cui possiamo contare, quella cosa che possiamo procurarci tramite il “mammona”, la ricchezza, vivendo cioè con la mentalità di questo mondo? Solo l’amicizia, la “filìa”. Ce lo dice chiaramente il testo: “mammona”, la ricchezza, che in sé è sempre “disonesta”, deve servirci solo per procurarci “degli amici” (fìlus), “procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Attenzione però: chi sono questi “amici” in grado di accoglierci nelle “dimore eterne”? Certamente nessun amico “fisico”, umano, materiale, può farlo. Solamente un amico “spirituale”, un amico sincero e fedele in qualunque frangente, un amico cui sta a cuore la salvezza della nostra anima: un amico che si chiama “la nostra fede”, “il nostro credo”; insomma, l’unico e vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne”, è Dio stesso.
In questo mondo possiamo dunque farci un solo “amico” che manterrà ogni sua promessa, un “amico” che ci salverà, che ci toglierà da ogni delusione: Dio.
Per noi cristiani la vera ricchezza è Dio, il vero “amico” è Lui, è la fede in Lui, l’abbandono in Lui: con Lui, la morte, il crollo di ogni nostra certezza materiale, non è più un dramma, ma sarà il mezzo per prendere il definitivo possesso della Vera Ricchezza, quella che non viene mai meno, quella che niente e nessuno potrà mai distruggere.
“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?” (Lc 16,10-12). Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una speciale nel molto. La fedeltà è unica.
Ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Come possiamo definirla? È una virtù, una dote, un “modus operandi” che ci proviene dalla fede; è la ferma convinzione che la nostra unica, autentica ricchezza, è Dio. Se siamo convinti di ciò, allora i beni terreni non contano, vivremo senza l’assillo continuo della loro crescita: useremo la ricchezza per quel che serve, in nessun caso vivremo per essa; anzi la condivideremo volentieri, senza alcun rammarico, perché non ne siamo schiavi.
Se non possediamo questa unica “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “disonesti” verso di Lui e verso i fratelli, nel poco come nel molto. Perché “nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona” (Lc 16,17).
In altre parole, solo servendo Dio possiamo vivere affrancati dalla schiavitù del denaro: lo usiamo, ma non ci attacchiamo ad esso, non è il nostro Dio, non rappresenta per noi la certezza, l’assoluto. Solo in questo modo Dio è il nostro Dio; solo così il nostro cuore diventa “generosità”, “servizio”, “agape”; solo così il nostro cuore sarà aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del prossimo, e solo così un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della Vita.
Dio, nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere scadenza, di essere imperdibile e irrinunciabile. Per questo vivere con Lui significa tranquillità, serenità, beatitudine, gioia vera, Vita!
Noi però, nostro malgrado, continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai beni terreni (soldi, buon nome, prestigio, carriera, riconoscimenti sociali, potere): siamo purtroppo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezze, che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque momento; per essi siamo spesso disponibili a vendere anche l’anima. Viviamo una non vita in continua tensione: abbiamo paura di perderli, questi beni; cerchiamo di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “Mammona” non è un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce solo a soffocarci con l’ansia e la paura, che ci rende la vita, di per sé meravigliosa, sterile, vuota, arida, invivibile. Amen.



giovedì 8 settembre 2016

11 Settembre 2016 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,1-32).

Quello di oggi è un “pezzo” classico del vangelo: una pagina che tutti conoscono, in cui tre parabole dette “della misericordia”, dominano la scena; parabole delle quali tutti, ma proprio tutti almeno una volta, ne abbiamo sentito parlare.
Il testo inizia dicendo che i pubblicani e i peccatori si avvicinano a Gesù per ascoltarlo. Uno pensa: “Beh, le autorità religiose saranno contente che Egli riesca ad attirare gli ultimi, i lontani, soprattutto i peccatori”. E invece no. I farisei e gli scribi, le autorità, “mormorano”; giudicano, cioè, e disprezzano il comportamento di Gesù. Come evidenzia il testo, Lo odiano così intensamente da evitare perfino di nominarlo: si riferiscono a lui chiamandolo: “Costui”.
Ebbene, è proprio “per loro” che Gesù dice queste parabole.
Sappiamo che i farisei e gli scribi erano la “crema” spirituale del popolo. Attraverso preghiere, sacrifici, offerte e una vita irreprensibile, seguendo cioè tutte le norme religiose, anche le più piccole, si ritenevano automaticamente santi e migliori degli altri, che consideravano “gentaglia”, peccatori: tutta gente, questi peccatori, che essi non solo non li avrebbero mai fatti entrare in chiesa, non solo non li avrebbero mai assolti, ma li avrebbero volentieri distrutti, fatti sparire dalla faccia della terra: ovviamente in nome di Dio!
D’altronde si rifacevano alle Scritture, alla loro religione, che in proposito erano abbastanza chiare: i peccatori vanno eliminati, sterminati, depennati (Cfr. Is 13,9; Sal 139,9).
Proprio per certi estremismi umani la religione spesso rischia di essere pericolosa: perché mentre Dio è disceso sulla terra per incontrare gli uomini, facendoci capire che possiamo incontrarlo sempre proprio qui, tra gli uomini, la religione al contrario per incontrare Dio, sale nell’alto dei cieli, allontanandosi dagli uomini, con il rischio di non incontrarlo mai. Saranno infatti proprio i “religiosi” che condanneranno a morte Gesù. Perché dove non c’è amore per il prossimo, per i fratelli sfortunati, sicuramente non c’è neppure Dio.
Tutta la vita di Gesù ce lo insegna: Egli infatti si intrattiene continuamente proprio con quella gente che, Bibbia alla mano, le autorità religiose avrebbero voluto solo eliminare. E questo per loro era una provocazione troppo grave, insostenibile: soprattutto per la loro mentalità, era impensabile il fatto che Gesù “mangiasse” con loro: nel mondo palestinese, infatti, il cibo era servito in un unico piatto dal quale tutti si servivano, per cui “mangiare insieme” significava condivisione, “comunione di vita”. Per loro, quindi, Gesù è un impuro perché ha condiviso il cibo, lo ha “toccato”, con persone impure (l’impurità si trasmetteva); e Dio non si concede agli impuri; Dio si dà solo ai puri, ai santi. Una mentalità discriminante che è arrivata fino a noi: “Tu sei puro? Sì? Allora puoi andare in chiesa, puoi avvicinarti a Dio, ecc.”. “Tu non sei puro? No? Allora non puoi avvicinarti a Dio. Sei una persona condannata, destinata all’inferno per i tuoi peccati: Dio ti respinge, non sa che farsene di uno come te.
Solo però che il Dio del Vangelo, il Dio di Gesù, è l’esatto contrario. Nel Vangelo è proprio Gesù che va dagli ultimi, dai peccatori, dai disgraziati. Ed è ovvio: Gesù va da chi ne ha più bisogno, non fa distinzioni tra buoni e cattivi, va da tutti, a condizione che siano disponibili ad accoglierlo.
Pertanto, se la “religione” dice: “Dio ce l’hai, se te lo meriti. Se sei bravo, se sei puro, se righi dritto, perché solo così Dio è con te”, il Vangelo dice un’altra cosa, esattamente il contrario: “Non devi essere puro per avere Dio. È il suo amore, la sua accoglienza che ti rende puro. Dio è sempre con te, puro o no che tu sia... accoglilo, lasciati amare, accetta il suo amore”.
È dunque proprio per far capire questa novità, a quei tempi impensabile, che Gesù racconta le tre parabole famose: della pecora perduta, della dramma perduta, del figlio perduto; in esse Egli chiarisce di essere venuto in questa terra per cercare proprio chi si è perduto. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che sono amati da Lui. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che Dio è un dono assolutamente gratuito di amore, di misericordia.
Mi soffermo in particolare sulla parabola del “figliol prodigo”.
Ebbene: quel Padre che fa festa quando il figlio torna a casa, è Dio. Il fratello maggiore, invidioso, asservito al Padre, rappresenta gli scribi e i farisei, “servi” di Dio, ma non “figli” di Dio. Al padre essi diranno: “Ecco, da tanti anni io ti “servo” (in greco dulèuo, sono schiavo) e tu non mi hai mai dato un capretto...”. Ma i capretti, per tutti quegli anni, erano già tutti a loro disposizione!
La religione senza l’amore, crea solo persone giudicanti, invidiose di chi ha di più, di chi riesce meglio, di chi è felice. La religione senza l’amore non sa sorridere, non sa far festa, perché è corrosa dalla rabbia che cova dentro di sé.
La parabola però è anche una stupenda fotografia di uno spaccato famigliare, di come cioè si svolgano in realtà le relazioni tra i componenti di una famiglia.
La parabola parla di “un padre con due figli”. E la madre? La madre talvolta non c’è, o se c’è, è come se non ci fosse. Sono le madri aspirapolvere, le madri lavastoviglie, le madri che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto il giorno, che, dicono loro, “sacrificano la loro vita per i figli”, ma che in realtà non ci sono, non dimostrano il loro amore, sono come assenti. Fare tanto per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo “fare tanto”. Amare è al contrario valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, rendere autonomi i figli, aver fiducia in loro, non essere ansiosi; amare è avere qualcosa da dare al figlio; amare non è fare un figlio per ricevere qualcosa in cambio, perché qualcuno ci ami!
Da un’indagine risulta che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa (76%), più delle mamme tedesche (56%) o di quelle svedesi (40%). La mamma italiana soffre di “figliolite”: crede, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di lei. Sorge il dubbio che sia lei ad aver bisogno di lui.
I due figli della parabola sono dunque diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Sono nati entrambi dallo stesso padre, che non è riuscito a trasmettere loro l’amore; un padre che entrambi considerano un “ostacolo”, un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.
Il primo, il minore, dice al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ma non gli spetta niente! Egli cerca solo di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l’amore del padre. Anzi va contro di lui. L’eredità si otteneva solo dopo la morte del padre: dicendogli così, in pratica gli dice: “Tu sei già morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!”.
Il maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. Egli si percepisce come un servo del padre, come uno schiavo: non fa altro che ubbidire ai suoi ordini, ma dentro cova rabbia.
La loro diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre. Il maggiore si sottomette: è il suo dovere. Rinuncia alla sua vita perché “deve” rispetto e obbedienza al proprio padre. Ma una persona che “fa tutto quello che deve”, una persona brava, che non si ribella, che non trasgredisce mai, è sicuramente molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere l’amore mediante una ubbidienza meticolosa, con una vita di precisione; cerca cioè di ottenere comunque, ciò che sente di non poter avere altrimenti (ma l’amore è gratuito!). La sua strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, per ottenere in cambio il tuo amore”. I genitori: “Ti amo se vai bene a scuola”: e il bambino si sottomette per avere l’approvazione del genitore. “Ti amo se non disturbi”: e il bambino si sottomette e diventa adulto per avere l’approvazione. “Ti amo se fai così”: e il bambino si sottomette per avere l’amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come si sentirà dentro? Ovviamente come il maggiore: pieno di rabbia.
Il minore, invece, non sentendosi accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi rifiuti? Ti rifiuto anch’io!”. D’altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi la stima del padre, facendo il figlio bravo e ubbidiente. A lui non rimaneva altro che differenziarsi dal fratello. Se in casa c’è già chi fa il bravo, all’altro non rimane che fare il contrario. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro dovrà per forza farne un’altra! D’altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, efficiente fuori casa: è infatti ciò che fa il figlio minore: se ne va in giro per il mondo.
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera, e sono diversissimi tra loro. Ma guai se i figli fossero uguali! Ogni figlio esige una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli, perché essi hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose per tutti.
I due fratelli della parabola infatti non si incontrano mai! Il maggiore non lo chiama mai “fratello”, ma si rivolgerà al padre dicendogli: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia? Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene con te; perché tratti mio fratello esattamente come me?”.
“Con le prostitute”: un particolare che non risulta dal racconto. Che sia vero o no, non è forse un tentativo del maggiore di screditare il minore, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo? Non sappiamo infatti se egli sia andato con le prostitute. Forse non ci ha mai pensato, ma il maggiore sì. Il cervello non conosce altri che noi, e quindi quando parliamo degli altri, parliamo sempre di noi!
Cosa c’è dunque in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre. A quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli andavano i due terzi dell’eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il maggiore vinceva, il minore perdeva. Era così.
Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per non morire di fame.
Ma il padre dov’era? Come ha fatto a non vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai nulla”? Inoltre: non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Non si era mai accorto che voleva un “capretto”, un riconoscimento, un gesto d’approvazione, d’affetto, solo per sé? E quando il minore se ne va perché in padre non lo interpella,visto che era parte in causa?
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Ma guarda cos’è successo!?”. Per forza, erano ciechi!
È chiaro che il padre non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosce il suo di cuore, non può certo conoscere il cuore degli altri, di suo figlio!
L’unica cosa che sa fare è “dare” comunque, a ciascuno, le “cose” che gli spettano: al minore come al maggiore. Ma quando un genitore dà le proprie cose al figlio, vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozioni, vitalità, niente di sé da passargli. È il fallimento dell’educazione.
Molti genitori riempiono i loro figli di cose, di giocattoli, di vacanze, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): ma tutto questo non può sostituire la cosa più importante, l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore, di un rapporto concreto con lui, ha bisogno delle sue parole, di momenti esclusivi con lui, di abbracci. Un figlio contemporaneamente ha bisogno della madre, del suo amore, di un rapporto con lei, fatto di parole, di carezze, di sentimenti. L’uno non sostituisce l’altra. In nessun caso. Inutile cercare oggi di dimostrare il contrario! È un’assurdità!
I genitori a volte dicono spazientiti: “Hai tutto!”. È vero, perché danno tutto di materiale; ma non trasmettono nulla di spirituale, nulla dell’anima, nessun sentimento, nessuna emozione intima. Non c’è colloquio, non c’è scambio di emozioni.
La parabola del figliol prodigo, sotto questo profilo, è infatti la parabola del “non detto”, della non comunicazione; in essa nessuno parla: per metà racconto nessuno dice niente, nessuno si rivolge a qualcun altro, eccetto la frase iniziale del minore. E cosa dice? Di che cosa parla? Del suo errore, di ciò che ha capito, del suo pentimento, della sua fame d’amore. Il padre parla quando vede il figlio e si commuove. E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante. Il maggiore infine parla della sua rabbia, del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello.
I personaggi iniziano ciascuno un proprio viaggio da infelici, chiusi ermeticamente in loro stessi: cambiano improvvisamente quando si parlano, quando comunicano tra loro, aprendosi.
È il quadro di tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”. E, invece, ci sono un sacco di cose che non vanno, parole che non vengono dette, che rimangono dentro; un sacco di emozioni che non sono espresse, che sono rinchiuse dentro, ignorate, accantonate. Di problemi in famiglia ce ne sono sempre in abbondanza, ma non se ne parla apertamente, ognuno fa finta di niente. Per la tranquillità di tutti, “per il bene dei figli” è sempre meglio non parlarne, è meglio fingere che tutto vada bene!
Quando poi i problemi esplodono, tutti cadono dalle nuvole: “Cos’è successo? Come mai? Chi l’avrebbe mai pensato?”.
I problemi vanno invece affrontati sempre: con carità, lealtà, onestà! Quand’è che la parabola ha una svolta? Quand’è che cambia? Quand’è che in quella famiglia torna la normalità, la serenità, una nuova vita? Quando i personaggi iniziano a parlarsi. Quando l’amore prende il sopravvento.
Così vale per noi. Se stiamo male come il minore, parliamone del nostro male. Non facciamo finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori, discutiamo di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona profondamente ferita. Se siamo felici, emozionati, pieni di vitalità come il padre, esprimiamoli questi sentimenti. Perché il minore e il padre, aprendosi, “guariscono”. Il maggiore, nel racconto, non lo è ancora, ma si capisce che ha iniziato un suo nuovo percorso di vita!
Apriamoci, dunque: comunichiamo, parliamo di ciò che abbiamo dentro; perché se non ci apriamo, se non comunichiamo, moriamo dentro. È inevitabile. Inoltre, se non ci apriamo, nessuno potrà mai conoscerci, nessuno potrà mai ammirare la nostra bellezza interiore. Amen.


venerdì 2 settembre 2016

4 Settembre 2016 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-33).

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù prosegue il suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste di ciò che dice e di ciò che fa. Lo vogliono seguire per questo, solo che non sanno bene cosa voglia dire “seguire” Gesù.
Essere infatti entusiasti di Gesù e seguirlo, sono due cose molto, ma molto, diverse tra loro. Un conto è ammirarlo, un altro è seguirlo: perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa dover tirare conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione solenne, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno, scambiato tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, risoluto, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua ormai imminente morte in croce, la sua apoteosi d’amore. Vi sono poi quelli che lo seguono: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza, iniziano a mugugnare, a brontolare, hanno insomma di che lagnarsi della situazione. Seguirlo non è cosa facile: “È troppo impegnativo! Pretende troppo da noi! È impossibile stargli dietro!”. Un borbottio che progressivamente cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quelli che lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti che iniziamo con entusiasmo un certo percorso, salvo poi ad abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile!”. Sissignori! È vero: nella vita tutto è difficile, prima che, mettendoci impegno, diventi facile! Dobbiamo però capire che se ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere” contro ogni difficoltà, perdiamo tutto, ci troviamo senza più nulla in mano, anche quel poco che avevamo conquistato, senza poter più raggiungere alcun obiettivo. Diventiamo come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono serio e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Ora, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI), non potremmo assolutamente attribuirla a Gesù. Ma dice proprio che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma ha usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato,“miseo”, in greco significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, a scanso di equivoci, va detto prima di tutto che, in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare” qualcuno, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro. Anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci hanno donato, poiché nulla, vita compresa, ci era dovuto! Gesù qui si riferisce non ad un “sentimento”, ma ad un “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere, che ci renda veramente “liberi”. Per dirlo, ha usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per farci capire quanto sia importante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, essere completamente “libero”. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Egli usa il verbo “odiare”, un verbo di “contrasto, per dirci chiaramente che in certi momenti non possiamo scendere a patti, a compromessi: dobbiamo rifiutare qualunque soluzione alternativa, e dobbiamo farlo in modo radicale, deciso, risoluto.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che si presta ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stauros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fero” o “dechomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambano”, “prendere” volontariamente, o “bastazo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi vuol vivere da uomo “libero”, e quindi disponibile ad accettare tutte le conseguenze della sua scelta.
Pertanto, “portare la croce” non significa subire forzatamente, da rassegnati, tutto ciò che di brutto ci offre la vita; ma è accettare volontariamente, gioiosamente e liberamente, come conseguenza della nostra adesione a Cristo, la progressiva distruzione, da parte del mondo, della nostra considerazione e di noi stessi: “Sarete odiati da tutti a causa mia!” (Lc 21,17).
La croce altro non è quindi che accettare le conseguenze, naturalmente riservate a quanti vogliono vivere, già su questa terra, il “Regno di Dio”: in altre parole, vuol dire fare come ha fatto Gesù, comportarsi “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del vivere comune: quindi condivisione e non accumulo, uguaglianza e non prestigio, servizio e non dominio. Solo se siamo veramente liberi possiamo amare Dio e il prossimo, metterci a servizio degli altri, rinunciando alla nostra reputazione, disinteressandoci completamente di ciò che gli altri dicono e pensano di noi. Ovviamente, perdere la stima degli altri non significa perdere la nostra dignità: spesso infatti proprio per non perdere la nostra dignità, dobbiamo rinunciare alla stima degli altri!
Possiamo dire, insomma, che “portare la propria croce” significa “vivere come ha vissuto Gesù”: liberi, felici, in pace con il Padre e con noi stessi, pronti a superare serenamente e con coraggio tutte le prove che il mondo, le forze del male, continueranno a seminare sul nostro cammino. Amen.



venerdì 26 agosto 2016

28 Agosto 2016 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato»

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben accolto, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia fermare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre a tutti qualcosa di nuovo: in particolare a loro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a loro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli.
L’andare a “pranzo” da loro, infatti, proprio secondo il duplice significato che Luca attribuisce a tale parola, significa per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali un suo cibo, un suo nutrimento spirituale, ben più importante: i suoi insegnamenti, la sua Parola
Qui siamo di sabato: è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto: di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, si teneva un “pranzo” tra i partecipanti, al quale era invitato il rabbì o il predicatore di turno. Del resto trattandosi qui della casa di un capo dei farisei è chiaro che, oltre alla gente comune, ci dovevano essere anche delle persone importanti; da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù racconta la parabola: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Gesù osserva la scena, e vede la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Un po’ quello che succede anche da noi. Ora, Gesù non è indignato tanto dal fatto in sé; questo lo dà per scontato. Quello che lo indigna è la molla che fa scattare tale corsa, è il comportamento, il “come” avviene: Egli cioè constata che le persone, pur di avere il primo posto, sono pronte a tutto, a qualunque compromesso, a qualunque “spinta”, a qualunque sopraffazione. Questa è la cosa grave: che cioè si possa perdere qualunque scrupolo pur di primeggiare.
Gesù non fa qui un discorso di buone maniere, di galateo, ma su quali valori deve poggiare l’esistenza umana, quali devono essere i valori fondamentali, quelli che non dobbiamo mai dimenticare nella nostra vita.
Il desiderio del primo posto è un desiderio naturale, comune a tutti gli uomini. Tutti desiderano essere i primi, essere più degli altri: più bravi, più famosi, più importanti, ecc. Non è questo che Gesù contesta. Egli vuol porre invece un principio fondamentale: non è importante quello per cui tu conti davanti agli uomini - sappiamo che tutto è apparenza - ma quello per cui tu conti davanti a Dio; cioè quello che è importante, quello che è essenziale, è come tu ti poni davanti a Lui, se cioè ti comporti veramente come una persona “libera”. E, come corollario, vuol farci riflettere su alcune conseguenze negative, derivanti dal nostro voler essere i primi ad ogni costo. Sembra infatti dirci: “Non ti accorgi che con questo tuo desiderio di passare davanti a tutti, per questa tua smania di autopromuoverti ad ogni costo, finisci col calpestare il valore degli altri? Come mai per te contano soltanto quelli che occupano i primi posti? Perché consideri insignificanti, uno scarto, delle nullità, quelli che stanno nei posti più lontani, dopo di te?”
E continua: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui, venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare allora ad occupare l’ultimo posto” (Lc 14,8-10).
È chiaro che Gesù, con questa parabola, si riferisce in particolare ai comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: il motivo scatenante? Primeggiare, apparire, essere più degli altri. Con quali risultati? Promuovevano decisamente una società classista, dove c’erano i primi, quelli importanti, e poi tutti gli altri, gli esclusi, gli ultimi, quelli che socialmente non contavano nulla e che quindi potevano anche morire di fame; tanto, chi se ne accorgeva?
Era ovviamente una cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Questo in teoria; perché in pratica anche oggi, nel XXI secolo, vige la netta distinzione tra quelli “che contano” e quelli che “non contano nulla”. È la legge senza età del più forte, di quello che vuole stare sempre al primo posto, relegando inevitabilmente gli altri ad un livello inferiore, ad essere considerarli “meno” degli altri. In pratica quindi siamo noi, i convinti membri di una società paritaria, che dividiamo la popolazione in quelli che valgono, che hanno diritti, che possono, che hanno tutto, e in quelli che non valgono, che hanno solo doveri, che possono tranquillamente essere umiliati, ghettizzati; siamo noi che, così facendo, creiamo tra le persone ingiustizie, divisioni, oppressioni, sofferenze, odio classista.
Cosa propone Gesù? Una cosa molto semplice: scegliere di non mettersi al posto d’onore, ma in un posto qualunque. È chiaro, come ho detto, che Gesù non ne fa qui una questione di etichetta, di galateo. Il suo discorso è molto più sottile e profondo: Egli in sostanza propone qui semplicemente un comportamento privo di ostentazione, di superbia, di autopromozione. Egli infatti non intende condannare il riconoscimento degli onori, del prestigio, dell’importanza di una persona. Tanto è vero che aggiunge subito: “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
Egli intende condannare, peraltro, anche quella “modestia” affettata con cui uno volutamente si mette all’ultimo posto, una modestia un po’ pelosa, di dubbia origine, tipica di molte persone, che in realtà non è altro che la “maschera” della superbia: vorrei essere più di te ma non posso, non ci riesco, per cui assumo un tono dimesso, modesto, come se la cosa non mi interessasse. È l’atteggiamento tipico di quelle persone che fingono, loro malgrado, di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, di essere umili, di considerarsi “gli ultimi”.
Mettersi all’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non è scritto da nessuna parte nel vangelo, Gesù non l’ha mai detto! Mettersi all’ultimo posto non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, ma al contrario darsi da fare, cercare di creare una società nuova, in cui non ci siano più “ultimi”.
La differenza è minima ma sostanziale: ci mettiamo all’ultimo posto non perché ci sentiamo ultimi, ma perché non ci sentiamo “più” degli altri. In altre parole ci mettiamo all’ultimo posto perché siamo convinti che tutte le persone, tutti i presenti, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. Una società fraterna, d’amore, può sussistere solo se tutti si considerano e sono considerati uguali.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Cosa vuol dire questa frase che sembra un gioco di parole? Ci sono due azioni e due effetti: se facciamo così avremo questo, se facciamo colà avremo quello. Se ci innalziamo (gloria, primi posti, essere più degli altri, prestigio a tutti i costi) saremo umiliati. Cos’è che viene umiliato? La nostra umanità: cioè non cresceremo mai come persone, come uomini e donne; non cresceremo interiormente, nel nostro “essere”, ma cresceremo soltanto esteriormente, nel nostro “apparire”.
Se al contrario ci umiliamo, cioè se consideriamo tutti importanti come noi, allora la nostra umanità crescerà, perché a ciascuno riconosceremo la sua diversità di essere: uno più intelligente, un altro più simpatico, un altro ancora più ricco di doti, più sensibile, più sociale, più introspettivo, ecc. Siamo tutti diversi ma tutti uguali. E quando accetteremo che tutti gli uomini, nella loro diversità, sono tutti ugualmente uomini come noi, allora la nostra umanità crescerà. Altrimenti si avvera il detto di Orwell: “Tutti gli uomini sono uguali ma alcuni sono più uguali di altri”.
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”“ (Lc 14,12-14).
Qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non inviteremo certamente chiunque incontriamo per strada. Non è questo che Gesù vuol dire. E noi inviteremo soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli.
A Gesù preme farci capire un principio fondamentale; cioè: “Quali sono i criteri di scelta, quali i valori che vi guidano nel selezionare i vostri ospiti?”. Perché è chiaro che molte persone impostano i loro rapporti nel famoso “do ut des, io ti do se tu mi dai”.
E questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali: le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrire in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo cioè creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, sulla base di ciò che possiamo ottenere in cambio.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce dall’amore, dalla gratuità. Fare qualcosa per interesse non produce gioia, soddisfazione, libertà, ma solo il calcolo, l’ansia, l’attesa di un riconoscimento, di un ricambio materiale, di uno sterile scambio di favori. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: per cui, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati, gioiosi, felici, sappiamo già come comportarci. Amen.


giovedì 18 agosto 2016

21 Agosto 2016 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici! Ma egli vi risponderà: Non so di dove siete». (Lc 13,22-30).

Nel vangelo di oggi un tale pone a Gesù una questione apparentemente innocua, ma al contrario di grande valenza, che è stata, e continuerà ad esserlo, motivo di dotte disquisizioni teologiche da parte dei maggiori pensatori di ogni tempo: “Cosa ci sarà nell’aldilà dopo la morte? Ci sarà una sopravvivenza in condizione di salvezza, di premio, di beatitudine? Se sì, io ne farò parte?”.
Inutile negarlo: tutti abbiamo paura di perderci, di finire nel nulla; tutti abbiamo paura del niente, del vuoto, del buio, della morte, della sofferenza. Il fatto stesso di aver cercato a lungo una risposta rassicurante a tale interrogativo, la dice lunga sulle insicurezze, sulle inquietudini, sulle preoccupazioni esistenziali dell’animo umano.
A quel tale Gesù risponde alludendo ad una simbolica “porta”, molto “stretta”, attraverso cui si può passare solo con grande “sforzo”; porta che peraltro tutti devono “affrettarsi” di oltrepassare per entrare nella casa del padrone, prima che egli la chiuda e sia troppo tardi.
Il verbo “sforzarsi”, in greco, è “agonizo” e significa lottare, gareggiare, combattere. “Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare. “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
“Sforzarsi”, allora, vuol dire “combattere”, “lottare”, “difendere” ad ogni costo i propri ideali. Una porta stretta indica chiaramente delle difficoltà da superare: e cosa dobbiamo fare di fronte alle difficoltà, ai problemi, alle questioni, alle strade senza apparente via d’uscita? Dobbiamo appunto lottare, impegnare tutte le nostre forze, perseverare, non arrendersi mai, non mollare la presa al primo fallimento. “Perseverare” vuol dire insistere con ostinazione su di una cosa, aspettare pazientemente il risultato dei nostri tentativi senza mai demordere, senza mai abbandonare i nostri propositi. Dobbiamo essere costanti, fermi, saldi di fronte ad ogni contrarietà: e per questo ci vuole disciplina, serietà, applicazione: è quanto richiede la “porta stretta” del Vangelo.
Nella vita raggiungere tutto ciò che conta, che ha valore, che è molto importante, implica da parte nostra una lotta. Non è pensabile cioè di poterlo ottenere magicamente, in un istante, al primo tentativo; ma dobbiamo perseverare, dobbiamo metterci tutte le forze, tutta l’attenzione, tutto l’amore, dobbiamo provare e riprovare; anche se non riusciamo in una, due, cento volte, non dobbiamo comunque rinunciare a lottare.
Purtroppo, la società moderna avalla un’immagine distorta della realtà: lo slogan è “Tutto e subito”: con il telefono in un attimo comunichiamo con l’Australia; con il microonde in un attimo riscaldiamo i cibi; con la televisione in un attimo vediamo in tempo reale ciò che succede nel mondo. E così ci siamo convinti che tutto possa essere raggiunto in un istante. Ma non è così.
Per combattere le nostre paure, le nostre reazioni, eccessive e incontrollate, quando qualcuno ci fa delle osservazioni; per evitare di offenderci, ammutolendo immediatamente, quando qualcuno ci rimprovera; per rimediare alla nostra eccessiva timidezza e insicurezza, ai nostri attacchi di panico, per sconfiggere le nostre manie, pensare di poterlo fare “tutto e subito”, è assolutamente fuorviante. Dobbiamo al contrario lavorare a lungo, sforzarci: dobbiamo lottare, desiderare di capire, di conoscere; dobbiamo entrare dentro il problema, sviscerarlo, scavare dentro di noi, cercare: è una vera e propria battaglia! Fare altrimenti significa disinteressarsi dell’obiettivo, dimostrare che non ci teniamo; se molliamo al primo tentativo, vuol dire che la cosa non ci interessa, che ci va bene così come siamo.
Perché la nostra fede sia forte, convinta, profonda, ben radicata come una quercia, dobbiamo lottare. Così, se andiamo a messa solo quando ci fa comodo, o quando non abbiamo null’altro da fare, dimostriamo la superficialità della nostra fede, su cui potremo costruire ben poco: la nostra fede vissuta, richiede invece che lottiamo contro la nostra svogliatezza, contro l’afa e il solleone delle domeniche estive, o contro il gelo, le nevicate, le piogge di quelle invernali; che lottiamo contro la comitiva di amici che di domenica ci vuole al mare o in montagna; che lottiamo contro il marito o la moglie che non vuole saperne, contro i figli che brontolano e che ci chiamano “bigotti”, contro i sorrisetti compassionevoli di tanta gente.
È una lotta, è vero: ma chi ha mai detto che il percorso della fede sia facile?
È così anche nelle piccole cose di ogni giorno; in “un attimo”, senza fatica, non possiamo ottenere proprio nulla: se, per esempio, vogliamo smettere di fumare, se vogliamo smettere di essere negativi, di essere sempre pessimisti, sistematicamente disfattisti, su tutto e con tutti, dobbiamo lottare, dobbiamo impegnarci con tutte le forze per ovviare a queste nostre deficienze. E dobbiamo farlo perché vogliamo essere liberi, perché vogliamo essere noi gli unici padroni della nostra vita.
Così di fronte alla paura di parlare in pubblico, di non essere all’altezza, di venire derisi, di far ridere gli altri; di fronte al nostro complesso di inferiorità, al timore di non essere interessanti, di essere brutti, di non risultare graditi, dobbiamo lottare, dobbiamo provare e riprovare, non dobbiamo cedere di fronte al primo insuccesso; soprattutto non dobbiamo dare ascolto a quella vocina interna che ci dice “Sei così, non puoi farci niente”. No, sforziamoci, proviamoci ancora e poi ancora! Lo vogliamo o non lo vogliamo?
Poi nel vangelo c’è quella frase tremenda: “Non ti conosco!”.
È come andare dal proprio padre, dalla propria madre, dalle persone che ci hanno messo al mondo, che ci hanno cresciuto con tanto amore e sentirsi dire: “Non ti conosco, non so chi sei”. È terribile! Eppure questa frase ha un senso profondo: non è Dio che ci condanna, che ci rifiuta: Egli ci ha creati, ciascuno con una sua esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi, strada facendo, ci mascheriamo, se le sovrapponiamo tutta una serie di maschere: quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza a tutti, convinto di potersi permettere qualsiasi sopruso. Se insomma preferiamo deformare le nostre sembianze originali, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano, è naturale che Dio, quando ci presenteremo a Lui, ci dica: “Non ti conosco. Non ho mai creato un tipo come te; chi sei? Non posso farti entrare in casa mia perché non ti ricordo come mio amico: fatti prima riconoscere!”. E se di fronte alle nostre proteste: “Ma come fai a non conoscermi! Sono stato presidente di società internazionali, rinomato professore universitario, celebre inventore di robotica; sono stato un grande industriale, un professionista molto famoso, ricco, importante, ammirato e osannato da tutti; sono stato un papà decisamente in gamba, una mamma tutta casa e famiglia; un prete zelante, un pio frate, una suora virtuosa…”, Lui insisterà nel dire “Non ti conosco”, allora finalmente capiremo tutta la tragicità della sua risposta: e tutta la nostra tracotanza, la nostra presunzione crollerà, perché in quell’istante ci apparirà chiaro come tutto ciò che abbiamo costruito e conquistato, tutti i riconoscimenti di questo mondo, le nostre medaglie, i nostri titoli, non servano assolutamente a nulla, non siano in grado di salvarci, non ci assicurino per niente l’apertura di quella “porta” tanto importante.
“Chi sei?”. Solo se risponderemo presentandoci con il nostro nome di battesimo: “Sono Mario, Marco, Giovanna, Antonietta…”, la porta si aprirà: perché Dio non ha creato dei bravi padri, degli scienziati, dei politici, dei solerti funzionari, dei religiosi impegnati. Dio ha creato delle “persone”: e Dio riconosce solo ciò che ha creato. Se Lui non ci riconoscerà, vuol dire che noi, e solo noi, abbiamo deciso di presentarci “diversi” da come Lui ci ha creati.
A questo punto tutte le nostre giustificazioni non serviranno: “Ma Signore noi siamo battezzati; siamo andati in chiesa tutte le domeniche; non abbiamo fatto nulla di male; non ti abbiamo mai rifiutato; siamo stati cristiani fin da piccoli, come lo erano nostra madre, nostro padre, nostro nonno…”. “Non vi conosco: allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia”. Che tradotto per noi significa: “non è la vostra fede di facciata, la vostra fede superficiale, vissuta solo per essere ammirati, per esibizione, che vi garantisce l’ingresso nel Regno”. Cioè, non facciamoci illusioni, perché non sono le nostre frequenti preghiere, le nostre elemosine, non è perché ci comportiamo come tutti gli altri, che saremo ritenuti giusti.
In cielo queste cose non hanno valore. È sulla terra che il prestigio del nome, la notorietà, l’alto ceto sociale, aprono tutte le porte; è sulla terra che grazie alla fama otteniamo favori: qualche referenza giusta, il nome del tal dei tali, e le porte magicamente si aprono. Ma in cielo tutte le nostre medaglie onorifiche non serviranno perché Dio, che ci ha creati nudi, ci accoglierà soltanto se saremo tali: nudi non tanto fisicamente, ma nudi perché spogliati di tutto ciò che in vita abbiamo esibito come “meriti personali”.
Inutile a quel punto recriminare o appellarci alla misericordia divina: perché fino a quando pretenderemo di entrare così travestiti, Dio continuerà a ignorarci, a lasciarci fuori. E allora finalmente capiremo la sua scala di valori, ben diversa dalla nostra: vedremo cioè entrare come elette proprio quelle persone che noi qui sulla terra, arrogantemente, ritenevamo delle nullità; quelle invece che noi ammiravamo per la loro importanza, per il loro prestigio, per la loro liberalità, per la loro religiosità, avranno l’ingresso vietato e rimarranno bloccate fuori.
Gesù qui ovviamente non vuole seminare paura, non vuole incutere alcun terrore: ci offre semplicemente un’anticipazione di ciò che ci accadrà se continuiamo a vivere di testa nostra, lontani da Dio.
Tutta la nostra esistenza è infatti contrassegnata dalla legge di “causa-effetto”: vale a dire che alla fine raccoglieremo solo quello che abbiamo seminato; la vita è come un boomerang, tutto ciò che facciamo, ci ritorna indietro. In altre parole tutto ciò che di bene o di male noi compiamo in questa vita, produce delle conseguenze, degli effetti su di noi e sugli altri, utili o dannosi per l’altra vita. Ecco perché dobbiamo essere sempre vigili, attenti, responsabili.
La porta d’ingresso è stretta: se pensiamo di passare nonostante la nostra tracotante obesità, dovuta alle progressive stratificazioni di infedeltà, di menefreghismo, di falsità, ci sbagliamo di grosso: perché ovviamente saremo impossibilitati a superare la strettoia, e la porta ci verrà chiusa in faccia.
Possiamo tranquillamente continuare a vivere come meglio ci piace, stare lontani da noi stessi, dalla nostra coscienza, dal non porci mai certe domande più intime e profonde; possiamo continuare spensieratamente a non andare a messa, a non frequentare la parrocchia, a ignorare ogni iniziativa di spiritualità, di ascolto e di meditazione della Parola di Dio: ma poi non lamentiamoci se in casa nostra non c’è armonia, non c’è amore, non c’è serenità, se soffriamo perché vittime dell’egoismo altrui. Non è la vita che provoca disgusto, che è invivibile, ma è come noi la viviamo: del resto ognuno raccoglie ciò che semina, e un giorno, vicino o lontano che sia, non potremo certamente ignorare il problema della famosa “porta”.
Da qui la necessità di esercitarci nelle difficoltà, di abituarci durante questo cammino terreno, a passare e a ripassare attraverso quelle strettoie, quei “varchi” difficili, duri, stretti, che la vita inevitabilmente ci riserva. Così, per esempio, quando tra marito e moglie non c’è più armonia, e ogni occasione è buona per inveire e offendersi reciprocamente, dobbiamo affrontare umilmente la situazione dalle radici, riconoscere i propri errori e correre ai ripari: e questo ci costa, è la nostra “porta stretta”. Quando nostro figlio a scuola è una peste, iperattivo, incontenibile, aggressivo, oppure quando è sempre buio, cupo, arrabbiato, non ha amici, è chiaro che sta vivendo un disagio: una situazione che noi genitori difficilmente riconosciamo, in quanto mette in discussione la nostra validità di educatori; ma dobbiamo trovare una soluzione, dobbiamo anche questa volta affrontare la nostra “porta stretta. Insomma, quando viviamo con un problema da risolvere, quando abbiamo paura di affrontare la realtà, quando siamo tormentati dal rimorso per aver commesso un qualcosa che ci vergogniamo di confessare, quando qualcosa di “pesante” ostacola la nostra serenità, sono tutte situazioni che vanno affrontate e risolte, anche se ovviamente non ci piace: ma dobbiamo prendere in mano i nostri “serpenti”, dobbiamo passare necessariamente per di lì, sono altrettante “porte strette” che dobbiamo imparare a superare. Altrimenti verrà giorno in cui non saremo in grado di oltrepassare la famosa “porta stretta” del Vangelo, quella più importante, quella che ci assicurerà l’ingresso nel Regno. Amen.



giovedì 11 agosto 2016

14 Agosto 2016 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!» (Lc 12,49-53).

Gesù è venuto a portare “fuoco” agli uomini, su questa terra.
La sacralità ed essenzialità di questo elemento ci viene già attestata dall’antica mitologia greca che ci racconta come il titano Prometeo, dopo aver creato l’uomo su invito di Zeus, lo dotasse anche di qualità divine, come l’intelligenza e la memoria, che egli animò rubando a Zeus una scintilla del suo fuoco divino. Un gesto sacrilego che gli avrebbe procurato una tremenda punizione da parte di Zeus: incatenato sul monte Caucaso, un’aquila gli avrebbe divorato ogni giorno il fegato. Siamo nella mitologia, è vero: ma il mito di Prometeo, in tutte le sue variabili, ha perlomeno il pregio di sottolineare il valore del fuoco sacro per l’umanità, quanto esso sia indispensabile per la vita degli uomini di ogni tempo.
Il “fuoco” di Gesù ha sicuramente, rispetto a quello mitologico, un valore e una simbologia molto più ampia e profonda. Nel Vangelo e nella Bibbia, infatti, la parola “fuoco” assume di volta in volta significati diversi: è luce, simbolo della divinità, indica la presenza di Dio (vedi il roveto ardente di Mosè, la lampada del tabernacolo). Esprime calore, fraternità, focolare, protezione: significa intimità, famigliarità, amore divino. Fuoco è anche il fulmine che distrugge, che spezza, che disintegra; fuoco è la prova che trasforma, che brucia, che purifica: “passare per il fuoco” significa affrontare, superare una prova, un momento difficile, pericoloso; la cenere, residuo della fiamma che brucia, simboleggia il lutto, la rinuncia, la perdita di qualcosa, la morte (vedi il mercoledì delle ceneri). Il fuoco però è anche fiamma, energia di vita, vitalità che esplode, voglia irrefrenabile di vivere; la lingua di fuoco è lo Spirito, l’elemento vitale che ognuno ha dentro di sé: la sua luce è la luce della fede, della speranza; il suo calore è l’amore, la carità, che vive in noi; col suo bruciare ci procura la forza necessaria per sconfiggere i mostri maligni, i nostri fantasmi del male.
Il fuoco che Gesù ha portato nel mondo, come ci dice il vangelo di oggi, ha qui un suo significato particolare: è il fuoco della passione, della gioia, dell’amore, dell’entusiasmo, dello schierarsi dalla parte di Dio: è quell’ardere di “zelo” per il Signore, già sperimentato dal profeta Elia (cfr. 1Re 19,10).
Gesù stesso è l’immagine del fuoco; nessuno può avvicinarlo e rimanerne indifferente: o lo si ama o lo si odia. O lo si accoglie o lo si rifiuta. O si è con lui o contro di lui. Non ci sono alternative: o bruciamo noi, o bruciamo lui.
Se bruciamo noi, è perché ci siamo innamorati di Lui, ci siamo infervorati per la sua causa, ci siamo appassionati per il suo messaggio: succede insomma che dentro di noi esplode un desiderio, una forza, un ardore così struggente per lui, un incendio di tale potenza, che niente e nessuno potrà mai spegnere.
Ma può essere anche lui a bruciare, a venir fatto fuori: in tal caso siamo noi a volerlo uccidere, noi uomini da “nulla”, uomini inetti che non vogliamo accettarlo, amarlo veramente, seguirlo: perché uno come Gesù, per gente tiepida come noi, per gente che preferisce risparmiarsi, è troppo intenso, troppo forte, troppo pericoloso, troppo passionale, troppo esigente; in una parola troppo “infuocato, bollente”.
Chi l’avvicina deve necessariamente cambiare vita. È il nostro dilemma, il nostro dover fare costantemente delle scelte fondamentali: scegliere Lui significa decidere con passione di seguirlo, abbandonando qualunque altra soluzione. È la nostra risposta all’aut aut della vita: con Lui è sempre o bianco o nero, o caldo o freddo, o buono o cattivo: una sola è la nostra scelta; scegliere entrambe le soluzioni è impossibile!
Il fuoco di Gesù è “passione”. Passione, dal greco “pathos”, significa sentire. Passione allora vuol dire sentire le cose, sentire le persone, sentire la vita, sentire Dio: entrarvi dentro, toccarlo e lasciarsi toccare, farsi emozionare, farsi bruciare, farsi ricaricare. Il contrario è superficialità, anestesia, sonno, insensibilità; vuol dire una vita insipida, senza sapore, senza sussulti, senza passione. L’Apocalisse in proposito usa parole tremende: “Non sei né caldo né freddo per questo ti vomito” (Ap 3,16).
Troppo spesso, purtroppo, il nostro essere cristiani si riduce proprio a questa “tiepidezza”: per esempio, dov’è la “passione” in quelli che, come noi, vanno in chiesa tutte le domeniche e tornano a casa tranquilli come se nulla fosse stato, senza emozioni, indifferenti a quanto hanno visto, fatto e sentito, e dicono soddisfatti in cuor loro: “Anche questa è fatta”? È solo un obbligo, un “dovere”, nessuna passione: anzi in questo modo dimostriamo di non conoscere Gesù, dimostriamo di non avere neppure la più pallida idea di chi Egli sia. Ci siamo costruiti un nostro Gesù, un Gesù addomesticato, che non ci deve dare troppi fastidi, che non ci deve “rompere” eccessivamente, che deve essere accomodante, che deve stare da parte, pronto però a correre in nostro aiuto nel momento del bisogno. Ma questo non è Gesù. Gesù è lotta, è partecipazione, è passione, è “divisione”. Seguirlo significa “viverlo dentro”. Un po’ come succede al vero innamorato: egli vive la “sua” donna, la difende, combatte per lei, la ammira, raggiunge e conquista i suoi pensieri, entra nella sua anima, aprendole completamente la propria. Le trasmette tutto il suo entusiasmo, la sua passione, il suo fuoco interiore, i suoi programmi, tutte le vibrazioni più intime del suo cuore. Quando sta con lei, sta solo ed esclusivamente con lei: niente e nessuno riuscirà mai a distoglierlo.
Questo è il fuoco che dovrebbe bruciare la nostra anima, questa è la passione che dovrebbe incendiare il nostro cuore. Questo e nient’altro.
“C’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finché non sia compiuto”.
A quale battesimo si riferisce Gesù? Egli era già stato battezzato nell’acqua del Giordano (Lc 3,21-22); ma non è quello il battesimo che qui gli interessa. Il vero battesimo, quello più importante per Lui e per noi, è il battesimo del fuoco.
Molte persone sono convinte di essere cristiani solo perché sono battezzati; nulla di più falso: il battesimo ci ha sì aperto una strada, ma non basta, dobbiamo camminare, percorrerla tutta quella strada, dobbiamo andare sempre avanti. Dire “Sono battezzato e quindi sono cristiano” è una frase riduttiva, una frase che non dice assolutamente nulla. È come dire: “Posso progettare e costruire qualunque viadotto perché mi sono iscritto a ingegneria!”. Ne abbiamo di strada da fare!
Il battesimo di fuoco non è teoria, non assegna titoli: esso coincide con l’attimo in cui iniziamo a “vivere” sul serio, l’attimo in cui traduciamo in vita vissuta, in scelte, in atteggiamenti, ciò che diciamo con le parole, ciò che vorremmo o ci piacerebbe fare. Il battesimo di fuoco avviene nel momento in cui scegliamo concretamente di spendere la nostra energia interna, il nostro fuoco, la nostra passione, per la causa di Dio, per la salvezza della nostra anima: perché solo allora dimostreremo di aver capito chi è Lui veramente e cosa si aspetta da noi.
“Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, la divisione!”.
Uno dei nostri grandi desideri è sicuramente quello di “vivere in pace”. Ma cosa vuol dire “stare, vivere in pace”? Vuol forse dire “non alzare la voce, tacere se si è in disaccordo, non creare problemi, avere sempre un comportamento tranquillo, dimesso, composto? “Sta’ un po’ in pace!” diciamo spesso ai ragazzi che si affacciano alla vita in maniera un po’ troppo irrequieta. Cioè: “Stai calmo, tranquillo, metti da parte le tue voglie di novità, le tue voglie di emergere, perché quello che provi tu, non interessa a nessuno; lascia perdere i tuoi sogni, i tuoi ideali, i tuoi entusiasmi; non servono a nulla, il mondo va comunque avanti per la sua strada!”. Ma è pace questa? Questo è “piattume”, è la fine di ogni slancio, è guerra alla vita, è la morte di Dio, è la massificazione individuale più deleteria.
“Padre e figlio contro; madre e figlia contro; suocera e nuora contro”.
Gesù, essendo fuoco, non può mai essere indifferente. Per nessuno. Non è come l’acqua che passa via liscia, silenziosa, che prende sempre la forma del suo contenitore. Dove passa Gesù non possono che nascere scontri, incomprensioni, divisioni, perché lui costringe ad ottiche diverse da quelle umane, porta a fare scelte chiare, radicali, spesso in contro tendenza.
Dentro di noi si è fissata l’idea che seguire il Signore voglia dire essere buoni, mansueti, dolci e sorridenti. In passato veniva considerato “santo” l’uomo che sopportava tutto, che si annullava per gli altri, che non proferiva mai alcuna parola di ribellione, di risentimento; l’uomo insomma che sopportava in silenzio e con docile umiltà tutte le prepotenze altrui.
Ma la vita di Gesù non è stata così; basta guardare il Vangelo. La sua non è stata una vita di “pace”, come la intendiamo noi. La sua vita fu segnata, dall’inizio alla fine, da conflitti, da lotte, da contrasti e divisioni.
Egli si trovò in conflitto con la sua famiglia fin dall’inizio. Un giorno, a dodici anni, a Gerusalemme, disse chiaramente ai suoi genitori: “Non impicciatevi, non intromettetevi con la mia vita perché io devo fare le cose del Padre mio” (Lc 2,41-50). Con i suoi parenti andò ancora peggio: un giorno tentarono di “rinchiuderlo” poiché dicevano: “È pazzo da legare, dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo intervenire e prenderlo. Questo ci scredita tutti” (Mc 3,21).
Dovunque andava e dovunque passava, c’era sempre qualcuno che tentava di calunniarlo, di metterlo alla prova per ciò che diceva e per ciò che faceva, addirittura di ucciderlo. Sacerdoti e politici non lo potevano vedere, lo odiavano a sangue. Sfidò i suoi potenti nemici andando a Gerusalemme. E lo fece proprio nel momento più critico della sua vita, nel momento in cui era maggiormente preso di mira dalle autorità. Morì infine di morte violenta, assassinato sulla croce, con grande sollievo per molti. Più che una vita di pace, una vita senza conflitti e contrasti, la sua fu una vita di guerra.
Il suo vangelo inoltre non può certo essere considerato un rifugio per chi ha paura di lottare, di mettersi in gioco, di scontrarsi. Diventare discepoli del Maestro vuol dire seguire il suo richiamo, qualunque siano le conseguenze: vuol dire diventare ad ogni costo noi stessi, realizzando ciò che Lui ha seminato nel nostro profondo. E ciò non è né semplice né facile, lo sappiamo bene: ci sarà molto da lottare, ci saranno conflitti, divisioni, incomprensioni, perché “diventare se stessi” vuol dire deludere le aspettative degli altri: e ce lo rinfacceranno! “Diventare se stessi” vuol dire rispondere “no” a certe richieste, a certe pressioni, per conformarci alla maggioranza, a ciò che tutti pensano e vivono da sempre: e ce la faranno pagare! “Diventare se stessi” vuol dire affermarci, combattere per le nostre convinzioni, per la nostra fede, e questo sarà preso da qualcuno come un voler entrare in competizione con lui, come un sottrargli visibilità e spazio pubblico: e ci darà addosso! “Diventare se stessi” vuol dire farci sentire, e troveremo sempre qualcuno che tenterà di metterci a tacere, di annullarci. “Diventare se stessi” vuol dire prendere posizione e schierarci contro, dicendo: “Io non ci sto”. È quindi inevitabile “pestare i piedi” a qualcuno; e ci si rivolterà contro. “Diventare se stessi” vuol dire denunciare l’ingiustizia, combattere l’ipocrisia; e cosi facendo ci faremo una moltitudine di nemici che ci riempiranno di odio. “Diventare se stessi” vuol dire mettere Dio prima dei nostri cari, dei nostri familiari, di quelli che dicono di amarci: e saremo considerati degli ingrati, dei pazzi, degli irriconoscenti; e ci faranno sentire in colpa! “Diventare se stessi” vuol dire insomma lottare per noi stessi e per Dio.
Diciamo che vogliamo “diventare noi stessi”: ma quanto ne siamo convinti, se quando è il momento, quando siamo al dunque, rinunciamo a fare scelte decisive, ad impegnarci, a lottare per noi stessi? Diciamo di amare Dio: ma quanto lo amiamo, se non siamo in grado di amare neppure noi stessi? Riflettiamo e decidiamoci! Amen.