mercoledì 16 gennaio 2013

20 Gennaio 2013 – II Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Quello di nozze, banchetti, feste, è un tema piuttosto ricorrente nel vangelo. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, delle feste, della felicità, dei sani piaceri della vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio ci vuole felici, ricordiamocelo! Ma perché mai l’hanno ridotto un Dio burbero, serio, triste, imbronciato, che pretende da noi solo sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle formalità esteriori. È il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi osa e vive intensamente. Di chi si dà da fare. Di chi sbaglia: l’importante è accorgersene e rimediare.
Gesù dunque è invitato alle nozze con Maria sua madre e i suoi discepoli. Viene da pensare: è Gesù l’invitato, o è lui che invita tutta l’umanità alle nozze del “vino nuovo”, alle nuove nozze dell’uomo con Dio? In quest’ottica il «non hanno più vino» che segue, acquista un nuovo senso: gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non sono più capaci di amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando si vedono in giro certe facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando leggiamo certi libri o articoli su Dio, o ascoltiamo certe prediche, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, non hanno passione, convinzione, fede, energia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo le nostre parrocchie impegnate solo nella burocratizzazione della loro azione pastorale, attenta a non andare mai oltre i limiti orari fissati, a porre l’attenzione solo sulle cose da non fare, limitando qualunque entusiasmo, qualunque iniziativa, qualunque slancio creativo; quando trasmette solo frustrazione, delusione e ansia; ebbene, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio solo per routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone consacrate, i preti, i frati, le suore, non provano più nessun impulso interiore, nessuna commozione, non si stupiscono più, sono diventati cinici su tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”.
E allora, «Fate quello che vi dirà», ci sussurra nostra Madre.
Nella vita, fratelli, dobbiamo fidarci, dobbiamo af-fidarci a qualcuno e fare tutto quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano. Quando individuiamo una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e sentiamo di poterci fidare di lei, impariamo a fidarci totalmente di lei, anche se non capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: “Fate quello che vi dirà”. A volte non capiamo cosa la vita ci dica; anzi capiamo benissimo cosa ci propone ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta lì dove non vogliamo andare e siccome non capiamo il perché ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso affrontarle,quando ce ne possiamo stare in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte sentiamo che ci spinge o ci porta lì dove non vorremmo andare, che ci invita ad esporci anche quando non sarebbe il caso: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché, fratelli, la salvezza sta nel fidarsi di Dio, in quanto Lui, la Vita, non sbaglia mai.
«Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei». L'acqua di queste giare serviva per purificarsi, per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia, putrida, che è diventata inutilizzabile. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. Perché proprio« sei»? Il numero sei (inferiore del sette che significa la “perfezione”), indica i nostri limiti, la nostra imperfezione: ci manca cioè “un qualcosa” di essenziale, di vitale; non siamo completi. Siamo «di pietra»: una specifica che indica non solo il materiale delle giare ma anche la nostra vita; una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. Una vita che si è annacquata, fossilizzata, sclerotizzata nei soliti rituali, nelle solite abitudini: ci manca un respiro più ampio, diverso, un “oltre”. È come trascorrere giornate prive di gusto, di sapore: si vive, ma senza senso, senza soddisfazione.
“La giara di pietra” è il segno dell'irrigidimento della nostra devozione, delle nostre regole religiose; è il segno di certi nostri riti religiosi, stantii e ripetitivi, che non trasmettono più nulla, che non hanno più nessuna vitalità, più nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Continuiamo a ripeterli solo perché lo abbiamo sempre fatto, perché l’abitudine ci tranquillizza, è ciò che conosciamo, ciò che ci appartiene, ciò che non ci provoca sussulti, non ci fa paura.
E non ci accorgiamo neppure noi, come gli sposi del vangelo, che il vino è finito! Non ci accorgiamo che siamo noi ad essere “esauriti”, vuoti, inservibili per noi e per gli altri.
Ma dove viviamo? Perché non pensarci prima? Purtroppo la routine, la quotidianità, se non stiamo attenti, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirci continuamente, per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre uguali. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, quando non frequentiamo nessun incontro di più ampio respiro, con orizzonti più grandi, in modo da toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, davanti alla tv, al bar con le solite quattro chiacchiere inutili da osteria; con gli “amici” nella ripetitività delle solite cose da affrontare e da fare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci castronerie e “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, intelligenza, cultura, sapere, solo per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita che vorrebbe riempirci di vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo materialista, indifferente e apatico; a questa società ormai depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci abbracciamo più, quando non ci accarezziamo più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non vogliamo più metterci in discussione, quando rinunciamo ad imparare, a cambiare, ad evolvere: allora la crescita si blocca. La vita si blocca. E questo succede quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati; quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto; quando crediamo, come abbiamo sempre creduto. Tutto diventa freddo, tutto diventa “solito”, normale, piatto. Arriviamo a temere il calore, le vibrazioni, i sussulti dell'esistenza e della Vita.
E prima o poi, una certa mattina, nell’alzarci, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Ecco, fratelli, scuotiamoci, usciamo dal nostro torpore: questa è l’urgenza vera, questa è la nostra possibilità di salvezza.
Gesù disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». “Attingete”, perché Dio ha già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio, creandoci, ha già compiuto il miracolo; ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di crederci, di abbeverarci alle sue sorgenti profonde. Il miracolo si è già compiuto, sta dentro ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo tirarlo fuori, farlo emergere.
Chi è capace di cambiare, di modificarsi, di evolversi, si salverà. Chi non è capace, morirà, sommerso dal suo far niente. Si condannerà da solo.
Ecco, fratelli, è questo l’insegnamento che in estrema sintesi dobbiamo cogliere dal vangelo di oggi: se vogliamo salvarci, dobbiamo necessariamente “mutare”; dobbiamo cioè trasformarci da acqua in vino; dobbiamo migliorare, imparare dai nostri errori e crescere, crescere. Perché crescere significa soprattutto spalancare il nostro cuore e la nostra mente alla luce e al calore dell’Amore. Amen.
 

giovedì 10 gennaio 2013

13 Gennaio 2013 – Battesimo del Signore

«Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16.21-22).
Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione è molto attuale ed efficace e la gente lo segue con attenzione. In molti si chiedono addirittura se non sia lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre: lo sentono parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”; di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente corre da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmette è certamente quella di un Dio che ama; ma è anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – ci fa capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. Dobbiamo pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige solo la perfezione, non fa sconti, ma opera con giustizia, rigore,intransigenza: ricompensa i giusti con il premio del paradiso, e castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla sua presenza. È un Dio che non prevede la spensieratezza, la gioia gratuita, il divertimento, ma incita ad un impegno continuo, massimo e progressivo; con Lui bisogna essere sempre in presa diretta, guardando continuamente in alto, bravi, perfetti, in regola.
Farsi battezzare nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima con l’immersione nell’acqua, è quindi per chi lo segue l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Lui ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma al momento della sua discesa nelle acque del fiume, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol qui descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto modo di percepire:
«Cieli aperti», sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione, in costante collegamento; e sono aperti per rendere possibile qualunque comunicazione.
«Discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba»: non che ci fosse una colomba in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all'inizio della storia del mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale, indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
«Venne una voce dal cielo»: non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi, come ho detto, la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, non mi sfuggirai dalla mia mano, nessuno ti rapirà da me; tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; mi appassiono a te, sei nei miei pensieri, non cadrai mai al di fuori dal mio sostegno; non mi devi dimostrare nulla, io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio; tu sei per me come nessun altro; sei unico per me: ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene…”.
È proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di tali concetti “messianici”, il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella vita di Gesù: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio obbligatorio da superare, durante il quale Egli prende chiaramente coscienza di chi è e di cosa è chiamato a vivere e ad annunciare.
Che cosa poi in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”. Ma per tutti, una tale occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e bello. Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati, nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per indicare una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un'altra persona, ho un altro nome”.
Ecco, fratelli; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta la nostra miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono asfittica la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: lo Spirito d’Amore che solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi, fratelli, se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, lo ripeto, perché così non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l'amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore, fratelli, non si “contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata, fratelli: ascoltiamo la Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
In questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d'ombra, nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale confortevole. E infine fidiamoci, fratelli, di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.


martedì 1 gennaio 2013

6 Gennaio 2013 – Epifania del Signore

«Alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,1-12). Il brano del vangelo di oggi è tratto da Matteo e appartiene a quella serie di racconti riportati da Luca e Matteo sui primi anni di vita di Gesù, denominata appunto “Vangeli dell’infanzia”. Uno giustamente potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”, se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri trattati teologici, con un pò di storia, ma soprattutto con tanta teologia. Non intendono, cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta delle illusioni”.
I singolari personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate sempre in negativo, con disprezzo, dalla Bibbia; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del termine “maghi”, in greco, non è peraltro molto accattivante: significa “imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi, cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre?
È chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico. Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono assolutamente casuali.
Il primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente personaggio (1Re 9,11.28), in quanto espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano, lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà modo di confermare: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Questa è la caduta della prima illusione: Dio non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli che lo riconoscono e lo accolgono.
Il secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28). Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza: Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa, un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele, il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”, il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di una mentalità religiosa elitaria.
Beh, fratelli, penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare, da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti. Sembra un gioco di parole, ma l’illusione, quando cade, crea sempre grande delusione. Solo la disillusione ci permette di vedere la realtà per quello che è.
Quando ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro, da accettare, inconsciamente noi, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza, un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si spezza dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto anche solo pensare che ciò potesse accadere. Perché il punto è proprio questo: ogni illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; fede autentica, e non solo: autentica umiltà, autentica volontà, autentico carattere: con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; quindi bisogna ripartire da zero.
Quando cade una nostra illusione, fratelli, pur se fittizia e irreale, non è mai un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa, difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di marcia; perché solo così la “verità ci farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata fiducia. Detto così è facile: invece, fratelli miei, com’è difficile il cammino nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche una piccola notizia. Come è successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo allora con fiducia soltanto a Dio, fratelli: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero fuoco d’amore autentico. Amen.

mercoledì 26 dicembre 2012

30 Dicembre 2012 – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

« Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della nostra indipendenza.
Anche qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni. Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima.
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte le loro attese.
È così difficile accettare che i figli siano grandi; è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio; è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza; l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata, perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei, come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene, fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza; che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
Tornò con loro a Nazareth”, dice il vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo, tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere. Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”, che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto, nella famiglia, cresce in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.

 

lunedì 24 dicembre 2012

25 Dicembre 2012 – Natale di nostro Signore

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,1-14).
Il Vangelo di oggi mette a confronto due re: Cesare Augusto Ottaviano, il re ricco, e Gesù, il re povero. Il re ricco ha il potere, la forza, il dominio; indice un censimento di tutta la terra, perché nessuno possa sfuggire al pagamento delle imposte di Roma; il re ricco impone: “Devi fare così, e basta”. Il re povero ha come potere l'amore, la debolezza, la vulnerabilità. Il re povero propone: “Se vuoi seguirmi… se qualcuno… se uno…”. Il re della forza e della potenza contro il re della dignità e dell'amore. Uno scontro tra re.
Il falso re, quello che si dice “salvatore del mondo”ma non fa nulla per salvarlo, e il vero re, il vero “Salvatore del mondo”, che il mondo lo salva per davvero.
Uno che rapina la gente, ma promette lusso, benessere, godimenti, l’altro che la riempie di regali, dicendole però che la vera ricchezza, la vera gioia non è di questo mondo.
Di fronte però alle lusinghe allettanti del re fasullo di questo mondo, in tanti hanno ceduto, si sono fatti abbagliare: ma noi, fratelli, noi che sappiamo individuare l’autentico re, non lasciamoci sedurre, non abdichiamo alla nostra dignità di cristiani.
Infatti, cosa ci ripete anche quest’anno, cosa vuole confermarci ancora una volta questo vangelo di Natale? Che Dio è venuto per noi esclusivamente per amarci: Dio non è vendicativo, Dio non punisce, non castiga. Dio ama. Sempre. Il suo è un amore giusto, misericordioso, impossibile, generoso, spontaneo. Siamo noi che rifiutiamo questo suo amore. Siamo noi che gli sbattiamo la porta in faccia preferendogli l’infelicità, l’ansia, il dolore, i castighi: siamo noi a girargli le spalle con la  nostra testardaggine, con la nostra poca fede, con la nostra totale assenza di carità, di comprensione, di amore. Lui no, Lui continua nonostante tutto ad amare proprio noi, i lontani, gli esclusi, gli esiliati, i peccatori, i cattivi, gli impuri, i traditori; Dio continua a venire per tutti noi. E viene per continuare ad amarci.
Un giorno una bambina va dalla mamma e le chiede: “Mamma, chi è Dio?”. La mamma si trova in difficoltà: come si fa a spiegare chi è Dio ad una bambina, quando anche noi adulti su ciò abbiamo le idee molto confuse? Allora la mamma le dice: “Vieni qui”: e la prende fra le sue braccia e la stringe a sé forte forte. Poi le sussurra: “Cosa senti?”. “Sento che mi ami tanto, mamma”. “Ecco, amore mio: questo è Dio!”.
Natale: Dio nasce in ciascuno di noi, nasce nella nostra vita. Accogliamolo! Non verrà come vogliamo noi. Ma verrà proprio in questa nostra vita di oggi. Natale è oggi, fratelli, Gesù è qui per tutti noi. “Io sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta…”. Lui c'è! Lui è alla porta! Nascosto, ma è Lui che viene a portarci amore.
E noi? Che desolazione: una crisi internazionale affligge oggi il mondo: homo homini lupus. Viviamo nella cultura dell’uno contro l’altro: ma abbiamo mai pensato che se uno vince, l’altro necessariamente perde? Perché non trovare una soluzione che ci veda tutti d’accordo? Se noi invece lottassimo tutti uniti contro la fame, la miseria, le malattie, le violenze? Certo andare tutti in una direzione oggi non è cosa facilmente realizzabile : ma neppure impossibile. “Io insieme a te”. E se iniziassimo noi, nel nostro piccolo?
Tutti abbiamo un po' di verità: ma ognuno difende le sue vedute, ognuno pretende di essere solo lui nel giusto: e se cominciassimo noi a valorizzare ciò che ci unisce piuttosto che moltiplicare ciò che ci divide? E se iniziassimo noi a stimarci reciprocamente? E se lavorassimo insieme per un ideale comune, più umano? Se ci volessimo tutti veramente bene?
Sono sicuro che i più penseranno: “Impossibile, è fantascienza, questa crisi non si risolverà mai con una stretta di mano!”. Niente di più falso: se tutti insieme lo volessimo veramente, prima o poi raggiungeremmo sicuramente tale obiettivo. L’importante è volerlo. Virgilio disse in proposito una grande verità: “Possiamo! Perché siamo convinti di potere”. Se non siamo convinti di potercela fare, non ce la faremo mai.
È Natale: Dio si è incarnato. L’impossibile è divenuto realtà. Dio è carne, è qui con noi: e con Lui, con il suo amore, tutto è più facile, tutto diventa possibile anche per noi. Amen.

mercoledì 19 dicembre 2012

23 Dicembre 2012 – IV Domenica di Avvento

«Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,39-48).
Il vangelo di oggi ci propone l'incontro dell’anima di due donne, entrambe incinte. Maria ed Elisabetta sono parenti, sono cugine. Per la Bibbia, essere parenti, non indica tanto una consanguineità quanto una comunione di vita, una condivisione di esperienze. Entrambe infatti hanno una illuminazione divina, una intuizione profonda. Entrambe vivono una particolare situazione di impedimento, di “chiusura” nei confronti della loro possibilità di generare nuove esistenze: Maria è giovane ed è soprattutto vergine, non conosce uomo e quindi nessun figlio può nascere da lei; lo stesso impedimento vale per Elisabetta, in quanto è vecchia, in età troppo tarda. Ma l’impossibile per gli uomini, diventa possibile per Dio. Nel nuovo Testamento, nella seconda creazione, Dio punta decisamente sul femminile, su Maria. Ciò non va interpretato come una esaltazione della donna sul maschio, quanto piuttosto come affermazione che saranno solo quei valori tipicamente femminili - l'amore, la tenerezza, la misericordia, l'ascolto, l'accoglienza – che ci salveranno. Non sarà la forza, non sarà l'autorità, non sarà la potenza, non sarà la spada, non sarà la violenza, ma saranno solo l'amore e l'accoglienza.
Nelle due nascite accennate dal Vangelo di oggi, le due figure maschili dei mariti non sono di alcun sostegno: Zaccaria diventa muto durante la gravidanza della moglie Elisabetta (non ha creduto all'impossibile) e Giuseppe non partecipa alla generazione di Gesù. Non vogliamo dire che Zaccaria e Giuseppe non abbiano partecipato in quanto uomini, ciascuno con un ruolo diverso, al concepimento dei loro figli; ma che in entrambi i casi l’uomo ha dovuto misurarsi personalmente col divino. Era questo il modo con cui gli antichi tentavano di spiegare la realtà della inabitazione di Dio in ogni uomo: che cioè noi tutti siamo abitati da Dio, che l'Altissimo risiede realmente in noi, e che di conseguenza tutti dobbiamo curare, sviluppare, far emergere quel seme divino, messo a dimora da Dio stesso nella nostra anima. La vera “generazione”, la nostra vera paternità a cui siamo destinati (la nostra chiamata) consiste proprio nel far nascere questo “figlio divino” che è dentro di noi, che vuole nascere, e che ognuno di noi deve partorire. Sì, noi tutti, fin dalla nascita, abbiamo questo “seme” divino dentro di noi: è Gesù, è la nostra anima. E noi tutti siamo responsabili della sua crescita. Se non riusciamo a trasmettere questo concetto, questa verità, ai nostri figli, alle nuove generazioni, al mondo intero, vuol dire che noi stessi non sappiamo di averlo, non abbiamo mai cercato come dovevamo, non abbiamo mai trovato l'anima dentro di noi.
E la natura umana, fratelli, senza l’anima, privata dello stupore e della meraviglia, diventa fonte di inquinamento e di morte. Una creatura vivente, senza l'anima, è come una pianta senza radici. È amorfa. Un uomo senza l'anima diventa un fantoccio, zeppo di lustrini luccicanti, di trucchi e ritocchi, ma senza una linfa o un'energia che gli scorra dentro. Una vita senz'anima diventa una vita venduta esclusivamente al materiale, al lavoro, alla produzione, all'efficienza, all’utile, al divertimento. Una carezza senz'anima diventa uno schiaffo e uno sguardo senz'anima diventa un giudizio tagliente. Una famiglia senz'anima diventa un compromesso; una religione senz'anima diventa pura formalità ed esibizionismo. Così un Natale senz'anima diventa un’abbuffata di dolci, di panettoni, di auguri,di regali e di tristi mediocrità.
Noi genitori diamo di tutto ai nostri figli: basti vedere cos'hanno negli zaini o nelle loro stanze. Diamo di tutto, perché tutte queste cose (appunto cose!) si vendono e si comprano. Ma in questo modo riduciamo tutto a mera esteriorità. Ciò che invece ci è molto difficile trasmettere loro è la nostra anima: perché l’anima non si può comprare e non si può vendere: possiamo trasmetterla solo per vibrazione, per passione, per intensità, per amore. Soprattutto possiamo trasmetterla soltanto se noi per primi ne abbiamo una: se siamo senza, non abbiamo vita, non trasmettiamo vita; senz'anima possiamo vivere e trasmettere solo l'inferno di questa vita, il peggio.
Siamo molto efficienti nella nostra vita: mettiamo al mondo creature, costruiamo case e imprese; creiamo giardini e parchi, posti di lavoro e ricchezza, giochi e divertimenti, hobbies e svaghi di ogni tipo. Escogitiamo iniziative sempre nuove, partoriamo idee, programmi assai brillanti. Ma tutto ciò può essere inutile: i nostri figli ci abbracciano, ma noi non li incontriamo dentro: non possono conoscerci in profondità, perché neppure noi ci conosciamo!
I nostri figli non conoscono l'invisibile che c'è in ognuno di noi, in ogni creatura; e questo crea in loro la mancanza di senso del divino; per questo non riescono ad entrare dentro di loro, dentro di noi, dentro gli altri, dentro al mistero della Vita. Rimangono in superficie e crescono superficiali, destinati a morire di noia e di banalità. I nostri figli muoiono per colpa nostra, perché noi adulti non abbiamo saputo e non sappiamo trasmettere loro l'unica cosa essenziale: l'anima che ci anima, lo spirito che soffia in noi, il Dio che abita in noi e che vuole essere innestato da noi in coloro che amiamo, in quanti avviciniamo.
Quando Maria ed Elisabetta si incontrano, si lasciano andare in un forte abbraccio. Ciascuna, infatti, ha motivi validi per consolare e rassicurare l'altra: si toccano nell'anima, si trasmettono l’anima, si incontrano nel profondo dell’anima e le loro anime esultano; parlano di sé, del grande mistero che sentono in loro, delle emozioni divine che provano. Elisabetta sente il figlio palpitarle dentro, e urla a Maria la gioia di averla lì con lei e quanto sia felice di ciò che sta capitando anche a lei. Maria di rimando parla ad Elisabetta, ma è così felice che canta: si sente così amorevolmente accolta da Elisabetta, da poterle finalmente dire tutto ciò che “custodiva gelosamente nel suo cuore”.
Ecco, questa è vera amicizia, fratelli. Questa è autentica relazione di coppia. Questo è amore. Di questo noi dobbiamo sovrabbondare, di questo dobbiamo esultare quando, nelle nostre relazioni, le anime si sfiorano e si toccano reciprocamente.
Ci sono tre cose che ci appagano pienamente nella vita: entrare nell'animo di qualcuno e sentirci parte della sua vita; far entrare qualcuno nel nostro animo, e sentirlo parte della nostra vita; entrare entrambi nel mistero della Vita, e sentirci in comunione totale, in unione con il Tutto.
Maria si mette in viaggio e raggiunge in fretta Elisabetta: non ci serve sapere se ciò sia realmente accaduto: ciò che conta è il senso di quanto accaduto, cosa esso significhi per queste due donne e per ciascuno di noi: Maria ed Elisabetta infatti si sono incontrate nel profondo, nella loro parte più vera, più viva, più autentica. Succede così anche a noi? Permettiamo anche noi agli altri di incontrarci nel nostro profondo? O li blocchiamo alla superficie, al nostro apparire, alle nostre esibizioni, alle nostre maschere esteriori? No, fratelli: non è così che dobbiamo incontrare l’altro. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra di noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda all'angoscia o al panico. Tutto questo non ha nessuna importanza: perché se riusciamo a incontrarci nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo.
Incontrando e facendo incontrare la nostra anima, troviamo la serenità. Solo incontrando e facendo incontrare lo Spirito che ci inabita, nella completa nudità del nostro essere, possiamo aprirci con Lui e con i fratelli: possiamo confidare le nostre paure, esternare ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessare le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo in questi incontri possiamo aprirci e raccontare i nostri sogni, spiegare le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi. Insomma: dobbiamo comunicare l'anima non parole vuote, quando parliamo con i fratelli; dobbiamo dare l'anima e non un corpo, quando facciamo l'amore; l'anima e non dei riti, quando preghiamo. Allora, e solo allora, incontreremo veramente l’altro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità della vita. E se ciò qualche volta ci fa male o è difficile o ci fa soffrire, pazienza, perché la Vita è qui.
Viviamo la Vita, fratelli: viviamo la nostra anima. Perché ogni volta che uccidiamo la nostra anima (il Figlio divino che è in noi), uccidiamo ciò di cui abbiamo più bisogno.
E concludo: all’uscita di un Grande Magazzino di giocattoli, escono un padre, una madre e una figlia di sei-sette anni: sono pieni di pacchi regalo. La figlia però continua a lamentarsi, a “frignare”, a fare capricci. Il padre spazientito le dice: “Ma cosa vuoi di più, ti abbiamo preso di tutto!”. E la figlia: “Ma papà, per favore, prendimi per mano!”.
È di anima, di amore, di cuore, di profondo che abbiamo bisogno, fratelli: non di cose superflue, di regali inutili. Non sono questi che nella vita ci rendono felici e soddisfatti. Amen.


mercoledì 12 dicembre 2012

16 Dicembre 2012 – III Domenica di Avvento


«Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).
Nel vangelo di oggi la gente va da Giovanni Battista e gli pone una fondamentale domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi molti di noi si pongono: “Cosa devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un incontro, un gruppo, un’associazione, qualcuno a cui rivolgermi per risolvere la mia situazione? C’è un esercizio, magari di meditazione, di silenzio o di preghiera che mi illumini sul da farsi?”
Cosa non farebbe oggi tanta gente pur di trovare una guida veramente carismatica, in grado di condividere i loro pesi! Purtroppo in giro ce ne sono parecchi di personaggi fasulli che si presentano come inviati di Dio, che si spacciamo per “illuminati”, dotati di poteri extrasensoriali, paranormali, speciali; e siccome nei deboli la pressione della sofferenza, il desiderio di sollievo è grande, l'attaccamento a cialtroni del genere è presto concluso.
E visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per star bene spiritualmente, per risollevare l'anima; si illudono che la felicità, l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta guardarci attorno, fratelli, per renderci conto di quanto ricco sia il supermercato religioso. C'è la messa a distanza (purché si paghi); c’è il guru che ci dice cosa fare nella vita; c'è il mago imbroglione che ci comunica la volontà dei nostri morti; c'è l’emulatore di Padre Pio che promette guarigioni a distanza; c’è chi vende numeri sicuri per il lotto e chi ci predice il futuro. In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche se non ce ne rendiamo conto!
Quante persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà, non è possibile. Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe. Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa. Noi siamo tutti indistintamente per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per tutte le nostre crisi, ma non c'è. Vorremmo che una preghierina ogni tanto, fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile. Vorremmo che ci fosse un bel “decalogo dell’amore” da imparare a memoria e da recitare ogni tanto, per stare a posto con tutti i nostri doveri di carità; ma non c’è. Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte le nostre difficoltà relazionali, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in te, anche la sua soluzione deve arrivare da te”.
Alcuni si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire, per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile girare a vuoto: le occasioni per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi che in famiglia non si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché, ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. L’immagine che il vangelo ci propone al riguardo, quella del contadino che divide il grano dalla pula, che raccoglie il primo e brucia la seconda, è molto dura ma emblematica; colui che tiene in mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva, fratelli, che ci deve far pensare seriamente.
Tuttavia non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la causa della nostra poca carità: siamo noi che diamo un valore aggiunto alle nostre azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo modo.
Se nella vita affrontiamo tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere sempre ignorando volutamente i problemi, senza capire mai le grandi leggi della vita; viviamo senza renderci conto che spetta solo a noi dirigere la nostra vita, a nessun altro!
Il Battista battezza con acqua: è il battesimo di quei cristiani un po’ tiepidi, che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi scossoni. Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello del Cristo della Vita, quello che sconvolge la nostra vita, che si impadronisce della nostra anima, che ci proietta nella nostra parte divina, spirituale. È un battesimo di fuoco perché ci brucia dentro, ci dà passione, energia; ci dà la forza per andare avanti giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa capire dove dobbiamo mettere il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo tanto seguire; ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza umana. È un battesimo di fuoco perché illumina, fa venire alla luce, fa nascere, crescere, quel soffio di vita che ci abita dentro, la trasforma in forza impetuosa. È di fuoco perché scuote dentro di noi il seme di Dio che dorme in noi e che aspetta di essere risvegliato per diventare l’unico Signore della nostra vita.
Questo è dunque, fratelli, il grande “sacrificio” (da sacrum facere, fare una cosa santa); questa è la grande opera dell'uomo: trasformare una vita materiale, esteriore, vuota, insignificante, amorfa, in una vita dello Spirito, in una vita di Amore divino, in vita “viva”, piena e vera. In una parola, come dice il Vangelo, dobbiamo “rinascere nello Spirito”. Amen.