mercoledì 6 luglio 2016

10 Luglio 2016 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto...” (Lc 10,25-37).

Il vangelo di oggi si concentra sulla parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento, puramente provocatorio, di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in ridicolo Gesù, l’unico vero “maestro”. Che lui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di cercare una sfida tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.
Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: troviamo insomma il classico verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.
La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.
La sua, oltretutto, è la classica domanda, una delle domande fondamentali, tipica della gente comune, non particolarmente religiosa; gente cioè il cui scopo primo della vita non era certo amare, non era “vivere in pieno”, non era relazionarsi con gli altri con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutta la vibrazione del cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante era di trovarsi “in regola”. Nessuno di essi, in pratica, cercava veramente Dio, nessuno cercava l’altro, nessuno cercava di “vivere”. Ciò che contava era “essere osservanti”. In pratica, l’unica domanda che tutti si ponevano, adattata all’oggi, poteva suonare più o meno così: “Cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa dicono le regole, i comandamenti, il Catechismo, i precetti della Chiesa? Una domanda sicuramente lecita, carica di preoccupazione se uno l’avesse posta a Gesù in sincerità, con umiltà e retta intenzione. Ma ciò esula dalle intenzioni del dotto ebreo, che lascia trasparire in essa tutta la sua sarcastica sicurezza. Ma Gesù non cade nel tranello, capisce dove vuole arrivare l’altro; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; all’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, non par vero di rispondere a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: comportati osservando la legge, e sarai certo di avere la ricompensa prevista dalla legge”. Finito. Tutto chiaro!
Ma il dottore della legge non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.
E qui Gesù lo confonde completamente; la sua risposta questa volta richiede una chiave di lettura completamente diversa da quella dell’esperto legale, con una mentalità fredda, statica, puramente razionale. Egli non potrà mai capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità. Per lui tutto viene ricondotto a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni di legge, per cui “prossimo” poteva essere solo un suo concittadino, al massimo un connazionale. Gli altri no, esclusi! Per Gesù invece l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste più la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che ordina chi amare, non la legge!
Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico di poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla religione. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!
Il dottore della legge non può capire questo linguaggio. Per questo Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.
Un racconto molto realista: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, è purtroppo nota per la sua pericolosità, piena di agguati, di rapine, di imboscate. Sarebbe preferibile evitarla, ma un uomo è costretto a farla quella strada, sfidando i pericoli: per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto; e lo abbandonano sulla strada mezzo morto, solo con se stesso, con nessuno vicino, con nessuno capace di capirlo e di accoglierlo. A chi ricorrere? Chi chiamare? Su chi può fare affidamento quel poveretto per essere soccorso? È logico pensare che il suo primo pensiero vada sicuramente ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, risponde Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri”nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo in base al suo “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può vedervi come “prossimo”, correndo da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”.
Del resto, proseguendo la lettura a senso della parabola, se nessuno interviene, l’uomo ferito è destinato a morire. In questo caso, chi l’ha ucciso? I briganti? Soltanto loro? O non l’ha ucciso anche chi, potendo fare qualcosa, non l’ha fatto? Quante persone nella realtà si giustificano con la famosa frase: “Non è colpa mia, io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in certe situazioni non intervenire, non fare nulla, vuol dire condannare, vuol dire procurare la morte.
Nel seguito del racconto, poi, incontriamo tre personaggi che casualmente si trovano a passare proprio per quella strada. Sono un sacerdote, un levita, un samaritano.
Il sacerdote è l’addetto al culto (il prete di oggi), mentre il levita è l’addetto al tempio (il nostro sacrestano). Ora c’era una legge (come poteva mancare?) che impediva ai sacerdoti di toccare persone morte. Ma quest’uomo non era morto; semmai poteva sembrarlo! Nel dubbio però meglio tirare dritto. E il levita? Per lui quella legge non valeva, Lui non era un sacerdote; è vero, non era addetto al culto, alle liturgie, però toccava gli oggetti sacri; quindi, a ragionarci su, quella legge valeva anche per lui!
Come vediamo, c’è sempre una scusa quando non si vuole fare una cosa!
Purtroppo sia il sacerdote che il levita hanno un grosso problema con cui fare i conti: il loro “ruolo sacro”, il loro “mestiere” direbbe qualcuno di noi, prima o poi rischia di uccidere la loro anima, di soffocare il loro cuore: “Tu sei un sacerdote, sei un levita, non puoi abbassarti a fare queste cose materiali, non sono previste dal tuo rango!”.
C’è poi un altro personaggio, più defilato, ma altrettanto colpevole di essere insensibile, anche lui condizionato dal suo ruolo: l’albergatore. Quando arriva l’uomo mezzo morto, non dice al samaritano che lo vuol pagare: “Ma sì, in una situazione del genere non ti preoccupare, scherzi? Non se ne parla neanche: mi prendo cura io di quest’uomo, non voglio assolutamente nulla da te; tu hai già fatto anche troppo portando fin qui questo poveretto”. Nulla di tutto questo: quando arriva il samaritano se ne sta zitto e incassa il denaro. Anzi, fiutato l’affare, pensa di battere cassa anche al suo ritorno. Anche lui è vittima del suo ruolo: “Io non guardo in faccia a nessuno, mi faccio gli affari miei”. Il suo mestiere lo ha ucciso dentro, impedendogli di provare amore, compassione, di sentire la “vita”.
Questo ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita dell’anima”. Se non stiamo attenti, il ruolo ci distacca da noi stessi, dalla nostra sensibilità, da ciò che abbiamo dentro; non ci ascoltiamo più; coerenti col ruolo, continuiamo a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siamo più noi che sentiamo e decidiamo, ma è il nostro ruolo che sente e agisce per noi in maniera automatica.
Dobbiamo allora evitare di pensare sempre, in qualunque situazione della vita, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli.
Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il samaritano.
Egli non ha maschere o funzioni da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.
Tutti e tre (sacerdote, levita e samaritano) passano per la stessa strada e tutti e tre vedono l’uomo ferito. Ma del solo samaritano il vangelo sottolinea un particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare, che scuote: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.
Come poteva quest’uomo tirare dritto? Come poteva questo samaritano far finta di niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: i cuori del sacerdote e del levita erano invece morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.
Nulla di straordinario: ricordiamoci sempre in proposito che anche noi possiamo incorrere nella nostra vita in due tipi di morte: quella fisica e quella spirituale.
Con la morte fisica, quella naturale, che segna la fine della nostra vita, moriamo dentro e fuori; con la morte spirituale, invece, viviamo sì all’esterno, ma con la morte nell’anima. Non dimentichiamoci mai, allora, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; siamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.


giovedì 30 giugno 2016

3 Luglio 2016 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«l Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Lc 10,1-12.17-20).

Tutti gli esegeti concordano nel non attribuire personalmente a Gesù queste parole. Costituiscono invece una “esortazione” che riflette in maniera molto chiara e realistica la situazione che si è venuta a creare dopo la sua morte, nei primi anni di vita della Chiesa. In quel momento particolare Lui non c’è più: spetta perciò ai suoi discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione, assicurando così a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio. Quindi niente di più ovvio per Luca, che far risalire questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, a Gesù stesso,condensando in essa le ripetute sollecitazioni di Gesù fatte in tal senso.
Sono parole, quindi, legate ad un periodo di tempo successivo a Lui. Esse infatti esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per una realtà contingente: c’è un bisogno urgente di nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”. C’è bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato alla sua partenza da questo mondo: uomini in grado di mettere in pratica il suo esempio, soprattutto di parlare al cuore della gente. Per la loro missione non servono discorsi asettici, dottrinalmente perfetti; non devono dimostrare la bellezza, l’importanza, il valore del Risorto; le loro parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad amare Colui che per amore ha sacrificato la propria vita.
In particolare questi nuovi “settantadue”, qualunque sia la loro destinazione, devono imitare il loro Maestro, devono guarire come lui le malattie, e annunciare: “Il regno è qui, in mezzo a voi”. Non devono porsi come giudici, dicendo “Tu devi fare così; tu sei in peccato; tu sbagli; il Signore ti punirà; non sei un bravo cristiano!”. Devono invece presentarsi come consolatori degli afflitti, guaritori degli animi in difficoltà: “Tu sei ammalato nel tuo cuore, ma se lo vuoi, puoi guarire”.
Il mondo è pieno anche oggi di persone malate nell’anima, persone che pensano di essere vittime di qualche disfunzione fisica, e non trovano dottori in grado di guarirle. Continuano ad affidarsi all’onnipotenza della medicina del corpo, e non si rendono conto che la loro è una malattia dell’anima, non capiscono che per guarire devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, quella dello Spirito, che sola può fornire loro la Vera Forza, la Vera Guarigione.
Ecco perché, anche oggi, abbiamo tanto bisogno di “medici” dell’anima, che facciano riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi, che facciano capire che la Forza per guarire è dentro di noi, nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, contagia, infetta, indebolisce anche il corpo: quindi da dove proviene la malattia, di là deve arrivare anche la guarigione.
Quando ci ammaliamo, allora, il problema non è trovare la compressa giusta o l’antibiotico specifico: dobbiamo invece guarire lo spirito contaminato, dobbiamo cambiare vita, dobbiamo ritrovare la “forza” perduta, riscoprire in noi la Vera Sorgente della salute.
Ma per fare ciò dobbiamo mettere in atto una cura preventiva: analizzare minuziosamente e controllare i nostri sentimenti.
Così per esempio l’odio, la collera, l’ira: se continuiamo ad alimentare, a covare questi impulsi contro chiunque in qualche modo ci abbia offeso, non ne verremo mai fuori, imploderemo dentro. Vogliamo vivere sempre così? È un non vivere: allora tiriamo fuori il nostro dolore, la nostra collera, magari urliamo: ma poi affidiamoci completamente al nostro Medico Misericordioso, e “andiamo avanti”: questo è il nostro “mondo” da evangelizzare.
La paura: se non abbiamo fede in Dio, se non abbiamo fiducia in noi stessi, le nostre paure ci divoreranno. I nostri mostri diventeranno realtà e ci sbraneranno. Siamo schiavi di complessi che ci condizionano l’esistenza? Abbiamo paura di non essere brillanti, di parlare in pubblico, di fare brutta figura, di venire derisi per quello che diciamo? Abbiamo paura di un attacco di panico? Paura degli spazi chiusi? Paura che gli altri vedano le nostre insicurezze, che abbiamo le mani che sudano, che arrossiamo per un nonnulla? Siamo fiduciosi e lanciamoci: Dio ha fiducia in noi:perché anche noi non l’abbiamo? Il nostro “regno” da conquistare è anche questo.
La vergogna: se non c’è amore, se ce la teniamo dentro, viviamo con un macigno nel cuore.
Vogliamo guarire? Tiriamola fuori questa nostra vergogna: il “regno” è anche qui.
Il senso di colpa: se non confidiamo nel perdono, è la fine. Sarà un continuo roderci l’anima. Ma Dio è più grande dei nostri sensi di colpa, ben più grande dei nostri errori. Guarire è poter chiedergli perdono e sentirci dire: “Adesso va in pace e torna a vivere: questa è libertà; il regno di Dio ti aspetta”.
Un particolare importantissimo da sottolineare: di fronte alla necessità di nuovi operai, Gesù prima di tutto dice: “Pregate”, è vero; ma subito dopo aggiunge: “Andate!”. Cioè: “Vai tu”.
La gente in genere si ferma alla prima parola; e chiede: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa!”. Ma quando sente la seconda, si tira subito indietro!
In giro si fa un gran parlare di responsabilità, di collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione generale ecc. ecc. Di fronte ad una grave necessità, ci si ferma alle belle parole, alle buone intenzioni.
Ma “responsabilità”, deriva dal latino “respondeo”, che vuol dire “rispondere”: c’è una chiamata (“vocatus”, vocazione) e c’è la risposta (responsabilità). Si diventa grandi, adulti, quando alla chiamata della vita rispondiamo “sì”: questo è “responsabilità”.
Ci lamentiamo perché la società di oggi fa schifo? Rispondiamo noi per primi; comportiamoci sempre civilmente, anche nelle piccole cose, e diamo il buon esempio. Ci lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare molto di più? Rispondiamo in prima persona: “Eccomi, sono a disposizione”, anche per i lavori più umili e nascosti. Ci lamentiamo perché a scuola le cose non vanno bene? Coinvolgiamoci noi personalmente, diventiamo rappresentanti di classe. Ci lamentiamo insomma perché le cose non vanno come dovrebbero andare? Partiamo, scendiamo in campo, diamoci da fare! Cosa facciamo noi invece? Nulla: ci lamentiamo, borbottiamo, critichiamo, ma poi nulla. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi e dei nostri fioretti. Dio vuole noi!
Certo non è una cosa da prendere alla leggera. No, non sarà affatto semplice. Saremo come agnelli che devono vedersela coi lupi. Infatti, nel mondo, se offriamo pranzi, se organizziamo feste, se ossequiamo i potenti, se ci limitiamo ad accettare i loro inviti a cena, in altre parole se non ci esponiamo troppo, se dimostriamo di essere accomodanti, simpatici, aperti; se non facciamo sentire la nostra voce contro certe sopraffazioni, sicuramente saremo accolti bene. Ma se portiamo il vangelo come regola di vita, se denunciamo apertamente ogni ingiustizia, allora, automaticamente, ci troveremo in mezzo a lupi rapaci, che tenteranno di sbranarci in tutti i modi. È sempre stato così, sappiamolo; e prepariamoci!
Del resto va bene così. Perché è allora che emerge il vero motivo che ci spinge da dentro; in altre parole, se siamo mossi da motivazioni false, deboli, povere, arriviamo subito alla conclusione: “Ma chi me lo fa fare?”, e lasciamo perdere, desistiamo immediatamente. Ma se abbiamo motivazioni forti, se abbiamo il fuoco nell’anima e la passione nel cuore, allora affrontiamo “il nemico” e andiamo avanti per la nostra strada.
Una strada che è lunga e faticosa da percorrere. Ecco perché dobbiamo essere “leggeri”. Se abbiamo troppi interessi personali da difendere, siamo troppo legati, troppo pesanti: liberiamoci dalla zavorra. Quando andiamo in montagna, abbiamo bisogno di uno zaino il più leggero possibile. Se pesa troppo, finiamo per non riuscire più ad andare avanti. “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Abbiamo una missione da compiere, uno scopo ben preciso da raggiungere; andiamo quindi dritti per la nostra strada. Non “salutiamo nessuno”: se ci fermiamo a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarà anche bello, ma non arriveremo mai al nostro traguardo.
Dobbiamo essere liberi e leggeri: solo così potremo viaggiare spediti. Se il benessere materiale è l’arte di avere più che si può, la spiritualità è l’arte dell’avere meno che si può.
Inoltre dobbiamo essere rispettosi, caritatevoli, non imponiamo niente a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno loro poi a doverla giustificare con Dio.
Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare indietro”. Il “rispetto” è come camminare in montagna: ogni tanto dobbiamo voltarci indietro per vedere se i nostri compagni ci seguono, o se sono in difficoltà; se non li vediamo, li aspettiamo. Rispettare vuol dire tenere in considerazione le esigenze e le scelte dell’altro, anche se sono diverse dalle nostre; rispettare è accettare che nella vita, oltre noi, ci sono anche gli altri. Così, anche il sole, le piante, l’erba, l’acqua, gli animali, che sono creature del mondo e di Dio, vanno rispettati. Tutto ciò che esiste merita di esserci e di essere rispettato per il solo fatto che esiste.
Quando uno parla, se lo rispettiamo, lo ascoltiamo, non lo interrompiamo. Lo lasciamo dire tutto ciò che deve dire, senza dare segni di insofferenza; se lo rispettiamo, non pensiamo che sia un deficiente, uno che non capisce nulla; non lo interrompiamo pretendendo di avere noi ragione a tutti i costi; non gli ridiamo in faccia se sbaglia qualche parola, o se è balbuziente. Insomma quando uno parla, se lo rispettiamo, anche se per noi sbaglia, non dobbiamo giudicarlo a priori come un cattivo cristiano, un deficiente, o un depravato; cerchiamo invece di ascoltare il suo cuore.
Infine, dovunque andiamo, dobbiamo portare la pace: “Pace a questa casa”. Pace, “shalom” in ebraico, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente; pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento. È tradotta in greco con “eirene” che indica benessere, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro non ha pace, non è pacifica, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.
Noi oggi, nella nostra missione, quando incontriamo le persone, in realtà cosa portiamo loro, cosa diamo, cosa trasmettiamo? Alcuni di noi dicono: “Io sono sempre pronto per gli altri; do tanto”. Sì, vero, ma cosa diamo? Non basta dare; l’importante è cosa diamo, cosa trasmettiamo, qual è il messaggio che portiamo.
Dobbiamo essere come i fiori: dovunque vengono messi, inondano l’ambiente con la loro fragranza; perché il profumo è la caratteristica del loro essere fiori. Così anche noi. Se nel nostro essere, se nel nostro cuore, regna la pace, dovunque andremo ne lasceremo il profumo. Se al contrario abbiamo guerra, lasceremo solo macerie.
I settantadue vanno (10,17-20) e tornano entusiasti: “È proprio così, Signore! Quelle cose che tu hai fatto, riusciamo a farle anche noi!”. Che bello! Se anche noi ci fidassimo veramente di Lui, scopriremmo di avere la sua stessa forza: perché dentro di noi c’è lui stesso, il suo Spirito, e con Lui nulla risulterebbe impossibile pure a noi. Lo sottolinea Gesù stesso agli apostoli: “Non siate felici per il potere che avete, per ciò che riuscite a fare. Non siete voi, ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi sono scritti nei cieli”.
Noi passiamo, i nostri nomi vengono dimenticati. Cinquant’anni dopo la nostra morte nessuno più si ricorderà di noi. I nomi scritti sulla terra, quaggiù, svaniscono con il vento. Ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State tranquilli, voi non sarete abbandonati; non abbiate alcuna paura, voi siete protetti, siete salvati, siete nel palmo della Mano di Dio. Da lì nessuno potrà rapirvi”. Amen.



mercoledì 22 giugno 2016

26 Giugno 2016 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé» (Lc 9,51-62).

Un vangelo chiaro quello di oggi. Un vangelo esplicito, che ci offre una serie di indicazioni sulla qualità della sequela: indicazioni che non fanno sconti a nessuno. Soprattutto a quanti si riempiono la bocca di “buonismo” da parte di Dio, visto come un bonaccione che comunque “si accontenta”, per giustificare le loro scelte di vita opportunistiche, unilaterali, fondamentalmente egoistiche.
Siamo nel nono capitolo di Luca: un capitolo decisivo, in cui Gesù, che si trova in Galilea, prende “la ferma decisione” di raggiungere Gerusalemme per la Pasqua, pur sapendo che lì sarebbe stato crocifisso.
Per arrivarci però, è costretto a passare per la Samaria, terra dai rapporti non troppo idilliaci con i galilei: per cui ai discepoli che Egli aveva mandato per pianificare gli spostamenti suoi e del suo gruppo, negano ogni richiesta di accoglienza e di ospitalità notturna.
Probabilmente era gente prevenuta nei suoi confronti, gente a cui certi suoi discorsi su “cose” spirituali, non interessavano; non volevano sentirne parlare, non avevano nessuna voglia di cambiare, non volevano proprio saperne di guardarsi dentro; non volevano insomma problemi, difficoltà, “rotture”.
Luca legge questo rifiuto in chiave teologica: Gesù cioè viene rifiutato perché va a Gerusalemme. Rifiutare il suo viaggio a Gerusalemme (tutto il vangelo di Luca è in vista di questa “ascesa”, di questo ritorno del Figlio unico al Padre) è rifiutarlo nella sua essenza, nel suo volto, nella sua unicità e particolarità. Significa rifiutare lo stesso Gesù.
È quindi naturale che, di fronte a tanta puntigliosità, Giacomo e Giovanni, i“boanèrghes”, le teste calde, reagiscono da par loro, chiedendo per quel territorio un castigo immediato: che un “fuoco dal cielo” bruci tutti gli occupanti. Ma, a differenza di Jahweh che dimostra per mezzo di Elia tutta la sua potenza, incenerendo per ben due volte i soldati mandati dal re Acazia ad uccidere il profeta, avendo egli avuto l'ardire di annunciare la sua morte (2Re 1,1-18), a Gesù non interessa dimostrare la sua potenza; Egli vuole solo dare prova di tutto il suo amore. Gesù non è potente nella forza, ma nell’amore: la sua forza sta tutta qui, in un amore che non ha forza; il suo potere sta nel non avere potere. “Non ci vogliono? Lasciamoli stare. Andiamo altrove”.
Del resto, sembra dire, è anche giusto che qualcuno nella vita ci rifiuti: perché dovremmo andare bene a tutti? Ricordiamoci sempre, quando qualcuno ci rifiuta, che ciò è normale; non abbiamo il diritto di essere accettati da tutti. E se questo ci fa star male, se per questo soffriamo, siamo noi che sbagliamo: perché nella vita è nostro dovere convivere pacificamente con tutti: con quanti ci dicono “Sì” e con quanti ci dicono “No”.
Da questo capitolo dunque il vangelo di Luca non è solo Parola da ascoltare, ma anche e soprattutto “Via” da seguire, una via che si sviluppa progressivamente durante il suo camminare verso Gerusalemme e che termina lassù, in alto, sulla croce del Golgota.
Il volto “teso”, “indurito” (estèrisen) di Gesù che si avvia verso la sua passione, si pone in contrasto con il nostro volto, il volto di quanti si propongono di seguirlo senza un fermo proposito: i casi descritti da Luca nella seconda parte del vangelo di oggi, ci riportano infatti alla nostra pochezza, alla nostra superficialità, ai nostri “distinguo”, al nostro continuo rimandare qualunque seria decisione : perché l’unico scopo radicato nella nostra mente, nella nostra vita, è quello di emergere nell’avere, nel potere, nell’apparire.
Il testo ci presenta tre tipologie di adesione alla chiamata divina.
La prima riporta una promessa: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Una risposta categorica, sullo stile di quelle di Pietro. Il chiamato ha sentito impellente il desiderio di seguire Gesù, ha capito la bontà di tale aspirazione, ma – come Pietro - non ha fatto i conti con la caducità della natura umana, non ha capito che seguirlo significa andare oltre l’elemento umano, significa per l’uomo porre ogni sua sicurezza nel divino.
“Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,56).
Perché cita le volpi e gli uccelli? Nella cultura ebraica la volpe è considerata l’animale più astuto ma anche ingenuo, insignificante. Erode, la “volpe” (Lc 13,32), furbo ma banale, cerca la salvezza nascondendosi nel suo palazzo, nella sua tana: e pensa di poter vivere tranquillo. Gli uccelli poi sono gli animali più semplici, meno impegnativi, con minori esigenze: “Guardate gli uccelli del cielo...” (Mt 6,26). Ebbene: sia le volpi che gli uccelli, hanno comunque la loro tana, il loro nido.
Gesù invece non ha nulla: tutto ciò che possiede non gli appartiene, e lo restituisce al Padre. Come la sua vita. Con questa dichiarazione, Egli toglie immediatamente, a chi vuol seguirlo, ogni illusione di ricchezza, di ambizione; seguirlo non conduce in alcun modo agli onori, alla gloria, alla popolarità, ma al disprezzo sicuro da parte della società e dei potenti. Seguire Gesù significa venir considerati come inutili, insignificanti, gente banale, senza carattere.
Prima condizione per seguirlo è pertanto: “Non aspettatevi nulla: nessuna ricchezza, nessun onore, nessun merito, nessun riconoscimento umano, nessuna poltrona particolare”: una prospettiva non invitante, in stridente contrasto con lo stile di vita adottato da tanti “discepoli”, da tanti “pastori” moderni e disinvolti.
Gesù ci mette dunque in guardia contro le false illusioni, le false aspettative. Tutti siamo un po’ degli illusi! Per esempio “illusione” è quando pensiamo di poter superare da soli, con la nostra sola volontà, tutte le contrarietà della vita; “illusione” è pensare di essere immuni da ogni malattia, che tutti gli eventi negativi che ci circondano, accadano soltanto agli altri e non a noi; “illusione” è pensare che una volta imboccata la strada per seguire Gesù, diventeremo automaticamente migliori, diversi, perfetti; “illusione” è pensare che Dio sia sempre pronto a rimuovere ogni ostacolo davanti ai nostri passi; “illusione” è dire che ci conosciamo a fondo; “illusione” è pensare che se tutti si comportassero come noi, il mondo sarebbe sicuramente migliore; “illusione” è credere che per essere felici nella vita, sia sufficiente crearsi la propria “tana”.
La seconda forma di sequela parte dall’iniziativa di Gesù che dice all’uomo, “seguimi!”. Una chiamata secca, inequivocabile; chi deve seguire siamo noi, non lui. E mentre nel caso precedente, come abbiamo visto, è Gesù che risponde all’iniziativa dell’uomo, qui è l’uomo, il chiamato, che obietta all’invito di Gesù: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. In effetti egli non dice di no, non chiede una dispensa, chiede solo una proroga!
Il motivo del resto è più che valido: seppellire il padre costituiva per la cultura ebraica l’obbligo più importante e più sacro per un figlio: il padre rappresentava infatti colui che trasmetteva la tradizione, i valori etici e religiosi del passato, il modello da seguire. Onorare il padre (il famoso quarto comandamento) significava appunto imitarlo, fare come aveva fatto lui, portare avanti il suo patrimonio, le sue credenze, la sua tradizione. In questo modo il padre viveva nel figlio.
Pertanto gli onori funebri, presieduti dal figlio, costituivano un obbligo che non poteva in alcun modo venire disatteso. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,59-60). Certo, seppellire il proprio padre è un impegno importantissimo, irrinunciabile: ma Gesù fa capire che seguire i suoi passi, aderire immediatamente alla sua chiamata, è un dovere ancora più importante, improrogabile. Una risposta a dir poco scandalosa la sua, inattuabile per quei tempi. Ma Gesù non è nuovo nel puntualizzare questa sua nuova scala di valori: lo aveva fatto anche al momento della chiamata dei suoi discepoli, ordinando loro di abbandonare anche il padre. Tant'è che: “Essi, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (Mt 4,22). E non solo il padre: in realtà aveva chiesto che lasciassero il loro mestiere, le loro tradizioni familiari, che abbandonassero così, su due piedi, tutto ciò a cui tenevano di più; in una parola, tutto ciò che costituiva la loro vita.
Il significato è chiaro: tutte queste cose, tutto ciò che abbiamo sempre fatto, riguarda il passato, è successo ieri, appartengono ad un altro mondo. Il discepolo che vuol seguire Gesù, al contrario, è il presente, l’oggi, l’immediato: è una “nuova” vita. Bisogna essere “vino nuovo in otri nuovi” (Mc 2,21.22). Che vuol dire: “Il passato è passato, è morto; non dovete più fare le stesse cose di ieri. Di fronte alla chiamata di Dio, non siete più tenuti a sottomettervi a quelle usanze, a quelle tradizioni, che vi erano imposte dalla società, dalle vostre usanze, dalla famiglia; ma soprattutto, altro punto importantissimo, il discepolo deve fare le cose che si sente di fare, che gli vengono suggerite dal cuore, dall’amore; basta col fare le cose perché così fanno tutti gli altri: “Ma noi abbiamo sempre fatto in questo modo da che mondo è mondo!”.
È vero: basti pensare a tutte quelle “prediche” che ci hanno impartito fin da piccoli: “Sii bravo, non sbagliare, sii forte, datti da fare, impegnati, sbrigati, fammelo almeno per piacere, non vedi che mi fai soffrire? Non pensi a tua madre, a tuo padre? Fai sempre come ti hanno insegnato i tuoi genitori! Cosa dirà la gente in giro se non fai come loro ti hanno insegnato?”. Frasi che ci hanno costretto nostro malgrado, chi più chi meno, a rinunciare alla nostra personalità, ai nostri progetti, ai nostri sogni; frasi, che ci hanno costretto a non essere più noi stessi, ma quel qualcuno che gli altri pretendevano da noi.
Seguire Gesù implica al contrario un cuore libero; perché solo così potremo annunciarlo fino ai confini della terra.
Poi c’è la terza soluzione: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Anche quest’uomo è intenzionato a seguire Gesù: ma è meno convinto del precedente: l’altro chiedeva un po’ di tempo per adempiere un dovere sacrosanto; questi non ha una motivazione valida, chiede solo “un po’ di tempo”; rimanda al domani solo per il piacere di congedarsi da parenti e amici.
Quanto ci assomiglia! “Guarda Gesù, io ti seguirò sicuramente, ma prima devo sistemare alcune cosucce, prima devo laurearmi, prima devo sposarmi, prima devo sistemarmi; poi verrò!”.
Ma Gesù anche questa volta è chiarissimo: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,61-62). Sono parole che alludono alla vocazione di Eliseo: chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi, egli brucia senza esitazione il suo aratro, sacrifica i suoi buoi e obbedisce alla volontà Dio (1Re 19,19ss.). La chiamata di Dio ha priorità assoluta, esige una risposta immediata, bisogna decidere subito, non c’è tempo per guardare indietro, al passato. Tutti conosciamo cosa è capitato alla moglie di Lot che, fuggendo da Sodoma in fiamme, si voltò indietro a guardare: si trasformò in una statua di sale! (Gn 19,26). Quando Dio chiama non sono ammessi indugi, perché è quello il momento in cui dobbiamo decidere della nostra vita o della nostra morte.
Guardarsi indietro significa ripensarci, ritornare sui propri passi, nicchiare, farsi cogliere dai dubbi, aver paura dell’incognito: e questo non è possibile per chi aspira al Regno dei cieli.
La radice di tutti questi mali, di questi ripensamenti, è infatti l’attaccamento al nostro io, alle nostre comodità, alla nostra vita sicura e agiata: la nostra sarà anche una “rinuncia”, ma pilotata, addomesticata, adattata ai nostri gusti, alle nostre esigenze.
Gesù invece è l’uomo del “si, si, no, no”: esige risposte certe, non ama ripensamenti, gli assensi a metà. Non ama il piede su due staffe. Lui, presa la “ferma” decisione di andare a Gerusalemme per sacrificarsi, è andato sempre avanti, dritto per la sua strada. E questo rimane un grandissimo insegnamento per noi. Amen.



giovedì 16 giugno 2016

19 Giugno 2016 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).

Dopo i particolari riportati da Luca nel vangelo di oggi - siamo nel suo nono capitolo - Gesù decide di andare a Gerusalemme, costi quel che costi: egli sa di rischiare la vita, essendo perfettamente consapevole di quanto gli sarebbe accaduto, ma ciò non lo fa desistere dal suo proposito. Prima però di affrontare qualunque cosa, dice il vangelo, egli pregava: nel silenzio, nella solitudine, di fronte ad ogni difficoltà, più che con le parole, Gesù si affidava a quel sentimento profondo di fiducia e di intimità che lo legava al Padre. Più che un luogo solitario, Egli cercava quell’atmosfera, quel clima di silenzio e di distacco dalle persone e dalle cose, che gli consentiva di entrare dentro di sé per incontrare Lui.
Non è quindi il luogo sacro come la chiesa, che di per sé fa preghiera: ma è la nostra predisposizione interiore. Solo se in chiesa c’è silenzio intorno e dentro di noi, se c’è concentrazione, allora può esservi preghiera. 
Non è detto infatti che chi entra in chiesa, solo perché è luogo di preghiera, automaticamente preghi; egli pregherà invece ogni qualvolta il suo animo saprà aprirsi, emozionarsi, elevarsi, percepire la presenza di Dio l’infinitamente Grande, nel suo infinitamente piccolo di uomo.
Non basta “recitare” una serie di parole, di formule, di giaculatorie, perché ci sia preghiera; non basta dire “amore” perché ci sia amore. La preghiera, il legame intimo con Dio, il sentimento di amore che ci unisce a Lui, sono tutt’altra cosa rispetto a delle parole o a delle melodie vuote, superficiali, pronunciate e cantate meccanicamente.
Preghiera è profondità, intimità: è emozionarsi, ringraziare Dio per la presenza nella nostra vita delle persone che amiamo, per i loro occhi lucidi e riconoscenti con cui ci riamano; è ringraziarlo per il sorriso dei nostri figli che ci riempie il cuore, per un progetto di vita andato in porto, per un traguardo raggiunto, per tutto ciò che c’è di bello, di vero, di meraviglioso intorno a noi. Preghiera è piangere di gioia, commuoverci, sorridere, dire al Padre tutto il nostro amore; è una comunicazione con l’Altissimo, una disponibilità umile e sincera ad ascoltare cosa Lui ci dice.
Preghiera è, insomma, poter dire con Gesù: “Sì” a qualunque cosa, è dire: “Grazie” per tutto ciò che è stato, e “si” per ciò che sarà. Per chi ha un cuore vivo, basta poco per pregare. Ma per chi ha un cuore morto, nulla è preghiera.
Mentre dunque è ancora in preghiera, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che io sia?”.
Gesù parla bene, compie miracoli, guarigioni, ha un notevole seguito e successo. 
È normale che le persone si chiedano: “Ma chi è costui?”. Erode stesso, qualche versetto prima, si era chiesto la stessa cosa: “Chi è costui del quale sento dire tali cose?” (Lc 9,9).
Le risposte che circolano sono senza dubbio lusinghiere: alcuni lo identificano col Battista, il più grande profeta del tempo, altri con Elia, il profeta che non era morto e che sarebbe ritornato alla venuta del Messia; altri infine lo considerano un profeta, un uomo di Dio.
Ma Gesù non si accontenta, vuole andare più a fondo: passa dal giudizio degli “altri”, a quello degli apostoli: “Voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,20).
Pietro, con la solita irruenza, precede tutti e dichiara: “Tu sei il Cristo”, tu sei l’unto, l’aspettato. Ora, gli esperti della Bibbia mettono in dubbio l’autenticità di questa risposta messianica, visto che Gesù non si è mai definito in questo modo; anzi nel versetto successivo egli parla di sé come Figlio dell’uomo e non come di “Cristo” (Lc 9,22).
A noi personalmente, cosa abbia risposto Pietro, non interessa più di tanto: quello che invece ci deve far pensare seriamente, quello che ci mette veramente in crisi, è la solennità, l’importanza, la portata reale e profonda della domanda che Gesù, oltre agli apostoli, rivolge a ciascuno di noi: “Chi sono io per te?”.
Molte persone sono convinte di essere cristiane, di essere “in regola” con Dio, per il solo fatto di essere battezzate, di appartenere cioè al gruppo dei redenti da Cristo, che si prefiggono di seguire il suo vangelo. Ma un conto è la “promessa” di diventare suoi discepoli, fattagli subito dopo aver riacquistato col battesimo la forza e la sua grazia,  un altro è “esserlo realmente”: “essere discepoli” di Gesù, seguire i suoi passi, presuppone infatti un rapporto diretto e costante con lui; significa aver avuto, ad un certo punto della nostra vita, un incontro/scontro con lui; una sua “chiamata” personalissima, carica di amore, che di fronte al nostro essere ciechi, malati di qualunquismo, di indifferenza religiosa, ci ha folgorato, ci ha completamente spiazzato.
Si tratta di semplici parole che però coinvolgono una vita: “Vieni e seguimi” (Mc 1,17; 2,14) oppure “Vieni a vedere” (Gv 1,39; 1,46).
Se guardiamo il vangelo, tutti i “malati” che hanno “seguito” Gesù, lo hanno fatto esattamente aderendo a questo invito: lo ha fatto per esempio Zaccheo (Lc 19,1-10), lo ha fatto il cieco di Gerico (Lc 18,35-43), la donna curva (Lc 13,10-17), l’emoroissa (Lc 9,43-48), la figlia di Giairo (Lc 9,40-56). Tutte persone che dopo averlo incontrato, lo “hanno seguito”: sono cioè completamente cambiate, si sono radicalmente trasformate, non sono state più le stesse. E questo soprattutto perché lo hanno conosciuto, hanno verificato la sua potenza, hanno sperimentato il suo amore: hanno cioè capito chi egli fosse veramente.
Dio quindi non è un’idea, una scienza, una dottrina, ma è una realtà, una persona concreta: un qualcuno che, se lo incontriamo, se gli apriamo il cuore, se lo facciamo entrare in noi, rivoluzionerà completamente la nostra vita come la loro: e a quel punto sapremo bene anche noi chi è, cosa vuole da noi, cosa ha fatto e soprattutto cosa farà ancora per noi. Questo significa essere cristiani: se invece continuiamo ad esserlo come ci fa comodo, se ci fermiamo al superficiale, di Lui non conosceremo e non apprezzeremo mai nulla!
Dio, ripeto, è un’esperienza, un incontro, un “ribaltamento”, altrimenti è un nulla, nessuno. Dio è qualcosa che ci coinvolge, che ci fa diversi, che ci porta lontano: per questo chi ha paura non lo può seguire. Perché Dio gli cambia la vita; ma proprio per questo è irresistibile.
Poi Gesù dice: “Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire...” (Lc 9,22). Nessuno di noi vuole soffrire, è ovvio. Ma quando dobbiamo fare delle scelte importanti, questo comporta delle difficoltà, delle sofferenze: difficoltà e sofferenze che ci purificano, ci insegnano a far tesoro delle nostre esperienze, a vivere una vita migliore; utilizzano cioè le sofferenze per non soffrire più, al contrario di quanti non imparano nulla dalla loro vita.
Quindi prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).
Alcuni hanno interpretato questo “rinnegare se stessi”, come un invito a distruggere la propria personalità, a un “non vivere”, a un umiliarsi di continuo, un “annientarsi”, un sacrificare totalmente la propria esistenza. Ma Gesù non intende questo.
Egli vuol dire che in certi momenti, in certe situazioni, di fronte a certi atteggiamenti, dobbiamo dire semplicemente “No”. “Rin-negarsi” vuol dire proprio questo: “Mi dico di no!”.
Scegliere di vivere scappando da noi stessi, dalla nostra coscienza, facendo un sacco di cose per stordirci, per non sentire il vuoto che c’è dentro di noi, non è vivere.
Ad un certo punto dobbiamo dirci: “Basta, non posso andare avanti così, adesso mi devo fermare e prendere una decisione, a qualunque costo!”. Certo, riuscire a dirci: “No... smettila... basta!”, è difficile, doloroso; ma è assolutamente necessario. Del resto se non sappiamo dominarci, se quando serve non riusciamo a dirci “no”, come possiamo pensare che i nostri “sì” siano considerati veri e attendibili?
Infine Gesù chiude il vangelo dicendo: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24).
Quel verbo “salvare” (in greco sozo), vuol dire letteralmente “custodire, risparmiare, preservare”. Quindi, chi vuole risparmiarsi, chi vuol fare il dritto, chi svicola, chi non vuole mettersi in gioco, finisce per perdere la propria vita.
Chi non osa, è un perdente: quante persone purtroppo vivono l’intera vita sulla difensiva, temporeggiando, rimandando: non osano assumere un comportamento deciso, imboccare una nuova strada, abbandonare situazioni ormai stantie e usurate, cambiare abitudini, stile di vita.
È una triste constatazione: perché chi vive così, sull’indecisione, sulla difensiva, meglio ancora, sul voler salvare ad ogni costo la propria mentalità (psichè), il proprio modo di “pensare”, finirà inesorabilmente per perdere tutta la sua vitalità, ogni suo entusiasmo, insomma il meglio, l’anima della sua vita.
Allora, vale la pena meditare le parole che Gesù dice nel versetto successivo, e che non appartengono al vangelo di oggi: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). Pensiamoci seriamente! Amen.



giovedì 9 giugno 2016

12 Giugno 2016 – XI Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,36-8,3).

L’episodio riportato da Luca nel vangelo di questa domenica potrebbe essere giudicato, da certi farisei contemporanei, come inopportuno, fuori luogo, motivo di confusione, addirittura, per certi versi, scandaloso.
Non dobbiamo però lasciarci coinvolgere dai facili pregiudizi, derivanti come al solito da una lettura superficiale e distratta. Per capire il vero significato di questo testo dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo come al solito leggerlo nel suo naturale contesto, tenendo cioè presente la mentalità e il modo di vedere le cose al tempo di Gesù. Cerchiamo allora di analizzare alcuni particolari importanti.
Prima di tutto il comportamento di Gesù nei confronti dei “pranzi”. Contrariamente a certa letteratura che ci offre un’immagine stereotipata di grande austerità, Gesù era un uomo allegro, aperto, amava pranzare, pranzava molto e con tutti. Gesù nel vangelo non è un mistico, un asceta, uno che si macera continuamente nel digiuno rinunciando agli innocenti piaceri della vita: Gesù non fa penitenze straordinarie, non si mortifica macerando il suo corpo. Anzi! Gesù nel vangelo è l’uomo della festa, della gioia, dei pranzi, degli abbracci, dei sorrisi, delle emozioni. È proprio per questo che lo invidiano e lo accusano di essere “amico dei pubblicani e dei peccatori”, un “mangione e un beone”. Proprio per questo i religiosi, gli osservanti puri, le autorità del Tempio, si guardano bene dall’invitarlo: lo considerano ritualmente “impuro”, né più né meno di quella feccia della società che egli frequenta, con cui entra in contatto, con cui soprattutto si siede a mangiare: del resto “dimmi con chi vai, dimmi con chi mangi, e ti dirò chi sei”. 
Quindi, se Gesù va con certa gente di scarto, vuol dire che Egli “sostiene” quella gente, accetta quella gente, “scende a patti ” con essa. E questo, agli occhi delle persone religiose, è decisamente improponibile, scandaloso: “Ma che maestro sei?”.
In realtà, per Gesù, mangiare con quella gente è una manifestazione di grande amore: Dio non tollera, non vuole, che qualcuno si senta discriminato da lui o dal suo amore. Tutti devono sapere che Dio ama tutti, e tutti si devono sentire amati, accolti, riconosciuti, degni dell’amore di Dio, a prescindere dalla loro condotta di vita. Egli frequenta di proposito questi pranzi, proprio per incontrare tutte quelle persone emarginate, escluse, reiette, perché devono sapere che se la società o la religione le esclude, Dio no, Dio le ama, Dio sta volentieri con loro!
Un comportamento il suo che è causa di dure e rabbiose critiche da parte di scribi e farisei.
Per cui dobbiamo pensare che l’invito di Simone il fariseo, non risponda tanto ad un sentimento di “amicizia”, di accoglienza, di amore, quanto ad un pretesto per metterlo alla prova, per trovare nuovi motivi di accusa, per controllare ancora una volta chi sia davvero quest'uomo.
D’altronde i farisei erano i perfetti, gli osservanti, i “super” cristiani di quel tempo. Fariseo infatti significa “separato”: gente quindi che preferiva vivere separata, che si “isolava” dagli altri, dalle folle, per non correre il rischio di contaminarsi. La loro vita era davvero complicata: per ogni cosa, anche la più piccola e insignificante, avevano una regola precisa da osservare, un precetto da eseguire. Per esempio al mattino dovevano scendere dal letto prima con il piede destro, recitare un preghiera, poi con quello sinistro e recitarne un’altra. E poi durante tutto il giorno, continue preghiere, cose da fare, cose da non fare, lavori da fare e da evitare, ecc.
Gesù lotterà tantissimo contro questa mentalità: il succo dei suoi discorsi era che se le regole soffocano il cuore, uccidono l’amore, la misericordia, la tenerezza, vuol dire che sono regole e prescrizioni stupide. Non vengono da Dio ma dagli uomini.
Altro particolare poi che merita la nostra attenzione è la figura di questa donna, di questa “prostituta” che tutti guardano con disprezzo. E qui dobbiamo capire bene cosa significasse la prostituzione per quel tempo, per quel mondo.
Le prostitute di allora non sono in alcun modo assimilabili a quelle dei nostri tempi moderni. Per queste la prostituzione è una scelta libera, anche se talvolta sofferta: per le donne dell’epoca, invece, la scelta era obbligata. Le donne di allora erano decisamente discriminate in tutto. La nascita di una bambina era vista come una grave disgrazia, addirittura come una punizione di Dio. La donna, la bambina, era solo una bocca in più da sfamare, non potendo esercitare, come il maschio, alcuna attività produttiva per aiutare economicamente la famiglia. Era quindi abbastanza normale, ucciderla appena nata: un’usanza, del resto, che permane ancora oggi in India, in Cina, nei tanti paesi in cui le bambine vengono considerate ancora una disgrazia, e quindi anche lì molto spesso soppresse.
Di fronte a tali prospettive, l’unica possibilità di vita per le donne di quel tempo era pertanto quella di prostituirsi.
Ecco perché nella donna del vangelo di oggi, dobbiamo vedere una creatura che noi definiremmo “sfortunata”, una creatura che fin dalla sua più tenera età è stata “allevata” per questa professione, costretta ad essere “gentile” con gli uomini, abituata ad essere vista solo come “oggetto” di piacere. 
Nel suo approccio con Gesù, per lei è quindi naturale servirsi dei gesti tipici della sua professione: lei non conosce altra forma per esprimere il suo affetto, la sua riconoscenza, il suo amore, se non attraverso quell’arte che gli è stata inculcata fin da bambina. Non conosce altro. 
Ma con Gesù, come vedremo, questo “cerimoniale” della poveretta ad un tratto si stravolge: dalla finzione del mestiere, lei passa all'improvvisa constatazione di se stessa, della nullità della sua vita, si rende cioè conto di tutta la drammaticità della sua esistenza di peccatrice. E piange. Si dispera. Chiede perdono.
Per questo Gesù ha subito pietà di lei, la accetta così com’è, a differenza del fariseo che la trova immorale. Gesù non si scandalizza di lei, sa che questa persona non può essere “diversa”, non può vivere in maniera diversa da quella che le ha riservato la sua natura, marchiata dal suo essere donna. Lei non è una che esercita la prostituzione, lei è nata prostituta: questo le ha imposto la società.
Ecco perché Gesù non le chiede di cambiare vita, come ha sempre fatto con le altre “guarigioni”: Gesù non dice a questa poveretta: “Va’ e non peccare più, non fare più la prostituta”. Gesù sa che lei non ha alternative: “Va bene, tu sei così, e io ti accetto così”.
Certo, per noi oggi, ciò è difficile da capire, è troppo lontano dalla nostra mentalità: ma questo atteggiamento di Gesù è assolutamente evangelico.
Ma leggiamo questo vangelo dall’inizio: “Gesù entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola” (Lc 7,36). Letteralmente, “si sdraiò”; secondo cioè l’usanza ebraica e romana: al centro c’era un grande piatto e tutti intorno erano sdraiati. Si reggevano appoggiandosi su un gomito, con i piedi all’esterno della tavola.
“Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città” (Lc 7,37). Viene spontaneo chiederci: “come ha fatto ad entrare una donna come lei in casa di un fariseo?”. Le prostitute giravano infatti solo nei pranzi dei nobili romani, mai assolutamente in casa di un fariseo: i suoi pranzi erano rigorosamente riservati agli uomini.
Sicuramente apparteneva al gruppo di persone che seguivano Gesù, e nessuno l’aveva notata in precedenza. Luca sottolinea molto bene il fattore sorpresa: “ed ecco”; quando cioè tutti hanno preso posto, si accorgono finalmente di lei, ma ormai è troppo tardi, lei è già distesa ai piedi di Gesù. È una prostituta molto conosciuta: nel suo frequente spostarsi in città, doveva aver già visto Gesù che insegnava per le strade, o doveva averne sentito parlare, perché il suo comportamento, tutto quello che fa per Lui, rivela chiaramente il suo grande desiderio di incontrarlo.
“E fermatasi dietro (lett. stando dietro) si rannicchiò piangendo ai piedi di lui” (Lc 7,38).
L’attenzione generale a questo punto è ormai concentrata solo su questa situazione; ma i vari sentimenti sono assolutamente diversi tra loro; come per esempio: sorpresa, stupore, indignazione nel padrone di casa; angoscia, determinazione, tenerezza nella donna; soddisfazione, gioia e approvazione in Gesù.
Con il suo inatteso buttarsi ai piedi di Lui, dimostrandogli un amore vero, autentico, l’esperta peccatrice, che “sapeva amare”, denuncia il grande peccato del fariseo “giusto”: cioè il suo “non saper amare”. Quelli che si proclamano apertamente “giusti”, “retti”, “osservanti”, commettono in genere un gravissimo peccato, il peccato che va direttamente contro Dio Amore: non lo amano con cuore sincero, non lo amano concretamente, non lo amano coerentemente, ma sono tuttavia convinti di essere “giusti”, magari perché ogni tanto fanno delle “buone azioni”. Né più né meno dei farisei.
Anche noi viviamo tranquilli: pensiamo di dimostrare il nostro amore a Dio, limitandoci solo al “fare” senza “l’essere”; ci accontentiamo di qualche preghiera distratta, di elemosine, di messe domenicali “ascoltate”, ma non “vissute” durante la settimana, nella carità del quotidiano. E in questo, anche noi, non siamo molto diversi dai “farisei”.
La donna versa sui piedi di Gesù il “suo” unguento, vuole profumare Gesù: è venuta per questo. Intende regalargli l’olio profumato del suo cuore, segno di gioia, di abbondanza, di amore, di consacrazione. È l’unica persona, fino a questo momento, che offre qualcosa a Gesù, per amore: vuole cioè donare questo suo grande amore a Colui che, dal canto suo, l’ha sempre offerto generosamente a tutti quelli che ha incontrato.
La sua è una decisione che denota grande coraggio e soprattutto una grande umiltà: i suoi gesti usuali, accattivanti e di grande dolcezza, cambiano da subito significato, tradiscono immediatamente questo suo nuovo sentimento, un sentimento che fino ad allora lei stessa non immaginava, questo amore vero, sincero, smisurato che trabocca dal suo cuore, e che improvvisamente si trasforma in un pianto irrefrenabile, un pianto di serenità, di liberazione, di gioia, di amore, con cui lava i piedi di Gesù:; e in segno della sua venerazione, del suo rispetto, della sua gratitudine, glieli asciuga con i suoi lunghi capelli.
Il fariseo vede la scena, e seguendo la sua vera natura ipocrita, coglie l’occasione per continuare a negare tra sé la divinità di Gesù: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice” (Lc 7,39). Egli è scandalizzato, schifato, dal comportamento di entrambi. Il suo disprezzo per la donna è così forte che neppure la nomina: “Chi e che specie di donna...”.
Le persone super religiose sono maliziose e vedono malizia dappertutto: Gesù invece, che conosce bene il profondo, vede nella donna solo il suo gesto d’amore; nel fariseo invece il grave peccato della sua mancanza d’amore.
Chi ha dentro di sé il peccato, o la paura del peccato, lo vede dappertutto; chi cova nel suo cuore dei mostri, o è terrorizzato dal demonio, lo vede dappertutto; chi ha dentro il proprio cuore amore e bontà, li vede dappertutto e li espande in ogni dove. Ognuno vede gli altri secondo i propri occhiali.
Quello che uno dice degli altri, dice molto più di lui che degli altri. Il fariseo ha visto nella donna solo una donnaccia, una prostituta da disprezzare; Gesù ha visto una donna sofferente e pentita da amare e dalla quale accogliere amore. Certo, i gesti con cui lei dimostra il suo amore per Gesù, sono gesti provocanti, seducenti, sono i gesti che ripete tutti i giorni nel suo "lavoro". Ma quei gesti che, in quel contesto, diventavano “prostituzione”, svendita di sé, modo per far soldi, improvvisamente, pur rimanendo uguali, diventano autentici segni di amore: ciò che prima era peccato, ora è diventato amore. Simone che non ama, vede solo i gesti e la condanna. Gesù, che ama, vede il cuore e la assolve.
Questo ci fa capire che nulla in sé è negativo: un contatto, un abbraccio, una carezza, uno sguardo, possono essere segni di amore puro e di alta spiritualità. Come anche il contrario: una preghiera, un’azione religiosa, una parola, un gesto, possono venire da un cuore pieno di odio e di risentimento, di insoddisfazione e di chiusura. È il cuore, è l’intenzione, lo sguardo, che rendono pure e impure le persone e le cose, non i gesti!
Gesù poi, rivolgendosi a Simone il fariseo, racconta una storiella, con cui intende stabilire un criterio fondamentale: non è più importante ciò che abbiamo fatto di negativo, ma ciò che abbiamo fatto di positivo. Non i peccati, ma l’amore: “Sì, Simone, tu sei perfetto, in regola, senza alcuna trasgressione, ma in te non c’è amore, non c’è vitalità, non c’è passione: sostanzialmente sei morto, imprigionato dalla tua paura di vivere. In te non ci sono peccati, tranne quello di non vivere più. Vedi questa donna? È vero, ha sbagliato molto, ma il suo cuore, contrariamente al tuo, sa ancora amare, è vivo, sa piangere, sa chiedere scusa, sa di aver tanto bisogno di amore e di perdono”.
Quando andremo di là, per entrare con Lui nel suo regno, Dio non ci chiederà: “Quali e quanti, peccati hai fatto?”, ma: “Come e quanto hai amato?”. Perché chi vive con la paura di peccare, di sbagliare, di fallire, vive costantemente sulla difensiva: semplicemente non vive, non ama, non si dona.
C’è infatti un unico, grande e vero peccato: quello di non essere più capaci di amare, quello di diventare secchi, aridi, giudicanti, così arrabbiati dentro, da non sapere più neppure cosa siano la tenerezza, la compassione, l’affetto, il sorridere, il giocare, il lasciarsi andare, la passione, la gioia per la vita, l’amore per gli altri.
“L’uomo guarda le apparenze; il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7). Quando Gesù doveva scegliere i suoi apostoli non guardava all’esterno, a cosa facevano, a come apparivano: tant'è che Giacomo e Giovanni avevano un caratteraccio, Matteo era un ladro; Giuda un approfittatore che poi finisce per tradirlo; Simon Pietro, l'eterno indeciso, era un pusillanime; l’altro Simone era un Cananeo, una “testa calda”. Un bel manipolo di persone con mille problemi, mille debolezze; ma Gesù guardava al loro cuore: “Questo qui, sa amare?”. Se la risposta era: “Sì”, allora aveva tutte le carte in regola per seguirlo.
Saper amare. Ecco perché la prostituta del vangelo di oggi deve essere di esempio per tutti noi: un esempio per tutti quei cristiani che si riconoscono peccatori, bisognosi di perdono, ma con tanta voglia di amare e di essere amati. Amen.



martedì 31 maggio 2016

5 Giugno 2016 – X Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei». (Lc 7,11-17).

Contare su un Dio misericordioso è il tema ricorrente in quest’anno giubilare della “misericordia”; un tema che il vangelo di oggi affronta in un meraviglioso contesto,con il quale Luca, in esclusiva assoluta, ci racconta la risurrezione da morte di un ragazzo, fatta da Gesù, mentre veniva portato fuori dalle mura della città per essere sepolto.
Il vangelo è apparentemente semplice: c’è una donna della cittadina di Nain, vedova, cui improvvisamente viene a mancare l’unico figlio. Arriva Gesù e nella sua misericordia le riporta in vita il giovane.
Un miracolo come tanti altri: anzi, neppure tanto originale, visto che già nell’Antico Testamento, quindi molto tempo prima di lui, Elia (1Re 17,17-24) ed Eliseo (2Re 4,32-37), compirono ciascuno un miracolo analogo. C’è da dire però che tra l’operato dei due profeti e quello di Gesù, c’è una differenza sostanziale: poiché i profeti agivano come “intermediari di Dio”: essi non agivano in virtù della loro forza, del loro potere, ma era Dio che agiva per mezzo loro, per cui dovettero pregare Jahweh molto intensamente, perché lui operasse il miracolo; Gesù al contrario non è intermediario di nessuno, egli è Dio e se vuole operare miracoli, non deve pregare nessuno;Egli opera e guarisce in forza della sua stessa forza. Inoltre, un’altra differenza importantissima sta nelle motivazioni dei miracoli: mentre il testo dell’Antico Testamento ha lo scopo di evidenziare la “potenza” di Dio, il testo di Luca vuole invece sottolineare la sua “misericordia”, la misericordia di Gesù, del “Signore”, come egli appunto lo chiama qui per la prima volta.
Siamo nel capitolo settimo del suo vangelo: Gesù, in tale contesto, è particolarmente impegnato a dimostrare a tutti la straordinarietà della sua missione: è di poco prima infatti la guarigione del servo del centurione che “stava” per morire; qui resuscita addirittura un bambino già morto. Opere straordinarie che inducono la gente a vedere in lui l’inviato di Dio, quel “messia”, che tutti aspettavano da tempo immemorabile. Tant’è che il Battista stesso, come sappiamo dal seguito del vangelo di oggi, venuto a conoscenza di “tutte queste cose”, manda due suoi discepoli a chiedere direttamente a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Lc 7,19). E Gesù risponde appunto: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito” (Lc 7,22). Le azioni, i fatti, più che le tante parole, sono determinanti per giudicare una persona.
Ma entriamo nel vangelo propostoci oggi dalla Liturgia. “Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e una grande folla” (Lc 7,11).
Dobbiamo riconoscere che Luca è un artista. Gli bastano pochi tratti per dare profondità e senso al quadro che si accinge a dipingere. Egli attira immediatamente la nostra attenzione su due situazioni opposte, precisamente su due “processioni”, che si incrociano alla porta della cittadina di Nain: mentre il primo corteo, al seguito di Gesù, è quello della “vita” che si appresta ad entrare, l’altro, quello che sta uscendo dalla città per accompagnare la vedova alla sepoltura del figlio, è la processione della “morte”. Il contrasto tra Gesù-Vita e popolo-morte, fa dunque qui da premessa. Ma fermiamoci un momento sul simbolismo, sul significato che possiamo dare a questo testo di Luca, magari tenendo d’occhio le tante situazioni analoghe della nostra società contemporanea.
Anche oggi non è raro veder portare dei giovani alla sepoltura. O per malattia che stronca inesorabilmente senza contare gli anni, o per sempre più irragionevoli morti giunte improvvise per incidenti o disgrazie, oppure cercate nella follia della droga o addirittura nel suicidio.
Nessuno si abitua a questi drammi. Ogni morte di un giovane, per qualunque motivo, scuote la coscienza di tutti. Giovinezza vuol dire pienezza di vita, possibilità di utopie e sogni, di fantasie, di meraviglie da costruire: di vocazioni tutte da spendere.
Si nota nei funerali dei giovani una partecipazione che difficilmente si ha per altre età.
E su tutti cala una tristezza che sconfina nella disperazione. Difficile dire parole in quella circostanza. Mai come in questi momenti la vita viene esaltata.
Un corteo funebre esce dunque dalla città: un fatto che fa pensare ad una analogia piuttosto interessante, che porta ad alcune considerazioni: la città rappresenta la figura materna; dalle sue mura, dal suo grembo, esce un bambino morto.
La madre cioè non è riuscita a farlo crescere, non ha voluto renderlo autonomo, non ha voluto che camminasse sulle sue gambe, che uscisse dalla sua influenza iperprotettiva. Tra i due è nata una relazione di esclusiva simbiosi: la madre, evidentemente, non disponeva di una sua vita propria, era il figlio che costituiva tutta la “sua” vita. Ma se è il figlio a dar vita alla madre, egli automaticamente perde la sua di vita, e non avendo più una vita, muore.
Ma perché questo figlio avrebbe “dato la sua vita” alla madre? Perché si sarebbe “spersonalizzato” fino a questo punto? Ce lo dice il testo: era“Figlio unico di madre vedova” (Lc 7,11). C’è da dire che essere “vedova” a quei tempi, significava trovarsi in una condizione veramente miserevole: una vedova, in Israele, non aveva alcun diritto, alcun riconoscimento civile, non poteva neppure lavorare per guadagnarsi da vivere. L’unico quindi che può difendere quella madre è suo figlio; l’unico che le può dare dignità, l’unico che può darle valore e sostentamento. Quel figlio è “tutto” per lei: le fa da marito, da compagno, da amico; le da sicurezza, giustizia, protezione: tutti quei riconoscimenti che nessun altro può darle.
Per cui quel figlio è “tutto” per la madre: egli non ha una vita “sua”, vive solo per lei.
E per questo muore. Muore perché invece di ricevere vita dalla madre, è lui che deve darla a lei. E senza vita non si può che morire dentro. Nessun figlio può dare la vita ad un genitore. Sono i genitori che danno la vita ai figli, non il contrario!
Qui però notiamo anche una nota particolare: “Molta gente della città era con lei” (Lc 7,11).
È una nota molto interessante. Perché quell’essere con lei non indica soltanto una presenza fisica ma anche un “andare” con lei, un pensare cioè come lei, un condividere il suo comportamento, ritenerlo giusto, doveroso, sacrosanto.
Avranno sicuramente raccomandato al figlio: “Guarda che tu sei tutto ciò che tua madre può avere, sei il bastone della sua vecchiaia; il suo sostentamento: tua madre vive solo per te; se tu non fossi nato, lei sarebbe sicuramente morta”.
In pratica vediamo che l’ambiente circostante non fa altro che sottolineare, approvare in pieno il comportamento della madre e, conseguentemente quello del figlio, a condizione che lui la assecondi, a condizione cioè che lui viva per la madre, che rinunci alla sua vita per lei.
È evidente che se tutto il suo vicinato si comporta in questo modo, per il figlio diventa difficile, anzi impossibile, ribellarsi a questa mentalità.
Ma a questo punto arriva Gesù. E osserviamo attentamente quello che fa.
“Vedendola ne ebbe compassione” (Lc 7,12). Egli vede la madre e prova compassione per lei. Non prova compassione per il figlio morto, ma per la madre. È la madre che ha bisogno di amore, di compassione, di aiuto, di una cura energica; è lei che deve “guarire”. Per cui, da questo momento, tutto ciò che Gesù fa, lo fa per lei, per la madre, non per il figlio. I suoi gesti, le sue parole, sono esclusivamente per lei. Che il figlio risorga, dipende da lei: infatti egli “risorgerà” solo se la madre cambierà radicalmente mentalità, se farà in se stessa delle modifiche sostanziali, dei cambiamenti, delle trasformazioni radicali.
Prima di tutto, dunque, Gesù “vede”: i suoi sentimenti, la sua misericordia, la sua tenerezza, il suo sentimento d’amore, gli nascono dentro proprio perché “vede”. Ma vede non perché ha gli occhi, ma perché lungo la strada si lascia “toccare”, si lascia “colpire”, si lascia coinvolgere da ciò che lo circonda. Gesù non guarda soltanto, Egli “vede” e “sente”. È attento, un osservatore consapevole.
Noi spesso guardiamo, ma non vediamo: l’immagine si ferma sulla nostra retina ma non arriva nel nostro cuore. Non abbiamo cioè motivazioni per agire, emozioni che ci mettano in movimento. E per questo non facciamo nulla.
Gesù invece non ha paura di essere “scombussolato dentro”, di lasciare che quello che vede lo “commuova” profondamente. Gesù non “rimuove” l’emozione. La sua forza è nel suo sentire, nei sentimenti che egli vive. È questo che poi lo porta ad agire.
Luca evidenzia in altri due passi lo stretto legame che esiste tra “vedere” (orao) e “avere compassione” (splanchnizomai): lo fa nella parabola del buon Samaritano che vede il ferito abbandonato per strada e ne ha pietà (Lc 10,33), e in quella del padre misericordioso che vede da lontano il figliol prodigo ed è mosso a compassione (Lc 15,20).
Anche questi due brani sono riportati esclusivamente da Luca, che ci rende la vera immagine del Dio misericordioso, preso da passione per l’uomo, suo figlio ferito, perduto, morto.
Con la vedova di Nain come si comporta Gesù? Vediamolo nei particolari:
1) “Non piangere”. È l’invito che rivolge alla madre in lacrime, oppressa dal dolore. Ella piange per la separazione dal figlio. Ma forse il suo pianto è anche una richiesta di aiuto: è un chiedere qualcosa, un po’ come fanno i bambini, che improvvisamente le è stato tolto e che nessuno può più restituirle. Ma allora, il suo è un pianto di una donna o di una bambina?
Non è che questa vedova piange per la sua attuale condizione: “Che ne sarà di me? Chi penserà a me? Come farò senza di lui? Lui era tutto, tutta la mia vita: e ora?”. Forse non sono lacrime di un addio, ma lacrime di collera per l’impossibilità di continuare a tenere il figlio legato a sé.
In pratica Gesù le dice: “Smettila di piangere, non fare la bambina! Smettila di pensare, attraverso lui, soltanto alla tua persona. Tu non puoi dipendere esclusivamente da lui!”.
2) “Toccò la bara”: bisogna toccare ciò che è morto, ciò che non può più esistere, ciò che non è più vitale. Bisogna toccare, cioè mettere mano, a tutti quei comportamenti che ci distruggono, che ci imprigionano, che si soffocano, che ci ingabbiano. Anche se non è bello.
Facendo questo, Gesù entra là dove la vedova non vuole entrare: deve cioè imparare che questo “suo” figlio non è suo, e che quindi deve andare nella vita con le sue gambe.
3) “Ragazzo, dico a te, alzati”; al figlio in pratica dice: “svegliati, devi imparare un nuovo comportamento , c’è un passaggio che devi fare. Non puoi fare come prima: perché fare come prima vuol dire morire. Esci dalla tua illusione: tu vivi in funzione di tua madre, sei ancora legato a lei. “Alzati”, corrisponde a: “Levati in piedi” (era disteso), cammina con le tue gambe, smettila di farti portare dagli altri, cioè smettila di farti dire dagli altri (madre e ambiente) cosa sei, cosa devi fare, come devi comportarti, cosa devi pensare, cosa è giusto e cosa no, ecc. Diventa grande, prendi in mano la tua vita, muoviti sulle tue gambe.
4) “Il morto si mise seduto e cominciò a parlare”: Ora finalmente parla! Quindi prima non parlava. Ma chi è che lo zittiva? Chiaramente la madre (c’era solo lei!): “Guarda quanto lavoro per mandarti a scuola; non vedi i sacrifici che faccio? Non uscire questa sera perché mi sento sola; quando avrai la mia età, capirai”.
C’erano sempre i suoi pensieri, i suoi problemi, prima di quelli del figlio. L’attenzione era tutta su di lei: il figlio non aveva “voce”, non aveva spazio. Tutto veniva visto in funzione della madre, dei suoi bisogni e delle sue paure.
Ma ora c’è anche lui: anche lui ha i suoi desideri, le sue passioni, i suoi gusti, i suoi punti di vista. Ora c’è anche lui, e lei deve capirlo.
5) “Lo restituì a sua madre”: a questo punto Gesù restituisce alla madre un figlio vivo, non uno morto. Ma perché questo figlio ora è vivo mentre prima era morto? Cos’è che fa ora di diverso rispetto a prima? Si è alzato, vuol camminare sulle sue gambe: non è più, cioè, un bambino “mangiato, ingoiato” da sua madre, ma un piccolo uomo che sta iniziando a pensare con la sua testa, a scegliere con la sua mente e a vivere in funzione di sé, dei propri desideri, non di quelli di sua madre.
Questo figlio che torna alla madre non è più quello di prima: è un altro. La madre non lo perde (ce l’ha ancora) ma “lo perde”: il rapporto non sarà più quello di prima.
Così anche noi se non sappiamo “perdere”, cioè se non lasciamo andare i nostri figli, li perderemo, finiremo per rovinar loro la vita.
Prendiamo per esempio Maria, che ha dovuto “perdere Gesù” per “averlo”, per consentirgli cioè di seguire fino in fondo la sua missione.
Nelle culture antiche ad un certo momento i ragazzi venivano presi dai padri e portati nella foresta per confrontarsi con i pericoli e gli animali. Era un’esperienza difficile, pericolosa e tremenda. Ma perché? Perché essi avevano bisogno di “tirare fuori” il loro coraggio, il loro ardore, la loro libertà, la loro forza. Una madre non può bastare per suo figlio: può dargli l’amore (e questo è tantissimo) ma non può dargli tutto ciò di cui ha bisogno.
C’è un famoso proverbio che dice: “Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, la gazzella si sveglia, e sa che dovrà correre più veloce del leone per non rimanere uccisa. Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, il leone si sveglia e sa che dovrà correre più veloce della gazzella, o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, non importa che uno sia leone o gazzella, deve comunque incominciare a correre”. Questo in sintesi è il comando che Gesù rivolge oggi anche a noi: “Alzatevi; muovetevi, correte e smettetela di piangervi addosso!”. Amen.