giovedì 21 agosto 2014

24 Agosto 2014 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita, ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tanta gente cambiare vita, perché egli era seguito e amato dalle folle; hanno ascoltato da lui parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di amare, di donarsi, di slanciarsi nella vita.
Nonostante ciò, nel loro intimo, non riescono a staccarsi dai loro vecchi schemi: sono ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette di fronte ad una prova, fa loro una domanda a bruciapelo, per vedere cos’hanno capito di lui: “Va bene: questo è quello che gli altri pensano di me: Ma voi chi dite che io sia?”. A questo punto l’imbarazzo, la risposta è desolante, la loro confusione è totale: ciascuno pensa qualcosa di diverso, c’è un guazzabuglio di idee; nessuno, in ogni caso, coglie esattamente chi è Gesù.
Gli apostoli non vedono Gesù per quello che è; lo vedono secondo i loro “vecchi schemi”: come tutti, vedono in lui un profeta, un personaggio importante della Bibbia. Sono bei paragoni, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso da tutti, da tutti quelli venuti prima e che verranno dopo. Gesù non è uno dei tanti profeti: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse le cose sia dal punto di vista religioso che sociale, con o senza la forza, una volta per tutte. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopruso in Lui.
Gli apostoli insomma vedevano in Gesù quel particolare personaggio che ciascuno in cuor suo sognava, quel “profeta” che ammirava, ma non vedevano Gesù.
Gesù non è profeta secondo il modello del tempo. Gesù è profeta perché mostra il Padre.
L’autorità religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era uno da temere, da tenersi buono, perché non si sa mai, magari ci manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire.
Il Dio di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che uno vuole, ciò che ci comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro (Dio); obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire agli altri (e non a Lui) è farlo morire, lasciarlo sepolto.
Obbedire insomma vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, ascoltare Dio e non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la corrente evitando conflitti e contrasti a volte dolorosi.
Sicuramente gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il silenzio che ne segue è perché proprio non lo sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro: “No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”. La novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta identificativa; quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. Perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”?
Giona è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la conversione, lui era andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è come Giona (“bar”, suo figlio), sanguigno, testardo come lui; anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà, ma alla fine si convertirà.
E Gesù conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha insegnate o te le ha ordinate (carne e sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo se Dio può parlare liberamente dentro di te (“te l’hanno rivelato il Padre mio che è nei cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono sapere”.
Solo su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. Regno dei cieli, nel vangelo, non significa tanto un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile.
La chiave della vera Vita (il Regno di Dio), è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. È in questo modo che i legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera nell’Amore per sempre.
Le relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo, incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, ma non l’amore. “A-more” (alfa privativo e mors, mortis) vuol dire infatti “non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate, perché è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli apostoli, una volta liberi dai loro schemi religiosi, capiscono finalmente chi è Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui ci fa vivere! Lui è la Vita! Lui è vivo!”.
E concludo: nella vita non dobbiamo mai perdere di vista Dio-Amore: deve essere Lui il nostro vero obiettivo, Colui che merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere, la nostra messa domenicale, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui: anche se efficaci e fondamentali, rimangono pur sempre dei mezzi; e se questi mezzi non ci fanno vivere, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”, se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non servono a nulla!
Così quando entriamo in chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per consentire alla Vita di scorrere più forte e più viva dentro di noi; perché è lì, ascoltando le sue parole, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuovi spazi di vita per noi e per il mondo. Perché, in questo modo, una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare la vita: è qui fuori, infatti, nel mondo, nella società e non in chiesa, che siamo chiamati a tradurre l’Amore in gesti concreti a beneficio dei fratelli. Dio è Vita e Amore: ed Egli vive ed è presente esattamente dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.

venerdì 15 agosto 2014

17 Agosto 2014 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,21-28).
Dopo l’attraversata del lago di Genezareth, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone costituiscono infatti la “regione pagana” per eccellenza, e Gesù si porta in quei luoghi affinché anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) si sentano invitati alla tavola del suo regno.
Ed è là che incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe al potere; e anche se i Giudei li consideravano gente inferiore, in realtà erano superiori ad essi in ricchezza e benessere. Gesù quindi, dando retta ad una non-ebrea, ascoltandola e curandola, ha voluto dimostrare di essere il medico indistintamente di tutti ed è venuto per tutti, ebrei e non ebrei.
La donna dunque si rivolge a Gesù: “Mia figlia è tormentata crudelmente da un demonio”. Un approccio iniziale piuttosto perentorio, che implica una soluzione immediata da parte sua. Per questo Gesù finge di non sentirla, non le rivolge parola! Anzi di fronte alla sua richiesta si mostra indifferente, quasi crudele. In pratica le dice: “Non mi interessi; non è un problema mio! Non mi seccare!”. Un atteggiamento, quello di Gesù, che a prima vista potrebbe sembrare negativo: non ce lo saremmo aspettato, non risponde all’immagine che ci siamo fatti di lui (sempre buono, disponibile, solerte guaritore di tutti, ecc.).
La risposta di Gesù, secca e rifiutante, va però letta più in profondità: egli vuole, cioè, indicarci una delle regole comportamentali che dobbiamo sempre adottare nel nostro relazionarci col Padre: l’umiltà. Le parole della donna infatti lasciano supporre in lei la pretesa di un immediato intervento risolutore di Gesù: “se è coerente con la sua normale prassi di guarire indistintamente tutti i bisognosi, egli “deve” farlo anche nel mio caso; pretenderlo è un mio diritto”.
Niente di più sbagliato: nessun diritto da vantare, nessuna pretesa, devono insinuarsi nella mente di chi si accinge a rivolgere a Dio una preghiera, una richiesta di aiuto. Questo ci sottolinea Gesù; e questo egli sembra dire alla donna: “Guarda che le cose non stanno come tu pensi; non è questo il modo di comportarsi: Io non sono qui per obbedire ai tuoi ordini!”.
Andando poi ancor più in profondità nella nostra lettura, possiamo ricavare altre considerazioni interessanti: per esempio, la donna va da Gesù per chiedere la guarigione della figlia; ma forse è un controsenso, perché l’ammalata sembra essere più lei che la figlia; è lei che Gesù deve guarire, perché è lei che deve cambiare il suo atteggiamento “malato” nei confronti della figlia.
Gesù infatti, con la sua indifferenza, sembra confermarle esattamente ciò: “Tua figlia non è posseduta dai demoni come tu sostieni: se tua figlia è ammalata è perché fra te e lei c’è un problema di relazione. Sei tu che devi lavorare e guarire a questo proposito; non pretendere da me una soluzione magica”. E per scuoterla, Gesù arriva addirittura a offenderla: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”; in altre parole: “Tu sei un cane e niente pane ai cani!”. Anche qui i soliti benpensanti vedono una grave offesa di Gesù, che paragona ad un “cane” una donna che dimostra un grande carico di sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.
Ma invece di scandalizzarci, dobbiamo chiederci: perché Gesù è così rigido, duro, “cattivo”, spietato? È proprio necessario? Ebbene sì; in certe situazioni, bisogna essere tremendamente “ruvidi”, poiché le semplici esortazioni non servono a nulla. San Benedetto raccomanda all’Abate: “percute filium tuum virga, et liberabis animam eius a perditione! – picchia tuo figlio col bastone e gli salverai l’anima(Regula). In certe casi la situazione è talmente radicata, fossilizzata, sclerotizzata che solo un violento strattone può cambiare qualcosa. In certi casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità da vedere è così sconvolgente, che non si può andare “con le buone”, poiché per affrontare certe verità bisogna essere profondamente scossi e motivati.
Se di fronte a gravi inadempienze non reagiamo positivamente, se rimaniamo indifferenti e buoni solo perché abbiamo paura di ferire l’altro oppure perché temiamo di perdere il suo amore, allora la nostra non è “bontà”, ma solo paura, indecisione, incapacità di educare. Se amiamo veramente, sapremo affrontare per amore anche quelle situazioni più scabrose, che magari portano a conseguenze che non vorremmo ci succedessero mai.
Per sua fortuna la donna cananea capisce il comportamento di Gesù: non si ferma al “no”, né alla durezza della sua risposta. Avrebbe potuto dire: “Beh, se mi rispondi così, vuol dire che non sei il maestro generoso che tutti osannano. Un maestro caritatevole non risponderebbe così, non si permetterebbe mai di trattare i bisognosi in questo modo”. Lei insomma non fa l’offesa, capisce la lezione; e questo la salva: “È vero Signore, il pane dei figli non va gettato ai cagnolini, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Improvvisamente la sua presunzione cade: lei è pagana, ricca, ha cibo e pane in abbondanza, contrariamente ai Giudei che soffrono la fame; essi però dispongono di un “altro” pane, hanno la Salvezza, hanno Gesù dalla loro; e lei, ricca, no. Per questo anche lei, come un cagnolino, aspira ad avere da Gesù almeno le briciole, di poter anche lei aspirare alla salvezza, esattamente come loro. Lei soffre per la mancanza “di questo pane”; è una necessità che finalmente la pone allo stesso umile livello di tanti altri “affamati”. A questo punto la donna non vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio, ma si accorge che anche altri, forse proprio a causa sua, soffrono e stanno male.
Questo vangelo ci deve aiutare a non assolutizzare il nostro male, il nostro dolore, i nostri problemi, per non essere come quella donna che vede solo il suo dolore, e non vede quello degli altri, quello di chi giornalmente è trattato con ingiustizia. Dobbiamo imparare a guardare a tutte le sopraffazioni che capitano nel mondo, senza fermarci solamente su quelle che capitano a noi.
C’è poi ancora qualcosa che deve farci veramente riflettere. La figlia della donna è malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca nemmeno, non si comporta come in tutte le altre guarigioni, addirittura neppure la vede. Ammalata è la figlia, ma lui guarisce la madre.
Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si realizzi in te ciò che tu desideri nel profondo del tuo cuore; tu conosci la verità; sei tu che soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo qualcosa che tu, in tutta sincerità e umiltà, speri avvenga”. Parole che ci confermano che la “malattia” della figlia è la madre: è lei che, con il suo modo di rapportarsi con la figlia, l’ha resa invalida, l’ha resa in condizioni precarie. E Gesù, che aveva capito il problema, con le sue parole fa pensare all’esistenza di una situazione familiare ben più complessa. Ovviamente non siamo in grado di conoscere le vere problematiche di questa famiglia; possiamo però risalire ad alcune eventualità.
Prima di tutto il testo non fa riferimento all’esistenza di un padre. Il padre, nella famiglia, ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che gradualmente stacca il figlio da questo legame “unico” madre-figlio, in modo da consentirgli di fare la propria vita, di intraprendere la propria strada. Ma qui il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non c’è, il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall’altra sente il dolore della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il padre, questi potrebbe sostenere la propria madre, ma non c’è. Se ci fosse, il papà potrebbe insegnargli l’autonomia, l’andare nel mondo. Ma non c’è.
Ciò che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti nostro Signore non ci avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno. Quello che un genitore non fa, non può essere fatto dall’altro. Il padre dona l’energia e i valori maschili (se li ha!) e la madre l’energia e i valori femminili. Ogni mancanza non può essere compensata dall’altro. Ci si prova, ma con risultati sempre insufficienti. Ogni mancanza crea inesorabilmente uno squilibrio, checché se ne strombazzi oggi con tanta squallida sicumera (sedicenti “famiglie” composte da due madri, da due patri ecc.!)
Quindi, tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, allora potremmo pensare che si tratti di una donna che ha investito tutta la sua esistenza sulla figlia; una donna che ha cercato di supplire chi non c’è; una donna che non vive neppure la propria vita, tanto è presa dalla figlia. Il “demonio” che opprime la figlia, allora, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente solo in funzione della figlia: troppo amore è infatti talvolta fatale quanto e forse più della mancanza d’amore.
Altro particolare: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che sua figlia è il prolungamento di se stessa, la sente sua, sente che la figlia continuerà o farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e quindi rimette in lei tutte le sue più intime aspettative, i sogni che non sono mai diventati realtà. Usa la figlia per sé, per dimostrare la sua rivincita nei confronti della società.
Più sotto infatti viene chiarito questo concetto: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. È chiaro: la madre non nutre la figlia come dovrebbe, come ne avrebbe bisogno. Siamo nella situazione opposta alla precedente. La “malattia” della figlia non è nient’altro che la sua protesta per la “fame” d’amore che la tormenta. La madre ha altri “cagnolini” a cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé, dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, e non rifornisce sufficientemente la figlia di amore autentico.
La madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi, ha bisogno dello shopping, di trovare degli svaghi, delle compensazioni, perché non trova soddisfazione dall’essere madre. Ha bisogno forse di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente. In ogni caso, toglie il pane dell’amore alla figlia che ne rimane senza. Per questo la figlia protesta: ha fame d’amore. Tutto qui.
Ciò che è chiaro in entrambi i casi è che la figlia soffre perché la madre non la nutre secondo il suo bisogno. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché la madre si rapporta con lei in maniera non sana.
Per risolvere la situazione Gesù, infatti, non cura la figlia ma la madre. Quando la madre è curata, la figlia guarisce: “Da quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò che è meraviglioso in questo è che la donna riconosce la verità: “Sì, è vero, tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato mia figlia”.
A volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci dei genitori perfetti. Un figlio è la cosa più cara che abbiamo (il nostro mito e il nostro modello) e tutti noi vorremmo che ci dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno sbagliato in niente”.
In realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la vita è per se stessa imperfetta. Quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e dentro di noi neghiamo decisamente questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. Se accettassimo che diamo già un sacco d’amore ai nostri figli, che facciamo tutto quello che possiamo, quello di cui siamo capaci, quello che siamo in grado di fare, allora potremmo anche accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave.
Potremmo accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni, certi comunque che possiamo cambiare, e che comunque sono figli della Vita. Potremmo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l’importante è esserne consapevoli. Potremmo accettare che il nostro amore non è sempre amore, e lo dobbiamo pertanto elevare.
Per tutto questo dobbiamo guardare con profondo rispetto e stima a questa donna, perché ha saputo riconoscere il proprio errore: e per questa sua umiltà la figlia è stata salvata, e lei stessa è guarita. Ecco: dobbiamo imparare da lei. Amen.
 

giovedì 7 agosto 2014

10 Agosto 2014 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).
Il vangelo di oggi è un vangelo forte, potente. Il testo segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci di domenica scorsa. Ricordate? Era stato un grande successo: con cinque pani e due pesci Gesù sfamò cinquemila “uomini” (oltre ovviamente donne e bambini). Notizie così sensazionali circolano con estrema rapidità, e quindi, molto probabilmente, Gesù temeva l’azione degli sbirri di Erode, e ordina quindi ai discepoli di allontanarsi, di salire in barca e di raggiungere in fretta la riva opposta del lago: Egli ha sempre cercato infatti di evitare il più possibile noie e problemi con le autorità costituite: meglio fuggire, scappare, piuttosto che affrontare un “confronto” diretto, offrendo loro il pretesto per intervenire contro la sua persona e di quanti lo seguivano. D’altronde Gesù e i suoi amici erano personaggi di giorno in giorno sempre più famosi, stimati, ammirati e seguiti: tutti li volevano vedere, li volevano seguire, facendo crescere il loro ascendente, il loro successo, e questo non stava bene ai romani, sempre timorosi di insurrezioni.
E che fa Gesù per evitare che questo delirio crescente della folla travolga i suoi? Dopo la sbornia di “successo” condivisa con lui (erano stati i discepoli gli incaricati della “distribuzione”), Gesù li sottrae da questo pericolo, li manda in barca, e congeda la folla.
Bisogna riportarli alla realtà. Dopo l’esperienza esaltante, su quella barca essi devono sperimentare anche altre esperienze, quelle traumatiche e contrarie. Lì infatti essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, senza la presenza rassicurante di Gesù. Saranno soli, in balia delle onde: e lì ciascuno dovrà essere solo se stesso, ciascuno dovrà trovare in se stesso la forza e le energie per combattere.
Un chiaro insegnamento per tutti noi. Tutti, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo bisogno di solitudine, di momenti in cui stare da soli con noi stessi, perché ci sono cose che solo noi viviamo, situazioni e momenti della nostra vita in cui nessuno può raggiungerci. Magari gli altri ci potranno stare anche vicini, ma non potranno darci una mano, perché si tratta di esperienze che nessuno potrà condividere. Saremo soli, e da soli dovremo trovare la soluzione.
È la “notte fonda”, cui allude il vangelo: e prima o poi arriverà anche per noi: la tempesta che si profilava da tanto tempo all’orizzonte, improvvisamente si abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo in balia del vento impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi violentissimi.
A questo punto sarà impossibile far finta di nulla, inutile aspettare che altri intervengano per noi: sono i nostri “mostri”, sono i nostri momenti decisivi della vita, e solo noi potremo affrontarli; solo noi potremo e dovremo fare i conti con la nostra coscienza; solo noi potremo conoscere e dominare le nostre ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre (non è possibile). Non c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” tutto sugli altri. Non possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti. Arriva il momento in cui dobbiamo stare soli con ciò che viviamo, con ciò che abbiamo dentro. È la nostra vita! È quel particolare momento della nostra vita in cui tutto sembra perduto, ci sentiamo persi, senza riferimenti, non sappiamo più dove andare, dove sbattere la testa, tutto sembra crollarci addosso: non vediamo più alcuna luce, non abbiamo più alcuna speranza. Come Pietro sentiamo solo l’infuriare della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata, improvvisamente crolla, viene meno. Ci sentiamo impotenti, paralizzati, tutto sembra inutile, tutto sembra irrecuperabile.
E invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante, di assolutamente meraviglioso: “amate le vostre tempeste”. Guardatele in positivo: certo le tempeste non sono mai belle, ma – ci sottolinea il vangelo – sono decisamente utili, necessarie: sono dure, difficili, ma essenziali. Sono come certe medicine o certe operazioni chirurgiche: amare, dolorose, però indispensabili per la salute del paziente. Incontriamo le tempeste perché dobbiamo cambiare assolutamente rotta: senza, noi continueremmo per la nostra strada, nel nostro tragitto, nella direzione che ci siamo scelta, che spesso però non coincide con la volontà di Dio, con la direzione che Dio vuole per noi: soltanto una seria “tempesta” può farci cambiare direzione; solo una tempesta – momento chiave della nostra vita - può offrirci un momento di autentico incontro con Dio; un momento in cui finalmente nasce qualcosa di nuovo e ci rimette completamente nelle sue mani, ci restituisce alla fede autentica. Benedetta tempesta, allora. Ben venga!
Certo, all’inizio, difficilmente capiremo che proprio in quella tempesta ci aspetta Dio: invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio, una disdetta, una disfatta, un dramma. E avremo paura. Ma in realtà è Dio. È Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge in questi “luoghi deserti”, in queste “tempeste”. E lo fa non perché ci vuole male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo. Perché vuole che siamo più autentici, più sinceri, più convinti.
È in questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”. Anche se fanno paura, anche se sono pericolose, anche se sono drammatiche. Inutile tergiversare, rimandare: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di dover prendere in mano la propria vita, con il terrore di doverci confrontare con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una forma nostra, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno), siamo cioè dei parassiti.
Ad un certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare: “è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo eim° in greco indica sì un presente ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io sono colui che sarà”). In altre parole, Lui è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede: Pietro riesce a camminare sopra la tempesta, la domina. Se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è con noi. E noi ci crediamo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica, incrollabile, per non ripetere l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui egli distoglie lo sguardo da Gesù e guarda al pericolo, a quanto gli succede attorno, gli viene meno la fede, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione, più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. Così nei drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo; ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Affrontiamo tutto insieme, affidati a me”.
E concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E sentiremo vibrare nel cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa oggi succeda, io ci sono, non aver paura, sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore scaramantico, fatto a scanso di eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta fiducia in Lui, per poter affrontare serenamente la vita. Poiché fintanto che Lui è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Nella vita del resto non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura, dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente, perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo. Diceva un saggio: «Bussarono alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si Deus pro nobis, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa sia la nostra certezza quotidiana. Amen.

giovedì 31 luglio 2014

3 Agosto 2014 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla» (Mt 14,13-21).
Di fronte al pericolo di morte per mano di Erode, che lo credeva il Battista redivivo, Gesù scappa in un luogo deserto, ma la gente, affrontando disagi e difficoltà, lo segue. Gesù dona libertà e amore: le persone lo sanno e per questo lo seguono dovunque. Non si può non seguire chi ti ridà il comando della tua vita! Ma un luogo deserto è pur sempre deserto. Gesù vede questa folla affaticata e ne ha compassione (in greco: “ha viscere di madre”); passa in mezzo a loro guarendo i malati per tutto il giorno; ma giunta la sera i discepoli si pongono un problema: come e dove può andare a mangiare tutta quella gente? E lo fanno presente a Gesù: il quale, alla loro preoccupazione, risponde con una frase ambigua: “Date voi stessi da mangiare”. Parole che, a ben vedere, contengono un significato che va oltre l’evidenza del momento: in realtà Gesù non fa altro che anticipare quello che poi avverrà. Ma non allude solo alla distribuzione materiale del cibo: con l’invito di “sfamare” loro stessi tutta quella gente, Egli li invita a donare loro stessi, a mettersi cioè completamente a disposizione del prossimo, a donare carità e amore, perché questo è l’unico alimento che dà vita .
Possiamo infatti donare agli altri tutto quello che di materiale abbiamo: tutti nostri averi, i nostri soldi, i nostri servizi; ma l’unico vero, autentico dono, è dare noi stessi, il nostro amore, la nostra disponibilità, la nostra generosità, assicurando loro insomma l’esserci, il nostro essere lì, sempre presenti. Ci sono persone “generose” infatti che donano agli altri di tutto, l’inimmaginabile, ma esse rimangono sempre lontane, distaccate, in una parola non “si danno”.
Fare invece di noi stessi un dono per i fratelli, è ciò che dà il vero senso alla nostra vita; la rende utile, significativa, dona energie profonde a chi è in difficoltà, consentendogli di affrontare ciò che è duro, ostile. Una vita non donata, risparmiata, trattenuta, distaccata, è una vita sprecata.
Ma torniamo al racconto del vangelo: Gesù dunque, fatta accomodare la folla, si trova davanti ad una miseria di cibo: cinque pani e due pesci, per sfamare una quantità di oltre cinquemila persone, fanno ridere, sono davvero un niente. Ma non è il caso di scoraggiarsi, insegna Gesù: ciò che da solo sembra poco, se messo insieme (a Lui), diventa molto, anzi moltissimo, diventa più che sufficiente per tutti. Il poco, se è condiviso, se è messo in “comunione”, diventa sempre tanto. Verità sacrosanta!
Ma da questo vangelo possiamo trarre anche altri insegnamenti pratici, concreti.
Prima di tutto ci dice che ogni impresa, piccola o grande che sia, inizia da poco, da niente (cinque pani e due pesci!). Dobbiamo solo fidarci di noi e di Gesù, Vita per eccellenza. I grandi fondatori, i grandi santi, hanno iniziato la loro missione da poco, partendo da zero, nella solitudine più completa: poi le loro opere si sono affermate e moltiplicate in tutto il mondo. Hanno avuto fede nella iniziativa divina: invece noi quante volte abbiamo paura, rimaniamo paralizzati, ci ritraiamo di fronte a ciò che dovremmo fare! Anche solo guardare avanti, proporsi di seguire qualche buona ispirazione, al delinearsi di qualche minima difficoltà, ci scoraggiamo immediatamente, ci perdiamo d’animo, ci blocchiamo, andiamo in tilt e rinunciamo a tutto. Purtroppo il nostro dramma è che guardiamo sempre ciò che siamo nel presente, e non consideriamo mai ciò che invece possiamo diventare. È come avere a disposizione una piccola quantità di grano. Che ce ne facciamo di tanto poco? Giusto la farina per impastare un po’ di pane: veramente poco, un nulla. Ma se noi quei pochi chicchi li seminiamo, ben presto ci troveremo di fronte un’altra realtà, toccheremo cioè con mano come da poco, da nulla, si possa ottenere tantissimo! Ecco: questa è anche la realtà della nostra vita; noi non siamo soltanto ciò che siamo, ma siamo soprattutto ciò che possiamo diventare: esattamente come un chicco di grano può diventare una grossa spiga.
Altro insegnamento: più si condivide e più le cose si moltiplicano (è questo il senso della “moltiplicazione”). Più si mette insieme e più i miracoli si avverano. Se ognuno fa la sua parte, l’impossibile diventa possibile. Pensiamo per un attimo alle “maratone” televisive di Telethon o di quando si raccolgono fondi per far fronte ad improvvise calamità nazionali: un euro a testa e si raccolgono milioni di euro. Oppure più semplicemente pensiamo a quel che succede quando organizziamo una cena tra amici, e ciascuno deve portare qualcosa: c’è da mangiare sempre per tutti e quello che avanza è sempre in grande quantità.
Lo stesso vale per le persone: pensiamo infatti alle tantissime risorse personali disponibili nelle nostre comunità: c’è chi ha capacità organizzative, chi ha spazi a disposizione, chi sa lavorare manualmente, chi è più preparato culturalmente, chi sa lavorare con il computer, chi sa parlare, insegnare: riusciamo a immaginare cosa succederebbe se tutti mettessero realmente a disposizione degli altri le proprie risorse, le proprie esperienze, ciò che ognuno sa fare? Veri miracoli. Ebbene: poiché la società del benessere tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a singolarizzarci per ridurci senza forza, noi al contrario dobbiamo sempre più unirci, metterci insieme, aiutarci, condividere, mettere a disposizione degli altri ciò che personalmente siamo e possiamo offrire. Perché è così che possiamo veramente compiere veri miracoli: perché la condivisione di idee genera la moltiplicazione di soluzioni; la condivisione delle nostre capacità genera la moltiplicazione delle iniziative; la condivisione dei sentimenti genera la moltiplicazione della pace. Quante volte invece sentiamo dire: “Non lo fanno gli altri, perché devo farlo io”. Beh, forse per qualcuno può essere anche giustificabile, ma se continuiamo a ragionare così, non si arriverà mai a nulla.
Infine un ultimo insegnamento del vangelo di oggi: prendiamo atto di ciò che siamo e ringraziamo Dio. Se accettiamo umilmente ciò che siamo, siamo già sulla buona strada, perché da lì parte la nostra trasformazione.
Ogni domenica a Messa, sentiamo ricordare i gesti e le parole del vangelo di oggi: “prese i pani, rese grazie e li distribuì”. Ma l’importante è capire che ogni domenica, in chiesa, noi non prendiamo solo il pane eucaristico, ma prendiamo nelle nostre mani anche la nostra vita così com’è, e dobbiamo ringraziare Dio per questo grande dono.
Capita spesso invece che, guardando alla nostra vita, ne rimaniamo delusi: “Non sono proprio nulla! Cosa posso pretendere da me?”. Praticamente non accettiamo di vederci chiamati a condividere i nostri cinque pani e due pesci, con gli altri cinquemila fratelli; non accettiamo di venire sollecitati magari dall’esempio degli altri, da quanto fanno i nostri vicini, i nostri amici, tutti quelli che frequentano la nostra parrocchia, in una parola tutte le persone che vivono con fede la loro chiamata. Allora giustifichiamo la nostra inattività con i confronti: “Io non ho il loro talento, non ho la forza, non ho la loro volontà, la simpatia, la cultura; non ho la loro esperienza, la fantasia, il dinamismo, le loro qualità...”. In pratica ci nascondiamo dietro un dito; giustifichiamo le nostre paure, evidenziando le qualità che riconosciamo negli altri e non in noi stessi. Alla fine però, il vero vincente non è colui che si ferma a guardare gli altri, ma colui che, prendendo coscienza delle proprie potenzialità, impegna seriamente i propri carismi, le proprie forze, costruendo la vittoria con i fatti e non con le buone intenzioni.
Allora, invece di lamentarci, pensiamo piuttosto a cosa potrebbe succedere se accettassimo quel poco che siamo, se cominciassimo seriamente a benedirlo, a valorizzarlo, a metterlo a frutto. Impariamo sul serio a valorizzare e ad amare ciò che siamo! E ringraziamo comunque Dio!
Anche i discepoli non credevano nelle loro possibilità: di fronte a quella folla e all’invito di Gesù di sfamarla con la miseria che avevano tra le mani, sicuramente si saranno messi a ridere; o avranno pensato: “Ma dai, Gesù, non prendiamoci in giro!”. Ma poi… conosciamo il finale! Ebbene, pensiamo seriamente a quello che succede ancora oggi, ogni volta che andiamo a Messa: Gesù ripete lo stesso miracolo della “moltiplicazione”, trasforma la sostanza di quel pane, che è ben poca cosa, nel suo Corpo, e lo divide fra tutti. Un niente che diventa “Tutto per tutti”. E non basta: oltre al pane, Gesù trasforma anche noi, uno per uno, singolarmente: perché, assumendolo, Egli ci tocca dentro, ci scuote, ci commuove: basta saperlo ascoltare; il suo è un tocco d’Amore che ci cambia il cuore, ci travolge l’anima, ci impedisce di essere quelli di prima, ci guarisce, ci risana; insomma ci fa diventare “nuovi”, radicalmente diversi.
E se crediamo, allora ci accorgeremo che quel niente, quel nulla che siamo, con Lui diventa ogni volta davvero tantissimo, una immensità! Amen.

giovedì 24 luglio 2014

27 Luglio 2014 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-52).
Il vangelo di oggi ci presenta tre piccole parabole: tesoro, perla e rete. La prima e la seconda sono molto affini. Anche se Gesù le deve aver dette in occasioni diverse, il tema è lo stesso: imbattersi in qualcosa di grande valore. E su queste vorrei fissare l’attenzione.
L’uomo della prima parabola è un contadino che un giorno, mentre ara un campo, trova un tesoro prezioso, una grande fortuna: vende tutto quello che ha e compra quel campo. La seconda parabola racconta invece di un commerciante alla ricerca di perle preziose. Trovatane una particolarmente splendida, vende tutto pur di comprarla
Il primo uomo trova il tesoro casualmente; il secondo, la trova dopo una lunga e accurata ricerca. Ciò che conta è che entrambi trovano qualcosa dal valore assoluto, di fronte al quale tutto il resto svilisce. Non c’è prezzo per ciò che trovano, non c’è niente che tenga di fronte alla scoperta, non c’è confronto o paragone con nessun’altra cosa di fronte a quella perla e a quel tesoro.
Entrambe le parabole ci dicono in sostanza che Dio, il regno dei cieli, non è automaticamente raggiungibile, è un tesoro che va comunque cercato, perché è un qualcosa di meraviglioso, di incredibile, un qualcosa che non è paragonabile a niente: è talmente importante che per ottenerlo è preferibile distaccarsi da tutto quello che abbiamo. Insomma è una realtà talmente affascinante che ci assorbe e coinvolge completamente: e quindi dobbiamo puntare e investire tutto in Lui.
Ma in cosa consiste questo regno dei cieli? È il Dio che ci abita dentro. Una volta che lo abbiamo incontrato, che lo abbiamo sperimentato, sarà impossibile lasciarlo. Perché Lui ci stima, ci ama, ci spinge ad osare, a diventare noi stessi, a realizzarci, a cercare. Ci fa sentire vivi, vibranti; con Lui ritroviamo la nostra autonomia di vita e di pensiero, diventiamo liberi, vinciamo le paure, ci incamminiamo nel sentiero dell’autenticità, e sentiamo il fuoco della vita e dell’amore dentro di noi.
È impossibile dimenticarlo, perché Dio imprime un segno indelebile dentro di noi. Quando ci parlano di Lui, su come trovarlo e mantenerlo, sentiamo insistere continuamente sulla necessità di preghiere, di riti, di liturgie appropriate: ma Dio non è un qualcosa di statico, fermo, immobile, che aspetta le nostre incensazioni. Dio è dinamismo, è un “incontro”. A volte casuale, a volte voluto disperatamente. E, incontratolo, non è difficile seguirlo, non è affatto impegnativo, non richiede da parte nostra un grande sacrificio: perché Lui con la sua presenza ci riempie il cuore, la vita, ci inebria, ci fa innamorare, ci dà ciò che nessun altro può darci. Lui è amore, è passione che travolge, è necessità di vita. Perché gli apostoli lo seguivano? Perché lui era per loro come l’aria, era la vita, era tutto.
Dio, dunque, è il nostro tesoro nascosto: ma noi? cosa cerchiamo noi? Lui è là che ci aspetta, ma a noi quanto importa? Certo, se continuiamo a cercare soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, tranquillità, non ci accorgeremo mai di Lui: il tesoro è lì vicino, ma non lo troveremo mai, perché cerchiamo altro, siamo attratti da tante altre cose.
Scendiamo nel concreto: chi o che cosa cerchiamo noi in realtà? Meglio: dove cerchiamo? Perché se pensiamo che la felicità risieda in qualche persona, o in qualcosa “fuori” da noi, cercheremo invano, continueremo a cercare tutta la vita senza trovare nulla, perché ciò che cerchiamo non è fuori di noi ma dentro di noi. Il tesoro è nascosto in noi; siamo noi stessi il tesoro: è quell’immagine, quella somiglianza divina, impressaci da Dio fin dalla nascita, che noi con la nostra vita dobbiamo scoprire e fare nostra ad ogni costo. La perla siamo noi. Ecco perché dobbiamo cambiare metodo di ricerca, ecco perché la nostra vita deve necessariamente cambiare. Anche se gli altri ci deridono, anche se ci prendono per fuori di testa.
Anche i due uomini del vangelo si comportano da folli, da pazzi, pur di entrare in possesso del “tesoro”: lasciano il certo per l’incerto, vendono tutto quello che hanno, si liberano di tutto, pur di arrivare a quel tesoro di cui ancora non conoscono il valore. Cose da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, per i folli, perché non ci chiede qualcosa, ma pretende tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale, lo vuole tutto, lo vuole completo.
Tutte le cose che possiamo conquistare durante la nostra vita, hanno certamente un valore, ma è un valore legato alla provvisorietà: ci coinvolgono sul momento, per poi dimostrarsi effimere, e cadere nell’indifferenza, nella dimenticanza, nella caducità; perdono insomma la loro attrattiva, il loro interesse, il loro richiamo. Ci sono anche eventi molto importanti che ci segnano per tutta vita, è vero; fatti che ci cambiano intimamente, in profondità: come l’amore sincero del partner, un matrimonio felice, la nascita dei figli; ma anche queste realtà così vitali sono destinate, prima o poi, a finire, a concludersi: i figli stessi, pur coinvolgendo profondamente tutta la nostra vita, non sono per sempre: un giorno anch’essi se ne andranno. Ebbene, Dio è molto di più di tutte queste cose “transitorie”: più coinvolgente di un figlio, più importante di un partner, più impegnativo di un matrimonio. Egli non esclude dalla nostra vita niente di tutto questo; Egli ci lascia godere di tante cose belle, essenziali per la nostra vita: ma ciò che oggi dobbiamo capire dal vangelo, è che Lui è la “cosa” più bella in assoluto: che Lui viene al primo posto nella scala dei valori, è più importante di tutto, al di sopra di tutto, perché Lui va oltre i nostri limiti: non esiste per Lui un “termine” temporale, dopo il quale verrà meno, sparirà, lasciandoci soli. Una volta che l’avremo trovato – e per trovarlo dobbiamo rinunciare a tutto - Egli rimarrà per sempre nostro, nostro in assoluto, continuerà ad essere sempre per ciascuno di noi il “tesoro prezioso”, anche oltre il tempo, oltre i nostri giorni terreni.
Dio infatti non è un qualcosa di esterno, di altro da noi; ripeto: Dio non è una preghiera o una professione di fede; non è un credo o un sistema di riti. Dio è Qualcuno che ci prende totalmente, che ci coinvolge, che ci vuole trasformare, cambiare, che non ci farà più essere quelli di prima, che cambierà radicalmente il nostro modo di pensare, di sentire, di vivere. Dio non vuole un’ora di preghiera al giorno; Dio non vuole una parte (magari anche grande) della nostra vita: lui la vuole tutta. Lui vuole “sposarsi” con noi, vuol fare alleanza con noi, vuole rapirci, prenderci, assorbirci completamente.
Però per trovare questo Tutto, e concludo, dobbiamo essere disposti a giocarci il tutto. Si narra in proposito che un giovane monaco facesse ogni giorno la stessa domanda al suo maestro: “Come posso trovare Dio, il “tesoro” del vangelo?”. E ogni giorno riceveva la stessa risposta: “Devi desiderarlo”. “Ma io lo desidero con tutto il mio cuore, eppure non lo trovo!” insisteva il discepolo. Un giorno, mentre entrambi si stavano lavando nel fiume, il maestro prese la testa del giovane tra le mani, la spinse sott’acqua, e ve la tenne con forza mentre il poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi. Il giorno dopo fu il maestro a domandare: “Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la testa sott’acqua?”. “Perché cercavo disperatamente l’aria!”, rispose. “Ebbene: quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l’aria, allora l’avrai trovato!”. È tutto chiaro, vero? Se lo cerchiamo anche noi in questo modo, sicuramente lo troveremo. Amen.

giovedì 17 luglio 2014

20 Luglio 2014 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò.» (Mt 13,24-43).
È la parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non l’abbiano capita, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con Gesù. Infatti, è una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà di difficile gradimento.
C’è un uomo che ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico di notte semina la zizzania. La zizzania è una graminacea - molto simile al frumento e quindi impossibile da distinguere finché non arriva a maturazione - i cui grani nerastri sono tossici e hanno un effetto narcotizzante. Il riferimento al male è evidente. È naturale che la prospettiva dei buoni (i discepoli) di dover convivere con i cattivi (i “nemici”di Gesù) non è condivisa dai primi. Sarebbe preferibile metterli immediatamente fuori causa. Ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) a priori, sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il grano, poiché le radici di entrambi gli elementi sono strettamente intrecciate l’un l’altra. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; e soprattutto “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va coltivato e cosa no.
Praticamente, con questa parabola, Gesù mette in guardia gli apostoli dalla tentazione, sempre presente in ogni comunità religiosa, da che mondo è mondo, di sentirsi gli autentici rappresentanti della buona novella, i soli protagonisti, cioè, in grado di formare un gruppo di eletti, di gente superiore, di elementi migliori,che pensano di essere i soli meritevoli della “salvezza”. Dio però, dice Gesù, non fa queste differenze, non divide i buoni dai cattivi; Egli “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”.
Per tutta la sua vita Gesù ha infatti combattuto contro questa “presunzione”, contro quelli che si ritenevano giusti, bravi, buoni e che condannavano tutti gli altri come peccatori, come gente persa, sbagliata, da convertire o da condannare. Farisei, scribi e maestri della Legge erano davvero maestri in questo: ma la stessa tentazione iniziava ad insinuarsi anche fra gli apostoli, proprio perché, seguendo il maestro da vicino, si ritenevano in qualche modo superiori agli altri, più degli altri, e rischiavano di cadere nello stesso errore.
Un errore, questo, una ideologia, che ha avuto grande seguito nei secoli successivi, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, quanti “difensori” della fede e di Dio hanno ucciso, condannato, fatto guerre per estirpare il male, gli “eretici” del mondo? La fanatica volontà di fare il bene a tutti i costi, di eliminare ogni male, ha creato guerre sante, rivoluzioni, epurazioni, stermini razziali, camere a gas, inquisizioni, la caccia alle streghe e le peggiori crudeltà. Una religione che si ritenga superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità crea inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: buoni e cattivi, gente salvata e gente condannata. Ma Dio, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha mostrato un Dio come questo; anzi Lui è venuto per tutti, per salvare tutti, proprio tutti.
Cosa suggerisce allora, in particolare, questa parabola a noi, discepoli di oggi? Che quel campo siamo noi, e che nel nostro campo, nella nostra vita, convivono grano e zizzania. È un dato di fatto. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di essere soltanto grano scelto. Siamo purtroppo anche zizzania, a volte della peggiore, e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche nei nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma Gesù. “Se vuoi essere solo grano ed estirpare tutto il non-bene che c’è in te, non ti rimarrà niente di niente. Accettati con le tue potenzialità, con i tuoi doni, con le tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Quindi, non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”.
Gesù, con questa parabola, vuole infatti rispondere a tutti i perfezionisti, a tutti coloro cioè che pretendono e cercano in loro stessi il puro bene, il puro amore, la pura fede, la pura preghiera: tutte cose che da sole, divise dal male, dalla debolezza, dalla caducità umana, non esistono.
Per questo motivo dobbiamo individuare bene in noi, quale tipo di perfezione stiamo cercando. È importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la volontà di Dio; un altro è mirare alla perfezione (=“fare-per, fare-per-uno-scopo”) da “perfezionista”, avendo cioè come risultato, quello di soddisfare sempre più il nostro “ego”, aumentando a dismisura la nostra autostima, attraverso il riconoscimento e l’ammirazione degli altri. Il perfezionista, peraltro, è monolitico: divide il mondo in buoni e cattivi. Punto. Non ci sono mezze misure per lui. La sua vita è continuamente sotto stress, in ansia; le sue vertiginose aspirazioni lo fanno sentire incompleto, insoddisfatto, perché in ogni caso la sua ricerca è volta al finito, non all’infinito, a Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato solo all’esterno: non si chiede mai cosa gli comanda la sua coscienza, cosa gli suggerisce il suo cuore e, soprattutto, cosa gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
Perfezione, per noi cristiani, è dunque attuare, concretizzare nella nostra vita, in semplicità e umiltà, quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma fatto a nostra misura, che tiene conto di tutti i nostri difetti, di tutte le nostre miserie, di tutte le nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio da persone nient’affatto perfette: peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli teme invece quando noi partiamo per la tangente e, insofferenti del nostro stato (un mix di grano e zizzania), vogliamo diventare “perfetti” oltre ogni misura, pretendendo di estirpare da subito la zizzania, stravolgendo la nostra “umanità”.
Un santo monaco raccontava in proposito: «Un giorno anche il demonio volle provare a creare un uomo. Disse: “Voglio creare un essere perfetto, bello, puro, incontaminato dal male e dal negativo”. Ma dopo averlo creato lo guardò e iniziò a dubitare. Aveva gli occhi e poteva vedere le nudità delle donne: “Oddio, che pericolo”, disse tra sé. Così glieli tolse. Ma aveva anche le mani e avrebbe potuto usarle per derubare i suoi simili, uccidere e ferire: “Oddio che rischio”, e gliele tolse. Ma poi si accorse che aveva la mente: e la mente può essere ancor più crudele, può ingannare, può essere menzognera, può organizzare crudeltà immani. E così per sicurezza gliela tolse, e per essere sicuro e non sbagliare gli tolse tutta la testa, “perché non si sa mai!”. Infine si accorse che l’uomo aveva un cuore: “Oddio!”, questo era veramente il pericolo più grande. “Un cuore!? Con il cuore può lasciarsi andare alle passioni, può lasciarsi trasportare dall’ira, può innamorarsi di persone sbagliate, può amare in modo perverso. È troppo pericoloso il cuore. Per il suo bene glielo devo togliere”. E così glielo tolse, e dell’uomo non rimase nulla, proprio nulla. Per salvarlo, l’aveva ucciso».
L’uomo “perfetto” dunque non esiste: tutti noi siamo esposti ad ogni tipo di prova: l’importante è superarle e trasformarle tutte in opere d’amore.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, ma con un velo di tristezza gli disse: “È vero, ma sono anche vuote”.
Allora non perdiamo tempo ad angustiarci per non essere puri, immacolati, senza ombra alcuna. Accettiamo umilmente la nostra debolezza, la nostra imperfezione; concentriamoci piuttosto sul nostro “grano” da coltivare e far comunque crescere. Ecco, questo è l’importante; perché possiamo fare un sacco di bene, possiamo mirare alla perfezione, anche se nella nostra vita, nel nostro campo, c’è tanta, ma tanta “zizzania”! Amen.

giovedì 10 luglio 2014

13 Luglio 2014 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…» (Mt 13,1-23).
Siamo nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Che succede qui esattamente? Gesù parla in “parabole”, servendosi cioè di storielline tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli riusciva più facile (e gli riesce ancora oggi) far capire i suoi profondi insegnamenti anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la parabola infatti può essere giudicata puerile, un po’ stupida, da chi si ritiene “superiore”, da chi la accantona a priori, non volendo lasciarsi coinvolgere; ma è profondissima e comprensibilissima per chi vi entra dentro con il cuore; se non la capiamo, vuol dire che il nostro cuore è chiuso, è ottuso: è perché non la vogliamo capire. “Chi ha orecchi intenda”: c’è tanta luce per chi vuol vedere, e tanto buio per chi non vuol vedere.
Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene: la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge sul terreno la semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade sulla poca terra che li ricopre; ma in fretta il seme inaridirà; in realtà i sassi rappresentano i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; sono le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Bene: noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che, nonostante tutto quello che ho fatto, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non è successo assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è sempre una piccola parte che nasce, cresce, e col tempo matura. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi entrare nella stessa parabola mettendoci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono nato? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In che cosa devo crescere, cosa devo far vivere, sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella che è solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? Qual è il mio carisma?” È molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo che non si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, è la copia di un qualcosa che già c’è: è quindi inutile.
Del resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare, presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una nostra risposta!
C’è infine una terza possibilità nel leggere questa parabola: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porsi sono: “Che terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo per esempio questo principio a tutti coloro che si avvicinano a questo “commento”: è impossibile che esso produca per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima: vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”. Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo forte e invadente: “Ma credi ancora a queste cose? Ma sì, è uno che parla tanto, ma non tiene conto che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio appena nato, morirà. È il terreno “con le spine”.
Può darsi infine che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, escano da questa pagina completamente rinnovati; in futuro non saranno mai più come sono entrati. Il motivo? Perché hanno riconosciuto in queste povere parole la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso testo di commento, lo stesso passo del vangelo, hanno ottenuto risultati diversi: perché sono le persone a non essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma le credenze, le chiusure, i blocchi, i pregiudizi delle persone no. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno. Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se noi riconoscessimo di essere insieme tutti e quattro i terreni di questa parabola? Allora essa ci aiuterebbe comunque ad affrontare e ad accettare, oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Non dobbiamo pensare di essere dei falliti, guardando ai frutti negativi prodotti dalla nostra vita; perché i pochi risultati positivi sono già sufficienti a dare un senso a tutta una vita.
E concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non portiamo frutto in ogni settore della nostra vita. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente aridi. Dobbiamo certo provare continuamente a migliorare, ad essere più accoglienti, ma non pretendiamo la perfezione in assoluto: perché anche una piccola parte sana, una piccolissima parte fertile e fruttifera della nostra anima, deve bastare ad infonderci coraggio, a farci guardare avanti con fiducia e umiltà: non deprimiamoci, non rinunciamo a combattere: perché la nostra vita ha comunque un senso, ha comunque uno scopo, nonostante i nostri fallimenti, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Una piccola fecondità (un terreno su quattro) - ci insegna il vangelo - è già di suo una grande fecondità. Amen.