mercoledì 13 gennaio 2016

17 Gennaio 2016 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché effettivamente Gesù era un uomo che viveva, che banchettava, che festeggiava: non era un’asceta, un eremita, una persona scostante: ma era uno che condivideva volentieri con la sua gente i momenti belli della vita. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, del piacere, dell’ebbrezza della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio. Dio vuole per ogni uomo gioia e felicità. Dio ci vuole felici. Perché allora farne un Dio serio, severo, che pretende da noi solo penitenza, sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nelle formalità, nel trattenerci, nel chiuderci, nel rinunciare a tutto per non peccare. Egli è il Dio della vita, delle persone appassionate, di coloro che osano e vivono intensamente.
A questo matrimonio di Cana c’era anche la madre: in Giovanni la madre di Gesù compare qui, all’inizio del suo ministero, e alla fine della sua vita pubblica, sotto la croce. La vita di Gesù fu, per Giovanni, lontano dalla madre: si staccò da lei, visse la sua vita e fece le sue esperienze. Maria però pur nell’assenza rimase sempre presente; la ritroviamo infatti ai piedi della croce. Sembra essere questo il ruolo di ogni genitore: non immischiarsi nella vita del figlio, lasciarlo andare, ma essere sempre presente nel momento del bisogno, della necessità. Il figlio sa che lui, il genitore, c’è e ci sarà. Per lui è un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un luogo dove sarà sempre accolto. In questo sta il vero amore genitoriale: un amore maturo, di chi ama senza pretendere un ritorno immediato d’amore da parte del figlio, di chi ama in maniera incondizionata, di chi ama cioè senza l’aspettativa di essere corrisposto.
Durante questa festa di nozze, improvvisamente, viene a mancare il vino. È Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima l’imbarazzo dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”: parole semplici che, lasciando trasparire la preoccupazione di evitare l’imbarazzo degli sposi, sottendono un intervento immediato di Gesù.
Sensibilità di madre, che si ripete anche in quella festa di nozze alla quale Dio invita singolarmente l’umanità intera: è sempre Maria che si pone come intermediaria tra Dio e la nostra situazione deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare queste nozze, ma non possiamo. Siamo “vuoti”, non abbiamo più il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Non c’è più gioia nella nostra vita, non c’è più sapore nelle nostre giornate. Così, quando incontriamo certi volti segnati dalla tensione e dalle rughe della chiusura interiore, dobbiamo purtroppo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”. Quando ascoltiamo certe prediche su Dio, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, passione, energia dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando la chiesa è impegnata solo a difendere, a porre limiti su cosa non bisogna fare, a limitare la creatività, quando soffoca le sue voci trasmettendo paura e ansia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando vediamo certe coppie che trascinano nella routine il loro matrimonio, senza alcuno slancio ma con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone non provano più nessuna commozione, non si stupiscono più, quando sono diventate ciniche su tutto, abituate a tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c’è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c’è più vino”. In tal caso, dobbiamo ascoltare la voce della Madre, che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. E noi facciamolo veramente, fidiamoci di Lei e delle Parole di Gesù.
Anche i servi di Cana si sono fidati: hanno fatto una cosa stranissima, pazzesca per quel tempo, hanno riempito dei contenitori con circa 600 litri d’acqua! Un’enormità! Nella vita dobbiamo fidarci e af-fidarci a qualcuno: noi abbiamo i nostri avvocati celesti; facciamo bene tutto quello che ci dicono, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano.
A volte non capiamo ciò che la vita ci propone; anzi capiamo benissimo, ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta là dove non vogliamo andare, e poiché non ne capiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che è insensato scalare certe montagne, quando possiamo stare tranquillamente in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte la vita ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché la salvezza sta nel fidarsi, la Vita non sbaglia mai. Fidiamoci una buona volta, e lasciamoci portare: e finché andiamo, gustiamoci il viaggio, sicuri di essere al sicuro.
Del resto le giare “di pietra” significano una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata; una vita che si è sclerotizzata nei soliti rituali, che manca di un respiro più ampio, diverso, che va oltre; è come quando un uomo trascorre giornate prive di gioia, di gusto, di sapore: vive, ma senza senso. Le giare “di pietra” rappresentano l’irrigidimento delle nostre devozioni, delle nostre regole religiose; indicano le nostre abitudini ormai desuete, le nostre vecchie consuetudini, con il gusto dell’acqua stagnante, imbevibile; indicano certe pratiche religiose, stantie e ripetitive, che non trasmettono più nessuna vitalità, nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Le ripetiamo solo per abitudine, perché solo ciò che conosciamo non ci fa paura.
Purtroppo la routine, la quotidianità, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l’amore. Se non c’è uno slancio più grande, se non c’è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c’è la ricerca del nuovo per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. E noi moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e rimaniamo sempre gli stessi. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l’amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, non frequentiamo nessun incontro dal respiro più ampio, dagli orizzonti più grandi, che ci faccia toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere, di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo, perché ci costa un po’ di fatica o un po’ di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente davanti alla tv, al bar a fare i soliti quattro discorsi da osteria, tra gli amici, nella ripetitività dell’agire e delle chiacchiere. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci delle “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, che vorrebbe riempirci della vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo infame, a questa società depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto, perché crediamo come abbiamo sempre creduto.
È una morte che arriva lentamente e inesorabilmente, non all’improvviso. Alcune persone vive, sono già morte; altre sono in fin di vita; altre presentano serie malattie di morte; l’anima soffre e piange, ma pochi se ne accorgono. Per morire basta non far nulla, trascinarsi, rinunciare.
Ogni giorno, ogni mattina, quando ci alziamo, dobbiamo decidere se vivere o se, lentamente ma inesorabilmente, lasciarci morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, possa ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere deve essere una dimensione del nostro vivere. La vita non deve essere altro che un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione.
In noi, nella nostra anima, può esserci di tutto: ogni cosa ha un suo significato profondo, niente è male in sé, perché tutto può essere trasformato. Nulla deve essere eliminato o nascosto, anche se apparentemente è oscuro, cattivo, debole, infermo, perché tutto ha un senso e la possibilità di venire trasformato. Nulla deve essere eliminato: qualunque cosa di negativo ci sia successa, non dobbiamo tenerla nascosta, non dobbiamo vergognarcene, perché abbiamo la grande possibilità di trasformarla in bene. Non esiste nulla che sia male in assoluto, perché tutto può essere trasformato in qualcosa di unico, di prezioso, di vitale. Se guardiamo alle nostre ferite, alle nostre fragilità, ai nostri legami malsani, ai nostri limiti, scopriamo che, se trasformati, possono diventare la nostra ricchezza e la nostra forza. L’eucarestia stessa è una trasformazione: un po’ di pane e di vino vengono trasformati nel corpo e sangue di Cristo. Perché allora crediamo a questo, e dubitiamo invece del fatto di poter trasformare la nostra vita, o l’ambiente in cui viviamo?
“Cana” ci invita a cercare più in profondità dentro di noi, su altri livelli, a penetrare all’interno del nostro vivere quotidiano, spesso vuoto e insipido. La trasformazione dell’acqua in vino, ci invita a trovare un’ebbrezza nuova, una gioia, un’estasi profonda. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa che dia un nuovo sapore a tutte le cose.
Possiamo però vivere in questa prospettiva soltanto se siamo capaci di passare da un orizzonte ad un altro: dall’orizzonte del materiale a quello dello spirito; dall’orizzonte della carne a quello dell’anima; dalla superficie alla profondità, dal fuori al dentro.
La coppia nuziale di Cana ci rivela, in conclusione, il segreto di ogni rapporto e di ogni unione: l’essere cioè capaci di cambiare, di modificarci, di evolvere. Se un matrimonio avrà questa capacità e questa elasticità, se saprà non fossilizzarsi su posizioni statiche, se avrà la forza del nuovo e della crescita, diventerà un paradiso d’amore; altrimenti sarà l’inferno dell’amore. Amen.



giovedì 7 gennaio 2016

10 Gennaio 2016 – Battesimo del Signore

«Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco»( Lc 3,15-16.21-22).

Il vangelo di oggi ci presenta il Battesimo di Gesù. Gesù certamente è stato battezzato dal Battista. Ma per Gesù non è stato tanto importante il battesimo, in quanto tale, ma ciò che questo gesto faceva capire: il perdono, la guarigione, la Buona Novella.
Quindi non è tanto importante il gesto ma il senso del gesto.
Il Battesimo rappresenta infatti il punto di svolta della vita di Gesù: dopo non sarà più come prima. Egli aveva aderito al progetto del Battista: “Dio viene, fatevi battezzare come segno del vostro cambio di vita”. Quindi anche lui va a farsi battezzare. Ma poi, attraverso la voce del Padre che lo conferma pubblicamente come suo Figlio, Gesù sperimenta qualcosa di unico: Dio non è come dice il Battista. Dio è amore. Dio non vuole “qualcosa” per darci amore (sia esso sacrifici, battesimo, penitenza, ricambio, purità, ecc.). Dio ci ama... e basta. Anzi, Dio ci rincorre per amarci. È questa esperienza che lo distacca dal Battista: di Dio non c’è motivo di aver paura.
Da questo momento, Gesù andrà per la sua strada: sarà un Dio totalmente diverso da quello del suo maestro: Egli seguirà il suo progetto, che è quello di portare a tutti quell’amore che Lui stesso ha toccato, vissuto, sentito, sperimentato. E non farà nient’altro che questo per tutta la sua vita.
Noi stessi, quando avremo fatto “esperienza” di Dio, quando avremo sperimentato il battesimo di fuoco, quando cioè saremo completamente innamorati di lui, quando saremo inebriati di lui, quando avremo perso la testa per Lui, capiremo qualcosa di chi lui sia veramente. È un’esperienza, un incontro che dobbiamo vivere: Dio è uno dal quale, una volta che ci è entrato dentro, che ci è penetrato nel cuore, nell’anima, non potremo più liberarci; un qualcuno senza il quale non potremo più vivere.
La descrizione del battesimo di Gesù, fatta da Luca, ci sottolinea alcuni particolari che acquistano un significato altamente simbolico: come per esempio i cieli che si aprono, lo Spirito con sembianze di colomba, la voce che viene dal cielo. Esaminiamo brevemente queste tre immagini:
“Il cielo si aprì” (Lc 3,21): il verbo greco non significa esattamente aprirsi, ma svelare qualcosa di nascosto, aprire, rompere, squarciare un qualcosa che è chiuso. La differenza tra “aprire” e “squarciare” è infatti notevole: nel primo caso, con “aprire”, ciò che si apre si può anche richiudere; con “squarciare”, invece, significa che una volta lacerata, squarciata, quella cosa non si può più richiudere, non si può più ricomporre.
Prima di Gesù i testi sacri dicevano che “Dio si è indignato per i peccati del popolo e ha sigillato la sua dimora (i cieli sono la dimora di Dio)”: il che, in pratica, equivaleva dire che Dio, di fronte alle colpe umane, staccava la spina e chiudeva ogni comunicazione con il suo popolo, lasciando tutti in balia di loro stessi. Con Gesù invece i cieli si sono aperti e non si chiuderanno mai più. Sono aperti per sempre. Dio ha smesso di offendersi, di isolarsi da noi a causa dei nostri tradimenti; e questo, pur dimostrandogli di non cambiare mai, di essere inaffidabili, commettendo sempre gli stessi peccati. Lui è fedele: Lui rimane sempre ad aspettarci, pazientemente; continua sempre a rimanerci vicino, in una incessante comunicazione d’amore.
Il Dio di Israele era un Dio nascosto, velato, con un nome impronunciabile; ora, con l’epifania battesimale, Dio ci fa vedere, attraverso suo Figlio, chi è veramente: un Dio che è amore, un Dio immensamente buono, misericordioso, che vuol continuare, nonostante tutto, a comunicare con gli uomini. Il Dio di Israele diceva: “Hai ucciso: meriti di morire! Hai peccato: sei indegno; hai tradito la mia fedeltà: sei fuori!”. Il Dio di Gesù dice: “Io sono l’Amore. Sono qui per amarti. Non sono qui per giudicarti ma per giustificarti. Questo è il mio unico compito”. Leggiamo infatti: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
La seconda immagine: “E scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba” (Lc 3,22). Qui lo Spirito (pneuma) scende su Gesù, e rimarrà in lui fino alla fine della sua vita terrena: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo emise lo Spirito (ek-pneuma)” (Lc 23,46). In altre parole, lo Spirito scende su Gesù nel suo battesimo per rimanere in lui durante tutta la sua vita: una volta in croce, Egli lo riconsegnerà al Padre, perché lo metta a nostra disposizione: il suo riconsegnarlo, il suo “e-metterlo”, è semplicemente un passarlo a noi, un passare cioè a noi la sua capacità di amare. L’uomo, che nel peccato aveva incontrato la morte corporale, ora in Gesù, nel suo Spirito, ritorna a Dio: la morte finisce per lasciare spazio alla Vita; in Gesù e con Gesù, noi siamo divini, siamo eterni, siamo senza fine: passiamo dalla vita terrena alla vita divina. Nulla si perde; il bene e l’amore rimangono. L’amore, se è vero amore, rimane per sempre. La gioia, il bene, la compassione, la tenerezza, l’aiuto, la gratuità, la condivisione vera, la fratellanza, l’amicizia, il sostegno, ecc.: niente di tutto ciò andrà perduto. Mai.
Lo Spirito si rivela in “forma di colomba”: è proverbiale infatti l’attaccamento, l’amore della colomba, per il proprio nido: in Gesù lo Spirito scende e, come la colomba, rimane attaccato a lui per sempre. Gesù è la dimora perpetua, perenne, dello spirito, della forza di Dio.
Poi il vangelo ci presenta la terza immagine, la voce: “Vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22).
Questo stesso termine (phoné) lo ritroveremo alla fine, nella scena della crocifissione, quando Gesù gridando a gran “voce” (phoné) disse: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Con la voce lo Spirito scende su Gesù; con la voce lo Spirito ritorna al Padre. La discesa dello Spirito significa che Gesù e stato consacrato e costituito da Dio come Re: Egli è il Messia, l’atteso, il Figlio di Dio: il Padre lo sostiene contro i suoi nemici, e con questa voce dal cielo, gli dichiara un amore senza limiti. “Figlio”, nel contesto ebraico, non significa soltanto chi è nato da qualcuno, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Se Gesù viene chiamato figlio è perché assomiglia al Padre, ci fa cioè capire chi è il Padre. Dio, di cui nessuno sa niente, che nessuno ha visto, che nessuno conosce, è come Gesù. Guardando Lui possiamo capire un po’ chi è Dio.
Se Gesù nei vangeli era un “portatore di vita”, Dio non può che esser così. Se Gesù era uno che comunicava vita a tutti, indipendentemente dalle risposte che riceveva, Dio è esattamente così. Dio pertanto è Vita, e vuole che noi viviamo al massimo delle nostre possibilità, vuole che viviamo sempre “alla grande”. Vuole che amiamo con tutta l’ampiezza del nostro cuore. Vuole che conosciamo tutta la verità che possiamo. Vuole che ci realizziamo e che diventiamo il meglio di ciò che possiamo essere. Perché “Io sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza” (Gv 10,10).
Amen.


mercoledì 30 dicembre 2015

3 Gennaio 2016 – II Domenica dopo Natale

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1-18).

Il vangelo che la Liturgia ci propone questa Domenica, è il brano più profondo e difficile di tutti i Vangeli. Alcuni studiosi hanno passato la loro vita a studiarlo; S. Giovanni Crisostomo o anche Sant’Agostino hanno detto che è un vangelo che va al di là della comprensione umana.
In principio c’era il Verbo: in greco Logos, un termine che ha due significati: Progetto e Parola. Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”. Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni afferma che Dio, prima di creare ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, un’idea. Questo significa che noi non siamo qui per caso; siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi; pensate: noi, creature insignificanti, facciamo parte del Progetto di Dio. Se così non fosse, noi neppure esisteremmo. Ma ci siamo, e siamo qui per un motivo ben preciso... e visto che Dio ci ha creati, il motivo deve essere davvero importante. In altre parole Dio ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori neppure ci volevano... magari la gente ci rifiuta e ci respinge... magari noi stessi non ci vogliamo, non ci piacciamo, ci facciamo schifo... ma Dio ci ha voluto, e continua a volerci, perché gli serviamo per attuare il suo Progetto. Che aspettiamo allora a dargli una mano?
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi facciamo a Dio è quello di vivere. Lui vuole questo da noi. “Io sono venuto, perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”. In pratica dobbiamo vivere, rischiare, metterci in gioco: chi espone le proprie idee, rischia di mostrare a tutti i propri sentimenti, il proprio io intimo; chi ama, corre il rischio di non essere corrisposto; chi vive corre il rischio di morire; chi spera, corre il rischio della disperazione, chi tenta corre il rischio di fallire. Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è quello di non rischiare nulla. Colui che non rischia nulla, è un nulla e non diventerà mai che un nulla. Può evitare la sofferenza e l’angoscia, ma non può imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è uno schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita, come ho detto, è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta è il nostro dono a Lui: una vita sprecata è il più grande peccato. Cosa aspettiamo allora a vivere? Non diamo anni alla vita, ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo luce che risplende nelle tenebre. L’uomo che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, è vita, è luce; non dice luce che lotta, ma semplicemente luce che splende, luce cioè che brilla, libera, senza subire costrizioni e senza costringere nessuno.
Ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5). Naturalmente le tenebre odiano la luce, non la vogliono: qui Giovanni allude alle autorità religiose. Infatti esse “sono dei morti” che vivono, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Avrebbero dovuto portare la luce e invece...
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 19,9). La luce vera, Gesù, il verbo incarnato, è venuto nel mondo. “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita”.
Gesù-Vita è quindi la vera luce che illumina ogni uomo: facciamo però attenzione a non prendere abbagli, perché il potere (orgoglio, superiorità, mancanza d’amore, rigidità, ecc) non può conoscere Dio.
Anche coloro che si lasciano incantare da altre luci, diverse dalla Luce vera, sono comunque “divini”, sono cioè fatti, impregnati di Dio; ma poi si sono, come dire, dimenticati di chi sono veramente, si sono dimenticati che hanno l’impronta di Dio nel loro cuore e vivono non riconoscendolo e non riconoscendosi più. Che tristezza: essere dei re e vivere come degli schiavi!
“A quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.
Ecco, questo è il progetto originario di Dio per ognuno di noi: che noi diventassimo suoi figli.
Noi abbiamo imparato che l’uomo è fatto per servire Dio, che Dio è sopra e l’uomo è sotto, è il suo servitore, che è meglio ubbidirgli perché Dio è potente e se non stiamo attenti ci punisce con l’inferno o con qualche castigo.
In realtà non è così: noi non siamo i servi di Dio ma siamo i serviti da Dio. Vi ricordate la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20)? È Dio che serve l’uomo e non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, sacrifici per lui: è Lui che è venuto a portare il suo servizio e l’amore a noi. La fede non è più quello che noi facciamo per Lui, ma quello che Lui fa per noi.
Noi non siamo figli di Dio per nascita, ma lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). I figli di Dio sono pertanto quelli che sono stati generati nell’amore e vivono nell’amore. Non con preghiere, digiuni o sacrifici, lo ripeto, ma con l’amore. Amore: questo, e questo solo, Lui ci chiede.
Questa di Giovanni è una teologia “trasgressiva”: Dio non è più nelle chiese, in un posto prestabilito, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”. Dio non è più fermo, fisso in un luogo, come lo era nel Tempio, ma in cammino, in un continuo cammino insieme alla gente. Dio non è più un luogo (tempio), ma un tempo (kairòs): perché nell’istante stesso in cui c’è l’amore, lì c’è Dio.
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). “Nessun uomo può vedere Dio!”, era la convinzione degli antichi israeliti; a Mosè, che ad un certo punto chiede al Signore: “Mostrami la tua Gloria”, Dio gli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18-20). Ma con Gesù questo non è più vero: Dio non è invisibile; Gesù stesso dirà: “Dio si vede... Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui.
Sulla vetta di un’alta montagna delle Dolomiti, ricordo un cartello che diceva: “Non cercare Dio, ci sei immerso”. Lui infatti era lì... bastava guardarsi attorno!
In Gesù, “unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi non è Gesù che è come Dio, ma è Dio che è come Gesù. E allora, se vogliamo sapere chi è Dio, guardiamo, imitiamo, diventiamo, come Gesù. Tutto ciò che Gesù non è, non viene da Dio. La caratteristica di Dio, invece, è quella di essere “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): una forma che si può tradurre con “pieno di amore e di verità” oppure con “pieno di amore vero”. Perché Dio è così: Egli ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi ce ne andiamo o lo tradiamo.
Ancora oggi molte persone temono di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile per Dio, di essere indegni di Lui...: ma Lui non è così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre! “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Ricordiamolo in questo giubileo della Misericordia: l’amore di Dio non tradisce mai, non viene mai meno, neppure di fronte alle nostre più oscure cadute. Amen.



giovedì 24 dicembre 2015

27 Dicembre 2015 – Santa Famiglia

«Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,41-52).

Luca, nel vangelo di oggi, ci presenta la prima e unica volta in cui Maria parla a Gesù. Egli, tra l’altro, è l’evangelista che più esalta Maria: ebbene, l’unica volta in cui Maria parla a Gesù si deve sorbire un duro rimprovero.
La Liturgia ci presenta questo vangelo a modello della festa della Santa Famiglia, ma a dire il vero più che una santa famiglia sembra una famiglia un po’ scombinata. È un episodio in cui nessuno ci fa una bella figura.
Non ci fanno bella figura i genitori che perdono il figlio e non se ne accorgono! Se ne accorgono dopo una giornata di cammino: ma come si fa!
Non fa una bella figura Gesù: “Volevi rimanere a Gerusalemme? Potevi almeno avvisarci!”, gli dicono giustamente Maria e Giuseppe. E quando i genitori lo trovano dopo tre giorni gli dicono: “Eravamo angosciati, ti cercavamo! Perché ci hai fatto questo?”, Gesù sembra non capire, e li rimprovera: “Perché mi cercavate?”. Poi li tratta da impreparati: “Non sapevate che devo fare le cose del Padre mio?”.
Non fa una bella figura Giuseppe che non vede rispettata la sua autorità di padre né da parte di Gesù (“Cosa vuoi da me!”) ma neppure da sua moglie visto che è lei che interviene, togliendogli la parola (era solo il padre che aveva l’autorità per parlare).
Inoltre, l’unico che ha un nome è Gesù: si parlerà di padre e di madre, di genitori ma non saranno mai nominati né Giuseppe né Maria. Egli ha dodici anni: non è quindi ancora adulto (lo si diventava a tredici anni), ma era usanza far partecipare a quel pellegrinaggio al Tempio anche i ragazzi dodicenni per abituarli al compimento del precetto che l’anno seguente sarebbe diventato obbligatorio.
Luca dice poi che “i suoi genitori, tutti gli anni si recavano a Gerusalemme per la festa di Pasqua”. Quindi, quella di Gesù, è una famiglia religiosa, una che segue scrupolosamente le tradizioni dei padri. Ma qui Luca più che dei fatti storici vuole sottolinearci un pensiero teologico: che a Gesù, cioè, non interessa tanto la tradizione dei padri, quanto di seguire la volontà del “Padre”. E questo è e sarà sconcertante non solo per la sua famiglia ma per tutto il popolo. Perché tutti si aspettavano il Messia in un certo modo e invece Gesù sarà completamente diverso.
Maria e Giuseppe lo sanno già, ma non l’hanno ancora capito. Pensano infatti che Gesù li segua, che segua la tradizione d’Israele. Non capiscono invece che saranno loro a dover seguire Gesù.
“Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme”. E lo trovano nel Tempio, “seduto in mezzo ai maestri”: lo stare in mezzo è l’immagine con cui la Bibbia presenta la sapienza di Dio: Gesù quindi viene presentato come la sapienza divina che “ascolta” ma che soprattutto “interroga”. E quelli che lo udivano “erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Lc 2,47).
Più che stupiti, i dottori della Legge sono “indispettiti”, poiché non accettano le risposte di Gesù; non accettano per principio che qualcuno venga a fare il maestro in casa loro! Tant’è che la volta successiva in cui Gesù entrerà nel tempio, essi cercheranno di ucciderlo.
Oltretutto che fa questo ragazzo? Parla di Dio in una maniera completamente nuova, completamente diversa da quella che essi conoscono e che impongono al popolo: una maniera che solo Lui, come Figlio di Dio, conosce e può sperimentare.
“Al vederlo restarono stupiti” (Lc 2,48). I suoi genitori rimangono sbigottiti, esterrefatti, per ciò che vedono: no, questo figlio non segue la tradizione; non si comporta come loro.
E qui Maria commette il primo errore: lo chiama “figlio” (Lc 2,48) e usa il termine teknon che significa “quello che io ho partorito”: include cioè una connotazione di dipendenza, di legame fisico, che Gesù non accetta. Mai nel Nuovo Testamento questo termine riapparirà applicato a Gesù. In questo caso, per Maria, per la madre, il figlio è qualcuno sul quale lei ha dei diritti, e il figlio è qualcuno che ha dei doveri nei suoi confronti. Potremo tradurlo in italiano “bambino mio” (non “figlio”, che in greco è “uios” non “teknon”) tu sei “quello che io ho partorito”, ossia “quello che mi appartiene”.
E subito dopo viene il secondo errore della madre: “Ecco, tuo padre e io angosciati ti cercavamo” (Lc 2,48). E Gesù: “Perché mi cercavate?”. Una risposta, secondo il nostro modo di pensare, assolutamente assurda! Ma non lo è, se seguiamo il ragionamento di Gesù. Anzi la sua è una risposta perfetta, una risposta teologica: Egli praticamente sta prendendo le distanze dalla tradizione di Israele: “Perché mi cercavate nella carovana della tradizione? Lo sapete che io non sono lì! Perché mi cercate lì?”. E conclude con il : “Non sapevate...?” (Lc 2,49). Ebbene, cos’è che dovevano sapere? La madre ha commesso l’errore di dire “tuo padre e io”. “No, attenta Maria; ricordati che mio Padre non è Giuseppe. Il Padre mio è qualcun altro. Tu Maria, lo devi sapere molto bene! Ti ricordi le parole dell’angelo? O te le sei dimenticate?”.
Gesù quindi è estremamente chiaro: io non devo occuparmi di Giuseppe o delle tradizioni ma, letteralmente, è necessario che io sia “en tòis tù patròs mù”: devo cioè essere “nelle cose del Padre mio” (Lc 2,49). In altre parole: “Mio padre non sei tu, Giuseppe, ma Dio”.
Ed ecco il finale: “Ma essi non compresero le sue parole” (Lc 2.50). E possiamo anche capirli!
E questo sarà il motivo conduttore di tutto il vangelo: Gesù nessuno lo capisce: né i suoi genitori, né sua madre, né le autorità religiose, né le istituzioni. Gli unici a capirlo sono quelli lontani da Dio.
Il testo poi prosegue dicendo subito dopo (ma non compare nel vangelo di oggi): “Maria serbava tutte queste cose nel suo cuore”. Ecco, questa è la grandezza di Maria: non capisce ancora il vero senso delle cose, ma rimane aperta. Maria accoglie questi semi, anche se per lei sono sconosciuti o assurdi: un giorno fioriranno.
E concludo: cosa può dire a noi questo vangelo? Che noi nasciamo da nostro padre e nostra madre, è vero: loro ci hanno dato la vita, ma non sono la nostra vita. Li ringraziamo, li onoriamo per un dono che non potremo mai ricambiare ma noi abbiamo un compito e una missione.
Quando un genitore fa di suo figlio la sua unica ragione di vita, vuol dire che questo genitore ha perso la sua vera ragione di vita. Perché dimostra di essere una persona senz’anima, senza prospettive soprannaturali, senza nessun’altra missione, come conseguenza, che quella di ridurre il figlio una sua esclusiva proprietà, uno a suo completo servizio (visto che gli ha dato la vita!).
Noi abbiamo delegato la vocazione divina ad alcune persone (preti, suore, ecc.), come se solo loro avessero una chiamata da Dio. In questo modo ci siamo sì, messi a posto la coscienza, ma non certamente il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in certi momenti siamo così tristi? Perché tutti abbiamo un’anima: e la nostra anima, in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti infatti siamo dei “chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso. Possiamo far finta di nulla: nella vita possiamo dedicarci a tutt’altre cose, ma la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per cui è stata creata.
La felicità vera è scoprire appunto ciò per cui esistiamo: e siamo infelici quando pensiamo di essere qui per caso, senza uno scopo. Ci sentiamo sperduti perché non sappiamo dove andare (una vocazione è un riferimento chiaro). Siamo annoiati, vuoti, perché scegliamo a casaccio, perché non sappiamo cosa ci serve per davvero, non sappiamo ciò che scegliamo. Siamo pieni di paura perché non abbiamo la forza di seguire la nostra vocazione (tutto è possibile per chi sa dove andare). Le persone fanno tante cose nella vita, ma vivere la propria vocazione, è un’altra cosa! Gesù stesso ha detto: “Io devo occuparmi delle cose del Padre mio”. Anche noi abbiamo una vocazione, non dimentichiamocelo mai! Amen.


25 Dicembre 2015 – Natale del Signore


GLI AUGURI PIU' CORDIALI A TUTTI






venerdì 18 dicembre 2015

20 Dicembre 2015 – IV Domenica di Avvento

«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).

Siamo alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica prima del Natale.
Il vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per quanto sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze impossibili; l’una e l’altra hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno figli “particolari”; l’una e l’altra sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud della Giudea.
Facciamo mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna a quel tempo, se da sola (!), era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare attraverso la Samaria, secolare nemica dei Giudei. Insomma, una impresa impensabile.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di umiltà, di silenzio, di riservatezza: una donna dimessa che ubbidisce sempre e se ne sta zitta, nella sua stanzetta, una madre tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere vista come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però che arrivata da Elisabetta, entra “nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. Ha cioè così tanta fretta da dimenticarsi di salutare Zaccaria, il padrone di casa? Forse che durante il viaggio è diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro, un qualcosa successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era rimasto muto (e sordo!) perché era stato refrattario all’annuncio di Dio: egli, sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio di Dio.
Maria ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di una profondità che Zaccaria non può avere.
In pratica Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è innamorato può capire l’amore; solo chi ha la gioia può capire certi gesti. Zaccaria non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha quel cuore che queste donne hanno. Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di Dio, ed ha fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle logiche finanziarie, della paura.
Osserviamo poi cosa dice il vangelo in proposito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò in grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo” (1,41). Il Battista, già dal ventre di Elisabetta riconosce Gesù nel ventre di Maria. Non per niente il Battista dirà di Gesù: “Costui vi battezzerà in Spirito Santo” (Lc 3,16). In pratica il Battista riconoscerà l’attività di Gesù come quella di colui che immerge le persone non più nell’acqua, come lui, ma nello Spirito. Luca qui sta facendo teologia e non storia: vuol dirci cioè che il Battista riconosce fin dall’inizio l’opera e l’operato di Gesù: riconosce cioè in Lui proprio Colui che deve venire.
Inoltre, il saluto di Maria, che è piena di Spirito Santo, trasmette ad Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che possiede, ciò che ha. Maria è piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno passa quello che ha, quello che è. Il loro saluto cioè è uno scambio, una comunicazione di percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È quell’incontro in cui, al di là dei discorsi, i cuori e le anime si sfiorano e si toccano.
Le loro parole sono piene di significato, sono “pesanti”, profonde. Noi, invece, parliamo tanto, proprio perché comunichiamo poco. Riempiamo con le parole il vuoto di senso del nostro parlare.
“Elisabetta fu piena di Spirito Santo”: lo Spirito non possiede il sacerdote (Zaccaria) ma soltanto chi accoglie Dio (Elisabetta). Maria è quindi la prima profetessa; Elisabetta la seconda.
Poi Elisabetta dice: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”. Lo Spirito che è in lei, le fa cambiare anche il modo di vedere: ora Maria non è più tanto una sua “parente”, ma la “madre del suo Signore”, cioè la Madre del Messia atteso. Per chi ha fede i legami dell’anima sono più importanti dei legami di sangue. E conclude: “beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”
La lode a Maria è una evidente disapprovazione nei confronti di Zaccaria suo marito. Egli, che doveva essere profeta, è muto; Maria, invece, che non era nessuno, è piena di Spirito; Maria è beata, ossia “graziata”, perché ha creduto alla parola del Signore; Zaccaria è “disgraziato” (=senza grazia) perché non ha creduto. Maria ha creduto a qualcosa che non era mai accaduto nella storia di Israele e si è fidata. Zaccaria invece, il sacerdote, non ha creduto a qualcosa che era successo e capitato tante altre volte (la nascita di figli da donne sterili, come Sara o Rebecca). È la prima beatitudine del vangelo:“Beata colei che ha creduto”; una beatitudine che esalta non tanto la maternità di Maria ma la sua fede. Maria per il vangelo è grande non tanto per la maternità ma per la fede che ha avuto: ha creduto dove nessun altro lo ha fatto.
Questo vangelo ci dice appunto una cosa molto importante: ciò in cui noi crediamo davvero, con tutto il cuore, ci trasforma completamente, e passa da noi agli altri trasformando anche loro.
Maria crede fermamente che suo figlio è “divino”: e suo figlio sarà il Messia, il Figlio di Dio. Elisabetta crede che suo figlio è “divino”: e suo figlio diventerà l’Annunciatore di Dio. Maria ed Elisabetta credono alla grandezza dei loro figli ancor prima che nascessero; e i bambini, appena concepiti, già percepiscono questa fede, questa fiducia, questa grandezza, questo valore, nel pensiero delle loro madri: e poi realizzeranno in pieno, quel valore che esse avevano da subito accreditato loro.

E noi? Ci pensiamo come esseri divini? Abbiamo nei confronti nostri e di chi ci sta vicino quello stesso atteggiamento che Maria ed Elisabetta hanno avuto per i loro figli: stima, consapevolezza, meraviglia, fiducia, amore? Tutti noi siamo destinati ad essere “divini”: ma solo se avremo una grande fede, come la loro, saremo convinti e potremo diventarlo veramente. Se invece, come Zaccaria, ci lasciamo vincere dalla paura, rimarremo degli essere incompiuti, infelici, incompleti; non aprendo il nostro cuore alla fede, perderemo la grande possibilità di diventare Amore nell’Amore. Infatti, solo credendo profondamente ci convinceremo della nostra “divinità”, e faremo di tutto per tornare ad essere come siamo stati pensati. Amen.



giovedì 10 dicembre 2015

13 Dicembre 2015 – III Domenica di Avvento

«Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).

Giovanni Battista fu il più grande profeta del suo tempo. La sua predicazione era esigente e dura, senza compromessi, e in sostanza affermava: “Dio sta per venire, state attenti!. Se non fate frutti di conversione, se non vi pentite, se non cambiate, non avete scampo”. Il Dio del Battista era pertanto un Dio severo, un Dio che incuteva timore: “Se non siete a posto, sarete condannati”. Parole che imponevano un esame profondo della propria vita e un conseguente cambiamento di rotta, una sincera conversione mediante il battesimo nelle acque del Giordano.
Ebbene: il vangelo di oggi ci presenta un piccolo spaccato dell'ambiente: di quello che succedeva intorno al Battista, di quello che la gente voleva sapere da lui, delle domande più frequenti che gli venivano rivolte; domande che lasciavano trasparire la volontà di cambiare vita: “Che cosa debbo fare?”. È la prima domanda spontanea che uno in difficoltà pone a colui che ritiene in grado di potergli dare una risposta valida e pertinente. E Giovanni lo era in tutti i sensi.
Troppo spesso però, soprattutto ai nostri giorni, la stessa domanda viene posta a personaggi di tutt'altro genere, personaggi scadenti che si auto propongono falsamente come “ispirati”, personaggi che in realtà sono dei ciarlatani, degli approfittatori: “Cosa devo fare?”. È gente che cerca una soluzione al loro problema; che chiede di entrare a far parte magari di un certo rinomato gruppo di spiritualità, pensando di trovare l'aiuto di cui ha bisogno; gente che cerca nella loro vita una nuova via da percorrere, un nuovo metodo, magari di meditazione, di silenzio, di preghiera, per poter risolvere ciò che non va in loro, che sciolga i loro legami col male.
Ovviamente le soluzioni prospettate da questi venditori di fumo - spesso appartenenti purtroppo anche al clero e alla gerarchia ecclesiastica, nullità camuffate in ascetici e pii predicatori, preoccupati però solo di promuovere il loro apparire sui media - si rivelano inadatte a risolvere gli scompensi individuali e profondi dell’animo umano.
Eppure, cosa non si inventa oggi la gente per cercare, per trovare, per correre da simili personaggi! Del resto è una legge del mercato: la domanda intensifica l’offerta; per cui in giro oggi ne abbiamo per tutti i gusti: personaggi che si dicono inviati direttamente da Dio, che si credono dotati di poteri divini, extrasensoriali, paranormali o speciali. E poiché la pressione della sofferenza è molto intensa, e il desiderio di sollievo è altrettanto forte, ognuno può liberamente accedere alla cura più congeniale.
Oggi, abbiamo la “pillola” miracolosa per tutto: per dimagrire, per far bene l’amore, per essere felici, per non essere tristi. 
Ci illudiamo che sia sufficiente una semplice pillola per star bene, per essere sereni, per stare in pace con la propria anima; ci illudiamo di poter comprare facilmente, a basso costo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno: felicità, amore, comprensione, fiducia. 
Ci illudiamo cioè che in commercio ci sia un qualcosa di magico che risolva i nostri problemi... ma è solo illusione, cruda e sterile illusione.
Attorno a noi prospera purtroppo un florido commercio religioso: un supermercato del sacro in grado di esaudire qualunque fantasia: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare (ovviamente con offerta a pagamento) la messa, il rosario, le preghiere per le nostre necessità, per tutte le “nostre intenzioni”; c'è il tour operator che organizza, ovviamente a pagamento, pellegrinaggi con incontri personalizzati con i santoni del momento, c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita da noi vissuta prima di questa attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è poi il santone, in contatto diretto con Padre Pio, che guarisce a distanza qualunque nostra malattia, sia spirituale che fisica, tramite versamento di un'offerta a mezzo “bollettino postale”; c'è il gruppo carismatico pseudo religioso che ci accoglie a braccia aperte, promettendoci felicità e benessere spirituale, effettuando donazioni alla loro chiesa; c’è infine la folla oceanica di indovini, fattucchieri,  che vendono i numeri vincenti del lotto, che ci predicono il futuro, che ci fanno incontrare l'anima gemella, l’amore della nostra vita, e via dicendo. 
In realtà, se viviamo dando retta all’imbonitore di turno, rischiamo veramente grosso; e non ci vuole molto a capirlo, basta guardare al nostro stile alienante di vita, alle quotidiane tragedie familiari, alle notizie drammatiche dei telegiornali !
Purtroppo persone confuse, disorientate, deboli, fragili ce se sono ancora troppe nella nostra società del benessere e dell’autogestione; persone che continuano sinceramente a chiedere a destra e a sinistra: “Che cosa devo fare?”
Beh, a tutti piacerebbe che ci fosse una pillola che risolve magicamente le nostre depressioni, ma non c’è. A tutti piacerebbe che ci fosse una sola breve preghiera, universale e potente, per ottenere l'illuminazione della nostra mente ogni volta che ne abbiamo bisogno! Ma non c’è. I ritrovati magici appartengono solo a quelle persone che credono di aver le risposte giuste per tutti e tutto! Ma ciò è impossibile!
Giovanni Battista, infatti, non offre soluzioni. Le sue sono risposte pratiche, sono cose concrete da fare, che poi in definitiva hanno tutte un comune denominatore: Giovanni non dice: “Fai questo o fai quello”; ma: “Guarda dentro alla tua vita. È lì che devi trovare ciò che è bene per te, ciò di cui hai bisogno”.

“Cosa dobbiamo dunque fare?”: nulla di sovrumano. Tutto dipende da chi siamo noi, da cosa abbiamo dentro, da cosa viviamo nel nostro cuore, nella nostra anima. Dobbiamo fare cioè quello che realmente è bene per la nostra vita; dobbiamo agire sulla nostra vita, umilmente e in silenzio: non c’è bisogno di compiere azioni sensazionali, straordinarie, davanti a tutti. Dobbiamo solo cercare di cambiare praticamente la nostra vita, di diventare migliori, più profondi, più capaci di fede, di dare fiducia e di esserne degni, più capaci cioè d’amare, più capaci d’ascolto e di vita: non dobbiamo fare necessariamente la nostra “buona azione quotidiana”: non serve a nulla.
Guardiamo seriamente nel profondo della nostra anima. Parliamo con noi stessi e con Dio. Facciamo trenta minuti di silenzio assoluto davanti al Tabernacolo. Soprattutto siamo onesti nel nostro esame personale; accorgiamoci della nostra invidia, della nostra superbia, del nostro egoismo, e riconosciamoli; tiriamo fuori gli scheletri nascosti dentro di noi, ecc.
Alla gente in pratica Giovanni diceva: “Ti accorgi che nel tuo fratello, nel tuo amico, nel tuo famigliare qualcosa non va? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere diventato scontroso, irritabile, intrattabile con i tuoi cari, in famiglia, al lavoro? È qui che devi agire. Non dai più il meglio di te stesso perché ti senti insoddisfatto, perché pensi di essere discriminato, sottovalutato, di non essere considerato come vorresti? È qui che devi agire”. Dobbiamo cioè lavorare e agire dove c’è il problema, non altrove!
Vanno infatti da Giovanni i pubblicani, gente che trafficava con i soldi, che poteva rubare, intascare molto e bene: “Che dobbiamo fare? Dobbiamo fare un’offerta particolare? Dobbiamo ritirarci e diventare monaci?”. “No; visto però che voi trafficate con i soldi, siate leali, siate onesti; non fate gli strozzini e gli usurai. Non vendete per i soldi la vostra anima, i vostri cari, le vostre amicizie, i vostri rapporti o ciò che avete di più caro. È dentro la vostra vita che dovete cambiare, è qui che dovete agire”.
Vanno i militari, gente senza scrupoli, gente che con la forza otteneva ciò che voleva: “E noi che dobbiamo fare?”. E Giovanni: “Non abusate del vostro potere, della vostra forza e del vostro ruolo. Non estorcete a nessuno, non cercate di ottenere mai niente con la violenza”.
Purtroppo invece quanti di noi si comportano come dei "militari": genitori che impongono ai figli un regime severo, rigoroso, senza gioia né giocosità; mariti che si comportano militarmente con le loro mogli: le controllano, le vogliono sempre disponibili, ai loro comandi, ubbidienti, sottomesse; preti che sembrano dei dittatori; sono dispotici, severi e onnipotenti. Non apprezzano alcuna collaborazione.
Purtroppo nelle nostre case, nei luoghi pubblici e privati, addirittura nelle parrocchie, esistono spesso violenza psicologica, mobbing, pressioni di ogni tipo, ricatti. È ancora qui che dobbiamo agire. 
È chiaro che è molto più semplice, per Natale, fare il presepio e andare alla messa di mezzanotte. È chiaro che è molto più semplice fare dei buoni pensieri sulla pace nel mondo, desiderare che tutti siano felici, ma non è questo il Natale che dobbiamo preparare. Natale è fare ciò che dobbiamo fare e non dell’altro.
Il contadino che nel cortile separa il frumento dalla pula (che verrà bruciata) è un’immagine che incute ansia, paura e timore. Noi non dobbiamo avere paura di Dio. Ma dobbiamo sapere, però, che siamo noi stessi a tirare le conseguenze delle nostre azioni. Dio non ci punisce mai; siamo noi che ci creiamo i nostri inferni, come conseguenza di ciò che facciamo. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli con certi modi di vivere.
Il Battista battezzava con acqua: era il desiderio della gente di cambiare vita. Il vero battesimo, però, è quello di fuoco. Il vero battesimo, quello del Cristo, della Vita vera, non è altro che conquistare la propria anima, la propria parte divina, spirituale. È un battesimo di fuoco perché riscalda la vita, le dà passione, energia; è la forza per andare avanti. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore; ci fa vedere e ci fa capire. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni che ci siamo costruito, perché ci fa vedere ciò che siamo realmente: cioè niente!.
Il nostro battesimo di fuoco, allora, è portare alla luce, far nascere, la forza che ci abita dentro, la vita grande e piena che ci scorre nelle vene, il Dio che dorme e che aspetta di essere risvegliato per diventare il Signore della nostra vita.
Nell’acqua siamo nati ma è solo nel fuoco che cresceremo. E questo, per il vangelo, è rinascereAmen.