venerdì 17 gennaio 2014

19 Gennaio 2014 – II Domenica del Tempo Ordinario


In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!... [e] testimoniò dicendo: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,29-34).
Il Battista, nel vangelo di oggi, dice: “Io ho visto e ho testimoniato”. Troppo spesso le persone parlano per sentito dire. Allora bisogna chiedere: “Quel che dite l’avete visto voi? Voi c’eravate?”. “No, ma l'abbiamo sentito dire... tutti ne parlano...”. “Ma voi c’eravate?”. “No, ma che significa?”. “Significa che dovete starvene zitti”.
Testimone è solo colui che ha visto, che ha toccato con mano, non colui che crede, che pensa, che ipotizza, che interpreta. Per questo il Battista è sicuro, certo, perché ha visto.
E noi, cos’abbiamo visto di Dio? Come possiamo dire di conoscerlo? L’abbiamo mai incontrato? Troppa gente pretende di parlare di Dio: ma parla a vanvera, dice solo stupidaggini, fa solo chiacchiere; perché in realtà non ha mai “incontrato” Dio. Per parlare di Dio, bisogna prima incontrarlo: “Se l’hai incontrato, allora Dio esiste, altrimenti no”, diceva André Frossard nel suo libro: “Dio esiste io l’ho incontrato”.
Allora la domanda che spesso ci poniamo: “Ma io, conosco Dio? Io credo in Lui?”, è una domanda mal posta. La domanda giusta è: “Cos’ha fatto Dio per me? Riconosco in me, nella mia vita, l'opera continua di Dio?” Perché solo se lo abbiamo incontrato personalmente possiamo testimoniarlo; solo se abbiamo “visto”, sappiamo!
Il Battista dunque rende testimonianza a Gesù: “È lui l’agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo”. È l’espressione, centro del vangelo di oggi, che anche noi ripetiamo tre volte durante la Messa. Ma che vuol dire “agnello di Dio”?
Gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame; conoscevano bene agnelli, pecore e capre. Conoscevano il Salmo 22: “Il Signore è il mio pastore”. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua immolavano (tutt’oggi) per ricordare l’uscita dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio sul quale - ogni anno, il giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) - venivano caricate simbolicamente tutte le colpe del popolo, e poi veniva mandato a morire nel deserto. È infatti da questo fatto che è nata l’espressione “il capro espiatorio”: la persona cioè che prende su di sé tutte le colpe degli altri... le colpe non sue. Era un rito primitivo, per liberarsi dalle proprie colpe. Del resto tutti i popoli, in ogni tempo, hanno sempre offerto sacrifici a tale scopo, per liberarsi dalle proprie colpe: “sacrifico qualcosa di caro, d’importante, perché Dio abbia misericordia di me e perdoni i miei errori”. E di errori ne commettiamo veramente tanti, soprattutto quando pretendiamo di insegnare a Dio come deve fare il suo mestiere.
Dovremmo essere come l’acqua che si adatta ad ogni recipiente: invece no: vogliamo essere noi a decidere e stabilire cosa è buono per noi e dirigere la nostra vita. Ma allora che significato ha “credere in Dio” se poi siamo noi e non Lui a dirigere la nostra vita?
Quante volte scontrandoci con i fatti quotidiani diciamo: “Questo non è giusto!”. Quante volte diciamo: “Perché Dio mi tratta così?” Quante volte esclamiamo: “Ma perché Dio si vendica con me? È proprio cattivo!”. E se invece fosse che Dio ci sta chiamando? E se invece dovessimo passare proprio di là? Allora non imprechiamo mai, non chiediamo ragione a Dio di tutto ciò che ci succede. Diciamo piuttosto: “Cosa devo imparare? In cosa devo migliorare? Qual è l’insegnamento che devo ricavare da quanto mi succede nella vita?”.
Del resto, ogni tappa, ogni passaggio che dobbiamo superare nella nostra vita ci costringe a fare delle scelte, ci costringe a far morire qualcosa di noi. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire qualcosa, vuol dire sacrificare il proprio agnello.
L’agnello, allora, è il sacrificio; è cioè il dolore (l’agnello, simbolo della vulnerabilità, della debolezza), che devo pagare; è il soffrire, per crescere, per evolvere, per diventare spirituale, puro. Nella nostra vita abbiamo sempre avuto paura di fare una scelta difficile, controcorrente: ebbene, l’agnello è il prezzo della libertà interiore. Abbiamo sempre temuto di dire di no agli altri per non farli soffrire: l’agnello è il prezzo dell’autonomia. Abbiamo sempre voluto pianificare e decidere tutto: l’agnello è il prezzo della fede.
Nel mondo dello spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande (l’amore disinteressato) dona anche la felicità e la pace più grande.
Ma, ripeto, perché paragoniamo Dio ad un “agnello”?
Agnello, in ebraico, si dice con la parola “taljah” che vuol dire sia “agnello” che “servo”. Probabilmente Giovanni Battista quando parlava di Gesù intendeva non tanto l’agnello, quanto il “servo di Dio”. Con il tempo però i cristiani lessero la parola “taljah” solo come agnello. D’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui sgozzavano gli agnelli? Gesù quindi è il nuovo, ultimo e definitivo agnello, che toglie il peccato dal mondo.
È vero che l’espressione della Messa “Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, per noi vuol dire: “Ecco Colui che è morto a causa dei nostri peccati; Ecco Dio che si è sacrificato per noi”.
Ma questa espressione significa anche tutt’altro; significa un po’ il contrario di quello che normalmente pensiamo. Vuol dire infatti: “Dio è buono come un agnello; Dio non ti farebbe mai del male; Dio è bontà, è tenerezza; Dio non è vendicativo: non te la fa pagare se lo ferisci; Dio non è geloso: non si arrabbia se vuoi bene ai tuoi cari, al tuo prossimo, come a Lui. Dio non è violento: non vorrà mai la tua sconfitta”.
Gesù dunque era “l’agnello”, in quanto immagine e simbolo della bontà; l’agnello non fa paura: Dio è così. Per nessun motivo al mondo dobbiamo temere. Lui non tradisce, Lui non volta le spalle, Lui sta sempre dalla nostra parte, Lui non ci abbandona mai. L’agnello è simbolo di dono: il latte, la lana e la carne; Dio è così: tutto quello che Lui ha ce lo dona. Lui vuole che noi siamo felici, felici al massimo, che siamo inebriati di vita.
Noi oggi possiamo dire ancora meglio, possiamo paragonare Gesù ad “un abbraccio”: è infatti tra le sue braccia, stretti a Lui, che possiamo veramente sentirci accolti, accettati, avvolti, riconosciuti, stimati, amati.
Quando ogni domenica ripetiamo le parole: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo...”, non dobbiamo cadere in ansia per le nostre debolezze, per le nostre umane infedeltà: ci devono invece rassicurare. Dio è un agnello che ci viene incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha, perché possiamo vivere e vivere al massimo; perché cresciamo, ci espandiamo, siamo noi stessi; perché amiamo e siamo amati. Se Dio viene paragonato ad un agnello, vuol dire che Dio è buono. Cosa ci può mai fare un agnello? Un leone, un lupo, una tigre, sono pericolosi, ci possono fare del male. Ma un agnello? Dio è così.
Allora andare a fare la comunione, è come andare dalla persona amata: una gioia, un’attesa, un’aspettativa. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia della mamma: lì sentiamo quanto valiamo, quanto siamo belli e amati. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: ci sentiamo sempre al sicuro.
Certo, Dio è anche l’Agnello che toglie i nostri peccati: le nostre scelte sbagliate ed egoistiche, le nostre paure di donarci, i blocchi d’amore del nostro cuore, i condizionamenti negativi del nostro spirito. Ma a Lui interessa più la nostra salvezza che il nostro castigo; innamorato come una Madre, buono e rassicurante come un Agnello, ci prende per mano per aiutarci ad affrontare e superare tutto questo.
Dio infatti si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, intransigente. Ma che può farci un bambino? E se pure qualche volta ci mette alle strette, se ci da una qualche tirata d’orecchie, se insomma talvolta è fermo, esigente con noi, è solo per amore, perché ci ama veramente, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici.
C’è una storia andina che racconta di una banda feroce di predoni che, scesa dalle alte vette delle Ande, attaccò un villaggio, e portò via tutte le ricchezze degli abitanti e anche un bambino. La gente del villaggio formò subito una squadra per andare a riprendersi almeno il bambino; ma erano contadini, inadatti a scalare le alte vette delle montagne. Ci provarono comunque: tentarono in tutti i modi a scalare quelle rocce. Ma tutto fu inutile: dopo giorni e giorni di tentativi erano ancora bloccati a metà strada. Ad un certo punto rimasero tutti sbigottiti vedendo la madre del bimbo che scendeva dalla vetta con il figlio in braccio; era salita da sola fin lassù. Le corsero incontro e le chiesero: “Come hai fatto a salvarlo? Noi che siamo in tanti, uomini forti e vigorosi, non ci siamo riusciti; tu da sola, sì?”. E lei: “Era mio figlio!”. Ebbene, Dio è come quella madre: e noi siamo i suoi figli. Amen.

venerdì 10 gennaio 2014

12 Gennaio 2014 – Battesimo del Signore

«Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui» (Mt 3, 13-17).
Oggi il Vangelo ci parla del Battesimo di Gesù: egli parte dalla Galilea per raggiungere le acque del Giordano e farsi battezzare dal Battista: questi però è riluttante a farlo, in quanto vede in Lui quel “più forte di me”, in grado di battezzare non solo nell’acqua ma “in Spirito Santo e fuoco”, come Matteo ci dice nei versetti immediatamente precedenti al testo di oggi.
Sono parole molto chiare e programmatiche, in quanto rivelano la necessità per il cristiano di sottoporsi a un duplice battesimo: uno d’acqua e uno di “Spirito Santo e fuoco”.
Cosa vuol dire: vuol dire che con il battesimo d'acqua noi “nasciamo in Cristo”, iniziamo cioè il nostro percorso di sequela; siamo abilitati a fare la nostra corsa, a combattere la nostra “buona battaglia”. Ma è con il secondo, con il battesimo di fuoco, che noi diventiamo veramente “figli di Dio”: è il superamento della prova che ci saggerà come “oro nel crogiuolo”, trasformandoci in “olocausto” a Dio, rendendoci graditi a Lui; in altre parole significa che soltanto testimoniando con il nostro comportamento, con la nostra vita, ciò in cui crediamo, dimostreremo di essere fedeli fino in fondo a quel Qualcuno che ci appassiona dentro. Un battesimo, questo, chiaramente determinante e irrinunciabile, pur essendo in assoluto anche il più difficile.
È noto infatti come la “chiamata” (il battesimo d'acqua) dei grandi personaggi della Bibbia, sia stata sempre accompagnata da prove, da percorsi difficili, duri, faticosi, nei quali Dio ha forgiato e purificato il suo prediletto. Lo stesso Gesù ce ne indica l’importanza e la necessità: all’inizio della sua predicazione Egli infatti si “immerge nel Giordano”, scende cioè in quelle acque, che rappresentano il collettore di tutte le nefandezze umane: con questa doppia sottolineatura (il nome Giordano, yared, vuol dire appunto immergersi) viene sottolineata la Sua consapevole decisione, per il pieno adempimento del Suo mandato, di calarsi in una situazione di particolare sofferenza; di “immergersi” cioè nella fatica, nelle contrarietà, nelle pene, nelle incomprensioni di questo genere umano, talmente a lui ostile, da cercare di ucciderlo fin dai primi giorni della sua nascita.
Ora, con il nostro battesimo d’acqua, noi siamo diventati cristiani. Siamo stati cioè “generati” alla fede, aggregati alla Chiesa di Cristo. Ma non è questo il punto determinante, il traguardo finale. Abbiamo appena superato il casello di ingresso dell’autostrada che conduce alla piena figliolanza con Dio. La strada è tutta da percorrere. Non enfatizziamo troppo questo nostro battesimo d'acqua, questo inizio; non illudiamoci di aver assolto con esso ogni nostro “dovere” di credenti. Il vero battesimo, quello che ci rende cristiani a tutti gli effetti, è quello di fuoco: è, cioè, quella rinascita interiore, quel rigenerarci, quel ricostruirci che ci rende esattamente ciò che Dio si aspetta da noi; è insomma quel rispondere con la vita vissuta alla sua chiamata individuale, quella chiamata “formale” che Lui ci ha rivolto con il battesimo d’acqua.
Significa, in altre parole, passare dalla teoria alla pratica, dal poter essere cristiani, all’esserlo realmente, nella pratica; un passaggio che può avvenire soltanto attraverso il “fuoco”.
Non per nulla la radice della parola ebraica “fuoco” (a-sc) è presente in ebraico sia nella parola uomo (a-i-sc) che donna (a-sc-ha). Per diventare noi stessi, quindi, non importa se siamo uomini o donne, dobbiamo necessariamente passare attraverso il “fuoco”, attraverso il “battesimo dello Spirito”.
Gesù è molto chiaro in proposito: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso. C'è un “battesimo” che devo ricevere; e come sarò angosciato, finché non sarà compiuto. Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, la divisione...”. “Non sono venuto a portare la pace ma una spada...”.
Il nostro vero battesimo, pertanto, coincide con una nostra vita forgiata attraverso le difficoltà, il nostro costruirci spiritualmente, il nostro personalissimo rispondere con i fatti alla chiamata di Dio.
Smettiamola quindi di pensare che, per il semplice fatto di essere battezzati, siamo automaticamente cristiani. Quando le inchieste ci documentano che il 95% degli italiani sono cristiani, affermano il falso. Il 95% degli italiani sarà stato anche battezzato con l'acqua, ma per essere veri cristiani quello che serve è il battesimo del “fuoco”, è diventare “immagine” di Dio. E non possiamo certo riconoscerci in tali percentuali.
La gente è ancora convinta che seguire Gesù sia una cosa semplice, tranquilla, automatica. Basta appunto essere battezzati, fare qualche pratica religiosa, andare ogni tanto a messa, dire qualche preghiera, e il gioco è fatto. Nossignori: seguire Gesù significa “fuoco”. È quella passione che corrode, che ci brucia dentro, che non ci fa stare zitti di fronte al male, alle ingiustizie; che non ci fa assistere indifferenti ad una società che uccide l'anima degli uomini; a genitori irresponsabili che trattano i loro figli come delle marionette, dei burattini, disinteressandosi di impartire loro una benché minima formazione morale. “Fuoco” è quella passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non essere concilianti con chi oltraggia impunemente Dio e la sua legge, con chi cerca di sovvertire i suoi precetti morali. Potremmo benissimo starcene in disparte e farci gli affari nostri (“non tocca mica a me!”); invece no. Quel “fuoco” ci costringe a rispondere d’istinto, a metterci in gioco, rischiando in prima persona.
Passare attraverso il “fuoco” significa anche purificarsi, bruciare tutto ciò che di impuro c'è dentro di noi; significa renderci conto che noi, e non gli altri, siamo invidiosi, siamo in continua competizione, siamo tremendamente gelosi. Che noi, e non gli altri, siamo incapaci di amare: perché vogliamo solo possedere, gestire, manipolare. Che noi, e non gli altri, abbiamo bisogno dell'umiltà per cambiare, per crescere, per migliorare e trasformarci.
Non è facile cambiare, amici miei. Non è piacevole vedere certe cose dentro di noi. Per questo seguire Gesù è e sarà sempre difficile, impegnativo; un lavorio costante, senza interruzioni. E questo non è affatto una cosa facile, di poco conto! È certo una esperienza entusiasmante, passionale, che ci dà la sensazione di vivere in piena libertà, che ci fa capire che la nostra vita ha finalmente un senso: ma vi assicuro, non è una impresa facile. Un santo vescovo soleva dire: “Pensavo che la mia vita fosse la dimostrazione di una fede forte; invece era solo una buona salute, con una discreta faccia tosta”.
La parola greca baptizein (yared in ebraico) corrisponde, come ho detto, al nostro immergersi, entrare dentro. Un significato con due sfumature: la prima è “entrare dentro nel sociale”, immergersi nelle esigenze del prossimo, rispondere alle loro chiamate di vita, calarsi insomma in un particolare contesto storico. Quante persone, in questo senso, non hanno “fuoco”, non hanno anima, non hanno niente dentro di sé. Trascinano stancamente, giorno dopo giorno, l'inutilità di una vita che progressivamente si spegne nella routine delle solite cose. Non si sono “immersi”, non hanno superato il “battesimo di fuoco”, non hanno dato cioè una impronta propositiva alla loro vita, mettendola a beneficio della collettività. “Fuoco”, in questo senso, significa proprio “solidarietà”: ciò che succede agli altri ci deve interpellare direttamente, esige una nostra immediata risposta del tipo: “Io ci sono. Io ti aiuto. Io mi metterò dalla tua parte”. Solidarietà vuol dire: "Io ho un cuore che pulsa, che ama, che si appassiona. Non posso rimanere indifferente di fronte a quanto di male ti succede. Io sono al tuo fianco!”
La seconda sfumatura di “immergersi” è “scendere dentro di noi”, entrare nella nostra anima, individuare i nostri demoni, conoscerli, sfidarli, batterli.
Tutti abbiamo dei demoni con i quali fare i conti: l’odio, l’invidia, i complessi opposti di inferiorità o di superiorità, la rabbia, la gelosia, l’ansia distruttiva; un cuore freddo, gelido, dominato dalla paura folle dei sentimenti e delle emozioni, ecc… Tutti dobbiamo passare di lì, tutti dobbiamo immergerci nel nostro Giordano per confrontarci con essi. Perché fino a quando non li avremo affrontati e “bruciati”, saranno loro a dominarci.
Vivere nel divino, essere grandi, non è essere perfetti, aver vissuto senza macchia; ma aver percorso con fatica il proprio “battesimo di fuoco”, individuando quelli che sono i nostri demoni e sconfiggendoli; non è essere infallibili, ma avere l'umiltà di riconoscerci peccatori e rimediare ai nostri errori; non è andare avanti sempre e comunque per la stessa strada, ma avere il coraggio di fermarci, ed eventualmente di cambiare direzione. Dio non ci ama perché siamo perfetti: Dio ci ama perché siamo come siamo. Figli suoi.
Un altro elemento del vangelo di oggi, che ci fa meditare, è infatti quella voce che esclama: “Tu sei il mio figlio prediletto”. È il Padre che parla, e Gesù a quelle parole si sente amato, si sente protetto, si sente al sicuro con Lui.
Ebbene, sono parole che valgono anche per tutti noi. Sono rivolte a tutti; perché tutti siamo i figli di Dio, amati e prediletti. Quella stessa voce dice a ciascuno di noi: “Tu sei l’amato... sei il mio figlio prediletto... sei grande ai miei occhi... non ti lascerò... sei importante per me... non ti abbandonerò... non mi devi raggiungere: sono già tuo... tutto ciò che esiste l'ho fatto per te... sei sempre nei miei pensieri... per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio...”. Certo, se credessimo veramente a queste parole, nulla potrebbe più farci paura. Non avremmo più nulla da temere.
Noi abbiamo imparato sulla nostra pelle che nulla si ottiene gratuitamente dalla vita: l’amore, l’amicizia, l’ammirazione, l’approvazione degli altri, sono tutte cose che vanno meritate, che si ottengono soltanto se si eccelle, se si è bravi.
Ma con Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, Dio ci ama perché “siamo noi”. Punto.
Il problema grosso è che noi non riusciamo a capire così tanto amore; non capiamo e non accettiamo di farci amare così gratuitamente, per sua iniziativa. Non è lui che non ci accetta, siamo noi che non accettiamo di essere il niente che siamo. Siamo convinti al contrario di aver fatto molto, di essere “molto in alto”; avanziamo delle pretese, pensiamo di essere sempre in credito nei suoi confronti e quindi pretendiamo. “Lui deve” amarci, “Lui deve” ricambiare con l’amore. Noi lo pretendiamo il suo amore, perché ci “spetta” in cambio dei nostri meriti. Ma quali meriti? Certo, è proprio difficile lasciarci amare come Dio ci ama! Noi riusciamo sempre a rovinare tutto, anche l’amore più vero: non riusciamo a capacitarci che Lui ci ami di un amore incondizionato, di un amore fedele, di un amore perenne, di un amore gratuito e disinteressato, per il quale non dobbiamo pagare nulla, per il quale non abbiamo alcuna cambiale in scadenza. Sì, è difficile per noi capire la vera portata di tutto questo, è difficile perché sovrasta decisamente i limiti della nostra piccola mente umana.
Allora pensiamoci ogni tanto: pensiamo che noi, con tutte le nostre miserie, noi che a volte siamo proprio uno schifo, proprio noi siamo i figli prediletti di Dio. Perché in conclusione questa è la verità: Dio è nostro Padre, noi siamo suoi figli, e per questo egli ci ama. Amen.


venerdì 3 gennaio 2014

6 Gennaio 2014 – Epifania del Signore

«Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (Mt 2,1-12).
Il Natale ci ricorda che tutti abbiamo il compito di far nascere il Bambino Divino che si trova dentro di noi. Un bambino che, con la nostra vita, con le nostre scelte, continuiamo a nascondere, ignorare, seppellire nel profondo del nostro io: ora, per trovarlo e riportarlo al centro della nostra attenzione, del nostro cuore, abbiamo due diverse soluzioni da adottare, due strade da percorrere: quella di Erode e quella opposta dei Magi. La prima è la più semplice, in quanto ad Erode non interessa conoscere Gesù, anzi lo vede come un nemico, un pericolo, una presenza scomoda, e per questo lo vuole "uccidere", e risolvere il problema una volta per tutte. La seconda strada, invece, è quella dei Magi, di coloro che "lo cercano", che sono disposti a mettersi completamente in gioco per trovarlo ad ogni costo, convinti che Gesù è l’unico che può offrire la Vita autentica e una stabile felicità. Noi dunque siamo di fronte a questo bivio: possiamo essere tanti Erode o possiamo essere come i Magi. Ma quello che conta è che dobbiamo fare la nostra scelta!
Certo le situazioni della vita sono diverse per ciascuno di noi, molto diverse; ma tutti indistintamente, buoni e cattivi, abbiamo in comune una grande ricchezza: la presenza di Gesù dentro di noi; un Gesù che pazientemente aspetta di incontrarci, di ottenere tutta la nostra attenzione. Da questo punto di vista siamo tutti fortunati e tutti abbiamo le stesse potenzialità.
I Magi, dice il vangelo, “vennero da Oriente”: hanno percorso un cammino lunghissimo. Noi invece ci illudiamo; pensiamo che trovare Dio sia un fatto semplice, un passatempo, una cosa spontanea, automatica; siamo convinti che l’incontro con Dio, vale a dire l’adesione seria e totale alla nostra vocazione di cristiani, avverrà tranquillamente ad un certo punto della nostra vita, senza fare un passo: di punto in bianco, magari mentre siamo comodamente seduti in casa, davanti alla tv, con accanto un bel bicchiere di coca e la busta dei pop-corn.
Ma non è così. Vogliamo veramente trovare Dio, il “nostro” Bambino, quel Gesù che abita nel nostro cuore? E allora dobbiamo cercarlo! E lo dobbiamo fare decisi, con tutte le nostre forze, con tutta la nostra attenzione, con tutto il nostro entusiasmo. Non certo girandoci i pollici!
I Magi, come ho detto, partono da lontano: sono persone ricche, vivono negli agi, nel lusso, sono dei “re”; stanno benissimo già così come sono; non hanno alcun bisogno di intraprendere un viaggio faticoso, pieno di imprevisti, senza alcuna certezza di trovare alcunché, diretti verso l’ignoto, verso il mistero. Eppure lo fanno: rispondono generosamente al quel bisogno imperativo che sentono nascere dal loro cuore, dalla loro anima: il bisogno di trovare e incontrare il Dio Vero. Il viaggio, la ricerca affannosa di scoprire il Divino, diventano da quel momento il loro respiro, il loro anelito costante.
Erode invece si comporta in maniera completamente diversa: lui non intraprende nessun viaggio; schiavo dei vizi, del lusso e dell’avarizia, non fa alcuna ricerca; non vuol fare fatiche inutili; rimane a Gerusalemme, sfruttando le fatiche ed il lavoro degli altri: se ci saranno novità, c’è chi gliele riferirà. Troppo impegnato a gozzovigliare, non troverà nessuno. Perché chi non “parte”, chi non si muove, chi non si mette in viaggio, non arriverà mai a niente.
I Magi dunque partono per il loro lungo viaggio. Ma chi sono poi questi “maghi” o “magi”? Beh, dobbiamo dire che, per la Bibbia, i “maghi” sono una presenza imbarazzante, inammissibile, sempre negativa, eccetto in questo passo del vangelo. Il termine "maghi" in greco significa infatti "imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicano menzogne" (Gr 27,10). Che ci fanno allora questi ceffi davanti alla culla del Dio Bambino? Perché Matteo, unico evangelista, ce li infila dentro, dopo averli ribattezzati col nome ingentilito di “Magi”?
Molto probabilmente perché in loro ha visto proprio noi, l’umanità peccatrice: se lo hanno fatto loro, con tutte le loro deficienze, perché non possiamo anche noi prostrarci per adorare il Dio Bambino? Noi, altrettanto negativi, troppo spesso senza dignità, volentieri lontani da Dio, immersi nel peccato?
È questo il lato positivo della loro impresa: ci hanno fatto capire ciò che è veramente importante nell’esistenza umana: la ricerca cioè di un Dio che sazia l'anima, che rende veramente felici i nostri cuori; un Dio per cui vale la pena di vivere e di morire.
Per farlo essi si sono guardati dentro, hanno meditato, hanno consultato le stelle: anche noi, per arrivare al Bambino Gesù, dobbiamo fare altrettanto: dobbiamo guardarci dentro, scrutare i nostri cieli e le nostre stelle. Non abbiamo altra possibilità! Ma purtroppo non è facile: molte persone farebbero di tutto pur di non guardarsi dentro! Perché farlo, significa scoprire che non siamo come pensavamo di essere; significa scoprire che ciò che credevamo amore non è affatto amore, anzi; significa scoprire dolori, pianti e grida che non vorremmo né sentire né affrontare; scoprire che la realtà non è quella che vediamo; scoprire che dentro di noi c'è tutto un mondo che non vogliamo vedere, che ci nascondiamo, che teniamo ben chiuso a chiave in qualche angolo della nostra coscienza.
Noi siamo quindi più disponibili a seguire l’esempio di Erode: di colui che non si guarda dentro, perché, forse più di noi, ha paura di ciò che vedrà; di colui che si limita ad appoggiarsi agli altri, ai Magi, ai sommi sacerdoti e agli scribi; di colui che cerca il profitto personale, rubando le iniziative altrui.
Se vogliamo trovare "Dio", anche noi, come i Magi, dobbiamo cambiare tutte quelle certezze che crediamo "verità", che invece sono soltanto illusioni, falsità, menzogne. Perché quello di cercare Dio è un viaggio che intende trasformarci, farci diventare degli autentici figli di Dio, farci cioè diventare esattamente come siamo stati pensati, voluti e creati da Dio.
È un viaggio, quello di cercare Dio, durante il quale ci possiamo perdere. È vero. È stato così anche per i Magi: hanno perso la loro stella e non sapevano più dove andare. Ma questo “perderci” deve servire per ritrovarci: dobbiamo cioè rinunciare sul serio alle nostre idee, alle nostre convinzioni, per trovarne di più profonde, di più valide, di più durature. Dobbiamo insomma abbandonare le nostre certezze provvisorie e fittizie, per trovare Dio, Verità immutabile. Dobbiamo perdere gli "amici" di questo tempo per trovare nuovi amici, nuovi compagni di viaggio, anch'essi alla ricerca del Dio Amore. Dobbiamo perdere la nostra immagine esteriore per trovare quella interiore, l’autentico “noi stessi”. Dobbiamo perdere il nostro instabile controllo della vita, per affidarla interamente a Lui, consapevoli che Lui soltanto è il nostro Maestro, la nostra Guida, la nostra Sicurezza. Amen.

giovedì 2 gennaio 2014

5 Gennaio 2014 – II Domenica dopo Natale

“Verbum caro factum est: il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,1-18).
La carne è la “porta” attraverso cui Dio, la Parola, è sceso sulla terra. Se il Verbo si è fatto carne vuol dire che tutto ciò che esiste parla di Lui. Pensiamo per un attimo al nostro corpo: tutto in esso ci parla di Dio (dabar), ma solo se abbiamo occhi per vedere. Niente, silenzio assoluto, se siamo ciechi (deber). Il nostro corpo, la nostra “forma umana” ci parla effettivamente di Dio, ci rivela dei principi, ci rivela il senso profondo della nostra vita. Per esempio: perché due orecchie e una sola bocca? Perché dobbiamo ascoltare il doppio rispetto al nostro parlare. Quindi ascoltiamoci bene, prima di dire qualcosa su di noi. Ascoltiamoci bene prima di dire qualcosa sul nostro prossimo. Se uno parla tanto, se parla in continuazione, vuol dire che non si ascolta. Se vogliamo conoscere bene una persona, parliamo poco e ascoltiamola molto. È così che sapremo chi abbiamo davanti. Se vogliamo conoscerci veramente, se vogliamo sapere chi siamo in realtà, dobbiamo parlare poco e ascoltarci molto, ascoltare attentamente cosa abbiamo dentro. È così che sapremo chi siamo. Se vogliamo conoscere i nostri figli, i nostri cari, il nostro prossimo, parliamo loro, ma soprattutto ascoltiamoli il doppio: ascoltiamo le loro parole, ma soprattutto i loro silenzi.
Ancora: perché i nostri piedi sono fatti così? Perché devono andare sempre avanti. Non possono andare indietro. In questo modo il nostro corpo (il Verbo che è in noi) ci dice: "In ogni situazione, va sempre avanti!. Non fermarti mai, non scoraggiarti mai, non disperarti mai; non ti girare mai indietro, non tornare mai indietro, sui tuoi passi!”. Noi siamo fatti per andare sempre avanti. I nostri piedi sono fatti così, perché dobbiamo sempre “progredire”, avanzare, mai retrocedere.
Noi siamo pieni di sensi di colpa per ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto; per ciò che avremmo potuto essere e non siamo stati, per ciò che avremmo dovuto dire e non abbiamo detto. Ma i rimpianti sono inutili; non rallentiamo mai il nostro passo per voltarci indietro: ciò che è fatto è fatto; è passato. Ora basta. Ora viviamo l'oggi. Il passato non si cambia, mentre possiamo intervenire sul presente.
E gli occhi? Anche i nostri occhi sono posizionati in funzione del nostro andare in avanti; sono fatti per guardare sempre più in là, per avere la visione di ciò che è lontano, di ciò verso cui dobbiamo andare, verso la meta del nostro peregrinare. Nella vita, guardare sempre avanti e lontano, vuol dire avere speranza, avere fiducia, non pretendere mai di rivivere i bei tempi passati. Sono belli solo perché sono passati. Qualunque cosa succeda... dobbiamo ripartire.
Guardare “sempre lontano” vuol dire avere una visione completa delle cose, riconoscere esattamente la via migliore da percorrere. Chi non vede più in là del suo naso, inciamperà. Chi è miope, chi ci vede poco, non andrà molto lontano. Manteniamo quindi una visione nitida, luminosa, uno sguardo e una mente aperti. Non fermiamoci sulle piccinerie della vita, nutriamoci di sogni grandi, di visioni entusiasmanti, per noi e per il prossimo.
E le mani? Perché le mani sono lì, in alto, e non da un'altra parte? Perché il nostro agire deve essere la conseguenza di ciò abbiamo dentro, al centro, nel nostro cuore. È la nostra mente che guida le nostre mani. Noi, in pratica, facciamo quello che siamo. Agiamo in base a quello che sentiamo dentro: le estremità sono governate dal centro. Le mani fanno esattamente quello che decide il nostro cuore.
Così è tutto il nostro corpo; la nostra carne parla di Dio, è creata da Lui secondo un principio logico, verso la cui conoscenza noi dobbiamo tendere, sul quale dobbiamo realizzarci.
Ma da dove dobbiamo iniziare? Per iniziare un cammino spirituale, basta poco; l’importante è volerlo seriamente. Giovanni ci suggerisce un metodo semplice: “In principio era il Verbo”: che vuol dire: la Parola, la “Dabar”, è il punto di partenza di ogni cosa. Noi dobbiamo quindi “principiare”, iniziare proprio da Lui, dalla Parola di Dio: poiché essa è il faro che illumina il nostro cammino di trasformazione, la garanzia del nostro benessere spirituale.
Vogliamo crescere? Vogliamo diventare più spirituali? Iniziamo dal Verbo. Fermiamoci e ascoltiamolo. Amen.
 

venerdì 27 dicembre 2013

29 Dicembre 2013 – La Santa Famiglia

«Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13-15.19-23).
Oggi, festa della Santa Famiglia. Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una piccola comunità straordinaria, esente da ogni difficoltà e contrarietà. Ci è stata a volte, trasmessa una immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con diversi problemi: una madre incinta non si sa come; un padre che scompare (che fine fa Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala” questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici, che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà, in quel minuscolo paesino di Nazareth, le avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe: ed erano santi! Perché noi dovremmo esserne esentati?
La famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi spensierati, del “tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come sappiamo, è quello che è: parziale, limitato, mai perfetto, perché viene da uomini; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo anche se molte famiglie si ritrovano assieme a mangiare, anche se siedono attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”. C’è infatti la famiglia-autogrill in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma: c’è chi ordina, chi comanda e chi deve eseguire; c’è la famiglia-albergo dove tutto è perfetto, ordinato, ma non c’è vita, non si ride, non si scherza, non ci si racconta e non ci si ascolta; si può parlare solo di certe cose e guai alzare la voce o ridere a crepapelle; c’è la famiglia-sky-tv dove il padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono fare silenzio.
Nella nostra società ci sono molte case, molte abitazioni, ma poche famiglie. C’è la casa al mare, in montagna, all’estero; c’è la “seconda casa” che è il pub, l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante case, tante stanze, tanti locali diversi ma nessuna “famiglia”.
Perché per esser famiglia non basta stare insieme, mettersi insieme, vivere sotto lo stesso tetto. Ci vogliono dei genitori esperti, formati, consapevoli del proprio ruolo.
Ora, se per i bambini c’è la scuola materna, per i ragazzi la scuola elementare, media, superiore, l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, e per fare un qualsiasi lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi di formazione, per educare, formare i genitori non c’è nessuna scuola. Perché non dovrebbero andare a scuola anche loro? Chi insegna loro? Da chi imparano? Perché si ha la pretesa di saper fare il genitore, solo per il fatto che si hanno dei figli? Anche mio zio aveva in salotto un pianoforte stupendo, ma non lo sapeva suonare! Eppure una scuola, un esempio di famiglia, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio, ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, che ci ha indicato quelli che sono i principi fondamentali che ciascun genitore deve praticare e trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione, la preghiera. Tutti siamo chiamati ad imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova occasioni, momenti di crescita spirituale è destinata ad appiattirsi, e prima o poi si esaurirà.
In tale contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di Gesù.
La storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che è il “destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha il suo Erode: deve soffrire, vivere di conflitti, umiliazioni e difficoltà. Ogni bambino deve, in qualche modo, scappare dalla propria terra, da quello che lui è, dalla profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare qualcun altro. E tutto questo per affermarsi, per salvarsi. Ogni bambino deve trovare delle strategie per sopravvivere nell’ambiente in cui vive, a volte strategie di schiavitù psicologica, di isolamento, di forzato adattamento alle situazioni a volte brutali della vita, ma purtroppo necessarie per crescere, per vivere. Ogni bambino, ha una forza interna, la forza della vita, che è più grande di tutte le forze contrarie, e che gli permette di tornare sempre nella “sua terra”, nella terra promessa; può sempre, cioè, svilupparsi e diventare ciò che realmente può essere, ciò che vuole essere. Perché la forza della vita è più forte, per chi la lascia emergere, di ogni contrarietà.
Soffocare, uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera strage degli innocenti: perché il nostro “bambino” è quella parte di noi che si sa stupire; il nostro “bambino” è la parte di noi che sa amare pienamente, completamente, che si dà senza trattenere niente.
Il nostro “bambino” è la parte di noi che sente, che piange, che vive, che ride, che è felice.
Quando i bambini sono felici, lo si legge dai loro occhi: sono radiosi. Quando invece piangono si abbandonano ad un pianto disperato e incontenibile: essi vivono tutto con intensità.
Il nostro “bambino” è la parte di noi che chiede aiuto, che non si sopravaluta, che ha coscienza delle proprie forze. Quando un bambino sta male va dalla mamma e si fa coccolare; quando non sa una cosa, o ha bisogno di qualcosa, la chiede al papà;
Il nostro “bambino” è la parte di noi che danza, che canta, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne frega di cosa dice la gente. È così bello lasciarsi andare! Dobbiamo soltanto vincere la paura del nostro Erode. Perché in fondo lui ha più paura di noi.
La festa di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli un bambino? Erode è terrorizzato dal bambino, ha paura a lasciargli spazio, ha paura che cresca, ha paura che prenda forza, ha paura di non saperlo più controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è, invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire, che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza del “nostro” bambino: altri innocenti (che non c’entrano niente) subiranno la nostra collera, il nostro disagio e la nostra rabbia.
E saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena senza fine.
Guardare quel nostro “bambino”, è tornare a vedere al di là di tutte le nostre deformità, prima che i mali e i condizionamenti subiti, segnassero il nostro vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nell’esserci per un motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è una parte in noi che nessun Erode può distruggere. È trovare la forza, un punto d’appoggio, per ripartire.
Perché se possiamo vederci al di là di tutto il male che abbiamo ricevuto, anche se involontariamente, non potremo che vederci come Dio ci ha pensato, prima che il nostro volto venisse sfigurato: vedremo la nostra infinita bellezza, grandezza e preziosità. Ci sarà chiaro che siamo angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a rivedere il bambino che egli era, riesce finalmente a capire cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.

martedì 24 dicembre 2013

25 Dicembre 2013 – Natale del Signore


«È NATO PER NOI UN SALVATORE!»
Tutti noi siamo nati in una regione, in un certo paese, di cui assimiliamo le tradizioni, i modi di pensare, le consuetudini e le abitudini; viviamo in un tempo e in una cultura ben precisi.
Siamo figli di nostro padre e di nostra madre: il loro modo di pensare e di essere è in noi; non solo assomigliamo loro fisicamente, ma anche affettivamente; ci portiamo dentro la loro mentalità.
Noi insomma non nasciamo “liberi”: nasciamo legati, condizionati da chi ci precede.
Ma noi siamo anche e soprattutto figli di Dio: questa è la nostra origine più vera e più profonda.
L’incontro con Gesù, di cui ricordiamo oggi la nascita terrena, ci chiede di rompere con alcune di queste tradizioni, ci chiede di diventare uomini nuovi, diversi, ad immagine sua.
Questa è la nostra chiamata profonda: diventare figli di Dio, della Vita, dell'Amore, diventare ciò che possiamo e dobbiamo essere.
“Realizzarsi” significa infatti diventare se stessi; significa sviluppare quel seme che Dio ha posto dentro di noi.
Natale quindi è nascerci, partorirci, far nascere l’infinito e il divino che ci abita.
Come dobbiamo fare? Ascoltando la voce di Dio, i suoi consigli.
Dio ci parla sempre, continuamente.
Ogni giorno Dio ha qualcosa da dirci, un messaggio da trasmetterci. E lo fa sempre attraverso ciò che ci circonda: persone, incontri, situazioni, eventi, circostanze, esperienze.
Molti dicono: “Dio non mi parla mai!”. Falso. Dio ci parla in tutti i modi possibili, di giorno, di notte, sempre. Cosa deve fare ancora di più Dio per farsi ascoltare? Siamo noi che dobbiamo prestargli un po’ più di attenzione. Sono i suoi continui input che necessitano da parte nostra, accoglienza, apertura, sensibilità; altrimenti i suoi messaggi non vengono letti, non vengono accolti, non vengono recepiti.
Per questo è importante saper ascoltare, fermarci, fare silenzio; dobbiamo darci l’opportunità, l’occasione per poter sentire, per poterci sentire, per poterLo sentire.
Meditiamo il Vangelo, la sua Parola.
Fermiamoci ad ascoltarlo, umilmente e attentamente.
In questo modo la sua voce ci arriverà nitida e inconfondibile.

UN SERENO NATALE A TUTTI!

 

venerdì 20 dicembre 2013

22 Dicembre 2013 – IV Domenica di Avvento

«Sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18-24).
In questo brano Matteo vuole rispondere ad una domanda molto complessa: “Di chi è figlio Gesù?”. È figlio di Davide, di Giuseppe, di Maria, dello Spirito Santo? L’episodio ruota intorno alla gravidanza di Maria e alla reazione incerta, dubbiosa, indecisa di Giuseppe, quando ne viene a conoscenza.
Il testo dice: «Maria promessa sposa di Giuseppe, si trovò incinta». Più precisamente: “fu trovata incinta”. Giuseppe quindi trova incinta la sua fidanzata e non capisce più niente, va nel pallone, come diremmo noi oggi; ma è anche normale, non vi pare? Quante volte anche a noi, nella nostra vita, sono capitati degli imprevisti, delle situazioni che non abbiamo capito, di fronte ai quali i nostri schemi sono letteralmente saltati, i nostri progetti sono andati in frantumi, tutte le nostre sicurezze, i nostri criteri di riferimento sono venuti meno.
Anche qui abbiamo un uomo in piena crisi; si trova improvvisamente di fronte ad una situazione che non sa spiegarsi e ad una donna che non dice una parola a sua discolpa. Si trova nel buio più fitto, nella notte di un dubbio tremendo. Ma è proprio nella notte che avrà l’illuminazione decisiva, un sogno di salvezza. Nel buio, gli arriva la luce nuova, che determinerà il suo cammino e la sua vita: «non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo».
Giuseppe, ci sottolinea il vangelo, è “uomo giusto”; ma giusto, qui, non sta ad indicare tanto lo spessore morale di una persona (una persona onesta, corretta con tutti): i “giusti”, per la Bibbia, erano i fedeli, gli attaccati alla Legge (per esempio Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, erano giusti). In questo caso, essere “giusto” significa essere pronto ad accettare e compiere puntualmente la volontà di Dio, chiedere la sua illuminazione, e quindi comportarsi di conseguenza. Giuseppe in quel preciso momento si trova ad un bivio: la legge del suo popolo gli dice: “Ripudiala; anzi, poiché ti ha tradito, è giusto, è tuo dovere civile, condannarla, lapidarla, ucciderla”. Ma Giuseppe, prima ancora che cittadino, è “timorato di Dio”, un “giusto” come abbiamo detto. Egli ama Maria. È la sua donna, vorrebbe sposarla e le vuole bene. Si vede ingannato, certo, perché la sua fidanzata ufficiale è incinta. Può condannarla, ma preferisce gettarsi alle spalle il suo onore ferito. Egli sa che la legge di Dio è un’altra cosa rispetto a quella degli uomini. Egli infatti è giusto perché segue la legge di Dio, quella legge che è Amore.
Egli pertanto non obbedisce alla legge umana; egli obbedisce al cuore: perché il cuore della legge divina è la legge del cuore. Dio premia questa sua scelta, e lo tranquillizza: «il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo…». L’arcano è svelato: ora Giuseppe può dedicarsi a difendere, contro tutto e tutti, le due gemme preziose che gli sono state affidate da Dio: la vergine incinta, e il suo divino nascituro.
E Matteo spiega: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa “Dio con noi”».
Il profeta a cui l’evangelista fa riferimento è chiaramente Isaia, al quale, con il suo oracolo, preme soprattutto sottolineare al destinatario l’importanza di aver fede, di aver fiducia in Dio, di fidarsi di Lui. Quindi egli non intende dare alcun significato messianico alle sue parole.
Allora perché Matteo, citando questo testo, intende avvalorare il “concepimento verginale” di Gesù da parte di Maria, ripiena solo di Spirito Santo?
Per meglio capire i vari passaggi di questa doppia lettura, vale la pena di ricordarne brevemente la storia.
Quando Isaia rivolge questo oracolo ad Achaz re di Giuda, siamo in un particolare momento della guerra siro-efraimita del 735 a.C.; il profeta comunica al re che una “halmàh” gli avrebbe generato un figlio, come segno dell'intervento divino a favore della sua dinastia Davidica, messa seriamente in pericolo da Rezin di Damasco e Pechak di Samaria, in procinto di cingere d’assedio Gerusalemme, con l’intenzione di deporlo dal trono a causa del suo rifiuto di allearsi contro la super potenza Assira.
Quindi, Achaz non aveva nulla da temere: Dio lo avrebbe assistito.
Alla nascita di questo bimbo, prova concreta della fedeltà di Dio nel mantenere le sue promesse, il re, come accettazione di tale “segno”, avrebbe dovuto chiamare il bimbo Emmanuele, ossia “Dio con noi”: un modo per riconoscere pubblicamente la realtà dell’intervento divino.
Il termine ebraico “halmàh”, usato da Isaia, significa però semplicemente “giovane donna, ragazza” e non ha alcuna vicinanza con il significato di “vergine”.
Poi, questo “segno” della nascita di un figlio - con il passare degli anni e con le vicende della guerra siro-efraimita ormai remote - gradualmente perde la sua valenza storica e viene interpretato come una profezia straordinaria, un evento quindi non del passato, ma che si realizzerà nel futuro, assumendo i colori del meraviglioso e dello straordinario.
E arriviamo al III-II secolo a.C., epoca in cui la Bibbia ebraica viene tradotta in greco dai LXX ad Alessandria d'Egitto: in tale occasione la parola ebraica “halmàh” viene tradotta in greco con “partnov” che, questa volta, vuol dire proprio “fanciulla vergine”; ciò determina quindi, già a partire dal 200 a.C., l’interpretazione di questo testo nella nuova chiave messianica, considerandolo quindi come un compimento futuro.
Ma perché Matteo, dopo aver presentato la nascita di Gesù dalla vergine Maria (Mt 1,18-21), riporta questa antica citazione biblica a convalida dell’evento appena descritto? Come si spiega? Sappiamo infatti che nel primo secolo, al tempo di Gesù, non esisteva in alcun modo l'idea che il Messia sarebbe nato da una vergine, né tanto meno che ciò sarebbe avvenuto perché Isaia aveva detto così. E allora come sono andati i fatti? Semplice: non è stata la profezia di Isaia che ha fatto scrivere a Matteo il testo sulla “verginità” di Maria; ma è il fatto storico, quello realmente accaduto, cioè il concepimento verginale di Gesù, che ha fatto capire in tutta la sua portata il senso delle parole di Isaia. Forse è un po' complicato da seguire, ma è un ragionamento molto importante, perché uno potrebbe dire: “dal momento che in Isaia era scritto così, l'evangelista Matteo ha inventato il concepimento verginale perché tutto quadrasse”. Nulla di ciò. Matteo ha semplicemente applicato qui il genere letterario “pesher”, a lui peraltro molto congeniale, che consisteva nel cercare nei testi antichi le attualizzazioni e le conferme dei fatti recenti: per cui, di fronte al parto eccezionale di Maria egli, studiando Isaia, si imbatte in questo versetto che allude ad una “partnov” (vergine), e lo collega al concepimento verginale di Gesù: in questo modo è la nascita di Gesù da una vergine, che spiega e illumina le parole di Isaia e non viceversa.
Dopo il concepimento straordinario di Gesù, e grazie ad esso, gli studiosi hanno quindi capito che le parole di Isaia non si esaurivano materialmente con i fatti del suo tempo, ma avevano un significato molto più profondo.
Ci troviamo pertanto di fronte ad una meraviglia della storia del testo; perché Isaia, uomo storico, fortemente impegnato nel suo presente, in quell'anno 735 non sapeva di annunciare un evento grandioso che sarebbe avvenuto centinaia di anni dopo; lui non lo sapeva; ma, pur utilizzando un linguaggio letterario dell’epoca, egli parlava a nome di Dio. In altre parole Isaia, quando scrive, non sa che valore abbia quello che dice; ma Dio, che lo ispira, sì; è per questo che il testo sacro finale presenta una gamma di significati e di interpretazioni molto più ampi ed estesi di quanto l’autore materiale fosse in grado di capire. Qui sta l’evento meraviglioso: il testo biblico è portatore di una verità ispirata da Dio che va al di là della consapevolezza e della comprensione dell’autore stesso.
Noi, quando ci accostiamo al testo sacro, è proprio questa meravigliosa realtà che dobbiamo tenere sempre presente: dobbiamo cioè passare da Gesù alle Scritture, e dalle Scritture ritornare a Gesù; solo così capiremo a fondo questi due elementi, Gesù e le Scritture; solo così scopriremo anche noi nelle parole di Isaia, l’autentico messaggio, la sua “buona notizia”, che ci parla sì di fede, di fiducia, di garanzia di un Dio presente allora, ma soprattutto di un Dio che continua ad essere anche per noi l’Emmanuele, il “Dio con noi”.
Del resto, il figlio del re Achaz, ai tempi di Isaia, non fu chiamato Emmanuele, ma Ezechia; e neppure il Messia fu chiamato con questo nome, ma Gesù. Tuttavia Matteo, con grande finezza, alla fine del suo vangelo, ci fa notare che l'autentica realizzazione di questa profezia, a parte il concepimento verginale di Maria, si ha nel momento stesso in cui Gesù dice ai suoi discepoli, dopo la risurrezione, mentre appare loro sul monte, «andate in tutto il mondo, fate discepoli tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo insegnando a conservare tutto quello che io vi ho insegnato». È in questo modo che Dio perpetua la sua presenza tra noi nei secoli: «Ecco, io sono con voi (l’Emmanuele) tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). L'Emmanuele è lì. In quel “Dio con noi” c’è infatti la persona del Risorto che ci garantisce la sua continua presenza e assistenza; l’Emmanuele è lui. Allora amiamolo, ricordiamo con gioia, tra qualche giorno, la sua nascita terrena a Betlemme; e soprattutto confidiamo in Lui. Sempre. Amen.