mercoledì 19 dicembre 2012

23 Dicembre 2012 – IV Domenica di Avvento

«Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,39-48).
Il vangelo di oggi ci propone l'incontro dell’anima di due donne, entrambe incinte. Maria ed Elisabetta sono parenti, sono cugine. Per la Bibbia, essere parenti, non indica tanto una consanguineità quanto una comunione di vita, una condivisione di esperienze. Entrambe infatti hanno una illuminazione divina, una intuizione profonda. Entrambe vivono una particolare situazione di impedimento, di “chiusura” nei confronti della loro possibilità di generare nuove esistenze: Maria è giovane ed è soprattutto vergine, non conosce uomo e quindi nessun figlio può nascere da lei; lo stesso impedimento vale per Elisabetta, in quanto è vecchia, in età troppo tarda. Ma l’impossibile per gli uomini, diventa possibile per Dio. Nel nuovo Testamento, nella seconda creazione, Dio punta decisamente sul femminile, su Maria. Ciò non va interpretato come una esaltazione della donna sul maschio, quanto piuttosto come affermazione che saranno solo quei valori tipicamente femminili - l'amore, la tenerezza, la misericordia, l'ascolto, l'accoglienza – che ci salveranno. Non sarà la forza, non sarà l'autorità, non sarà la potenza, non sarà la spada, non sarà la violenza, ma saranno solo l'amore e l'accoglienza.
Nelle due nascite accennate dal Vangelo di oggi, le due figure maschili dei mariti non sono di alcun sostegno: Zaccaria diventa muto durante la gravidanza della moglie Elisabetta (non ha creduto all'impossibile) e Giuseppe non partecipa alla generazione di Gesù. Non vogliamo dire che Zaccaria e Giuseppe non abbiano partecipato in quanto uomini, ciascuno con un ruolo diverso, al concepimento dei loro figli; ma che in entrambi i casi l’uomo ha dovuto misurarsi personalmente col divino. Era questo il modo con cui gli antichi tentavano di spiegare la realtà della inabitazione di Dio in ogni uomo: che cioè noi tutti siamo abitati da Dio, che l'Altissimo risiede realmente in noi, e che di conseguenza tutti dobbiamo curare, sviluppare, far emergere quel seme divino, messo a dimora da Dio stesso nella nostra anima. La vera “generazione”, la nostra vera paternità a cui siamo destinati (la nostra chiamata) consiste proprio nel far nascere questo “figlio divino” che è dentro di noi, che vuole nascere, e che ognuno di noi deve partorire. Sì, noi tutti, fin dalla nascita, abbiamo questo “seme” divino dentro di noi: è Gesù, è la nostra anima. E noi tutti siamo responsabili della sua crescita. Se non riusciamo a trasmettere questo concetto, questa verità, ai nostri figli, alle nuove generazioni, al mondo intero, vuol dire che noi stessi non sappiamo di averlo, non abbiamo mai cercato come dovevamo, non abbiamo mai trovato l'anima dentro di noi.
E la natura umana, fratelli, senza l’anima, privata dello stupore e della meraviglia, diventa fonte di inquinamento e di morte. Una creatura vivente, senza l'anima, è come una pianta senza radici. È amorfa. Un uomo senza l'anima diventa un fantoccio, zeppo di lustrini luccicanti, di trucchi e ritocchi, ma senza una linfa o un'energia che gli scorra dentro. Una vita senz'anima diventa una vita venduta esclusivamente al materiale, al lavoro, alla produzione, all'efficienza, all’utile, al divertimento. Una carezza senz'anima diventa uno schiaffo e uno sguardo senz'anima diventa un giudizio tagliente. Una famiglia senz'anima diventa un compromesso; una religione senz'anima diventa pura formalità ed esibizionismo. Così un Natale senz'anima diventa un’abbuffata di dolci, di panettoni, di auguri,di regali e di tristi mediocrità.
Noi genitori diamo di tutto ai nostri figli: basti vedere cos'hanno negli zaini o nelle loro stanze. Diamo di tutto, perché tutte queste cose (appunto cose!) si vendono e si comprano. Ma in questo modo riduciamo tutto a mera esteriorità. Ciò che invece ci è molto difficile trasmettere loro è la nostra anima: perché l’anima non si può comprare e non si può vendere: possiamo trasmetterla solo per vibrazione, per passione, per intensità, per amore. Soprattutto possiamo trasmetterla soltanto se noi per primi ne abbiamo una: se siamo senza, non abbiamo vita, non trasmettiamo vita; senz'anima possiamo vivere e trasmettere solo l'inferno di questa vita, il peggio.
Siamo molto efficienti nella nostra vita: mettiamo al mondo creature, costruiamo case e imprese; creiamo giardini e parchi, posti di lavoro e ricchezza, giochi e divertimenti, hobbies e svaghi di ogni tipo. Escogitiamo iniziative sempre nuove, partoriamo idee, programmi assai brillanti. Ma tutto ciò può essere inutile: i nostri figli ci abbracciano, ma noi non li incontriamo dentro: non possono conoscerci in profondità, perché neppure noi ci conosciamo!
I nostri figli non conoscono l'invisibile che c'è in ognuno di noi, in ogni creatura; e questo crea in loro la mancanza di senso del divino; per questo non riescono ad entrare dentro di loro, dentro di noi, dentro gli altri, dentro al mistero della Vita. Rimangono in superficie e crescono superficiali, destinati a morire di noia e di banalità. I nostri figli muoiono per colpa nostra, perché noi adulti non abbiamo saputo e non sappiamo trasmettere loro l'unica cosa essenziale: l'anima che ci anima, lo spirito che soffia in noi, il Dio che abita in noi e che vuole essere innestato da noi in coloro che amiamo, in quanti avviciniamo.
Quando Maria ed Elisabetta si incontrano, si lasciano andare in un forte abbraccio. Ciascuna, infatti, ha motivi validi per consolare e rassicurare l'altra: si toccano nell'anima, si trasmettono l’anima, si incontrano nel profondo dell’anima e le loro anime esultano; parlano di sé, del grande mistero che sentono in loro, delle emozioni divine che provano. Elisabetta sente il figlio palpitarle dentro, e urla a Maria la gioia di averla lì con lei e quanto sia felice di ciò che sta capitando anche a lei. Maria di rimando parla ad Elisabetta, ma è così felice che canta: si sente così amorevolmente accolta da Elisabetta, da poterle finalmente dire tutto ciò che “custodiva gelosamente nel suo cuore”.
Ecco, questa è vera amicizia, fratelli. Questa è autentica relazione di coppia. Questo è amore. Di questo noi dobbiamo sovrabbondare, di questo dobbiamo esultare quando, nelle nostre relazioni, le anime si sfiorano e si toccano reciprocamente.
Ci sono tre cose che ci appagano pienamente nella vita: entrare nell'animo di qualcuno e sentirci parte della sua vita; far entrare qualcuno nel nostro animo, e sentirlo parte della nostra vita; entrare entrambi nel mistero della Vita, e sentirci in comunione totale, in unione con il Tutto.
Maria si mette in viaggio e raggiunge in fretta Elisabetta: non ci serve sapere se ciò sia realmente accaduto: ciò che conta è il senso di quanto accaduto, cosa esso significhi per queste due donne e per ciascuno di noi: Maria ed Elisabetta infatti si sono incontrate nel profondo, nella loro parte più vera, più viva, più autentica. Succede così anche a noi? Permettiamo anche noi agli altri di incontrarci nel nostro profondo? O li blocchiamo alla superficie, al nostro apparire, alle nostre esibizioni, alle nostre maschere esteriori? No, fratelli: non è così che dobbiamo incontrare l’altro. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra di noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda all'angoscia o al panico. Tutto questo non ha nessuna importanza: perché se riusciamo a incontrarci nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo.
Incontrando e facendo incontrare la nostra anima, troviamo la serenità. Solo incontrando e facendo incontrare lo Spirito che ci inabita, nella completa nudità del nostro essere, possiamo aprirci con Lui e con i fratelli: possiamo confidare le nostre paure, esternare ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessare le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo in questi incontri possiamo aprirci e raccontare i nostri sogni, spiegare le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi. Insomma: dobbiamo comunicare l'anima non parole vuote, quando parliamo con i fratelli; dobbiamo dare l'anima e non un corpo, quando facciamo l'amore; l'anima e non dei riti, quando preghiamo. Allora, e solo allora, incontreremo veramente l’altro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità della vita. E se ciò qualche volta ci fa male o è difficile o ci fa soffrire, pazienza, perché la Vita è qui.
Viviamo la Vita, fratelli: viviamo la nostra anima. Perché ogni volta che uccidiamo la nostra anima (il Figlio divino che è in noi), uccidiamo ciò di cui abbiamo più bisogno.
E concludo: all’uscita di un Grande Magazzino di giocattoli, escono un padre, una madre e una figlia di sei-sette anni: sono pieni di pacchi regalo. La figlia però continua a lamentarsi, a “frignare”, a fare capricci. Il padre spazientito le dice: “Ma cosa vuoi di più, ti abbiamo preso di tutto!”. E la figlia: “Ma papà, per favore, prendimi per mano!”.
È di anima, di amore, di cuore, di profondo che abbiamo bisogno, fratelli: non di cose superflue, di regali inutili. Non sono questi che nella vita ci rendono felici e soddisfatti. Amen.


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