«In quel tempo, vi fu una festa
di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze
anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Quello
di nozze, banchetti, feste, è un tema piuttosto ricorrente nel vangelo. Il Dio
di Gesù è il Dio della gioia, delle feste, della felicità, dei sani piaceri della
vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima
questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio ci vuole
felici, ricordiamocelo! Ma perché mai l’hanno ridotto un Dio burbero, serio, triste,
imbronciato, che pretende da noi solo sacrifici e offerte? Dio non è nella
noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle
formalità esteriori. È il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi
osa e vive intensamente. Di chi si dà da fare. Di chi sbaglia: l’importante è
accorgersene e rimediare. Gesù dunque è invitato alle nozze con Maria sua madre e i suoi discepoli. Viene da pensare: è Gesù l’invitato, o è lui che invita tutta l’umanità alle nozze del “vino nuovo”, alle nuove nozze dell’uomo con Dio? In quest’ottica il «non hanno più vino» che segue, acquista un nuovo senso: gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non sono più capaci di amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando si vedono in giro certe facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando leggiamo certi libri o articoli su Dio, o ascoltiamo certe prediche, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, non hanno passione, convinzione, fede, energia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo le nostre parrocchie impegnate solo nella burocratizzazione della loro azione pastorale, attenta a non andare mai oltre i limiti orari fissati, a porre l’attenzione solo sulle cose da non fare, limitando qualunque entusiasmo, qualunque iniziativa, qualunque slancio creativo; quando trasmette solo frustrazione, delusione e ansia; ebbene, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio solo per routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone consacrate, i preti, i frati, le suore, non provano più nessun impulso interiore, nessuna commozione, non si stupiscono più, sono diventati cinici su tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”.
E allora, «Fate quello che vi dirà», ci sussurra nostra Madre.
Nella vita, fratelli, dobbiamo fidarci, dobbiamo af-fidarci a qualcuno e fare tutto quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano. Quando individuiamo una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e sentiamo di poterci fidare di lei, impariamo a fidarci totalmente di lei, anche se non capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: “Fate quello che vi dirà”. A volte non capiamo cosa la vita ci dica; anzi capiamo benissimo cosa ci propone ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta lì dove non vogliamo andare e siccome non capiamo il perché ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso affrontarle,quando ce ne possiamo stare in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte sentiamo che ci spinge o ci porta lì dove non vorremmo andare, che ci invita ad esporci anche quando non sarebbe il caso: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché, fratelli, la salvezza sta nel fidarsi di Dio, in quanto Lui, la Vita, non sbaglia mai.
«Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei». L'acqua di queste giare serviva per purificarsi, per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia, putrida, che è diventata inutilizzabile. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. Perché proprio« sei»? Il numero sei (inferiore del sette che significa la “perfezione”), indica i nostri limiti, la nostra imperfezione: ci manca cioè “un qualcosa” di essenziale, di vitale; non siamo completi. Siamo «di pietra»: una specifica che indica non solo il materiale delle giare ma anche la nostra vita; una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. Una vita che si è annacquata, fossilizzata, sclerotizzata nei soliti rituali, nelle solite abitudini: ci manca un respiro più ampio, diverso, un “oltre”. È come trascorrere giornate prive di gusto, di sapore: si vive, ma senza senso, senza soddisfazione.
“La giara di pietra” è il segno dell'irrigidimento della nostra devozione, delle nostre regole religiose; è il segno di certi nostri riti religiosi, stantii e ripetitivi, che non trasmettono più nulla, che non hanno più nessuna vitalità, più nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Continuiamo a ripeterli solo perché lo abbiamo sempre fatto, perché l’abitudine ci tranquillizza, è ciò che conosciamo, ciò che ci appartiene, ciò che non ci provoca sussulti, non ci fa paura.
E non ci accorgiamo neppure noi, come gli sposi del vangelo, che il vino è finito! Non ci accorgiamo che siamo noi ad essere “esauriti”, vuoti, inservibili per noi e per gli altri.
Ma dove viviamo? Perché non pensarci prima? Purtroppo la routine, la quotidianità, se non stiamo attenti, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirci continuamente, per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre uguali. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, quando non frequentiamo nessun incontro di più ampio respiro, con orizzonti più grandi, in modo da toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, davanti alla tv, al bar con le solite quattro chiacchiere inutili da osteria; con gli “amici” nella ripetitività delle solite cose da affrontare e da fare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci castronerie e “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, intelligenza, cultura, sapere, solo per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita che vorrebbe riempirci di vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo materialista, indifferente e apatico; a questa società ormai depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci abbracciamo più, quando non ci accarezziamo più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non vogliamo più metterci in discussione, quando rinunciamo ad imparare, a cambiare, ad evolvere: allora la crescita si blocca. La vita si blocca. E questo succede quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati; quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto; quando crediamo, come abbiamo sempre creduto. Tutto diventa freddo, tutto diventa “solito”, normale, piatto. Arriviamo a temere il calore, le vibrazioni, i sussulti dell'esistenza e della Vita.
E prima o poi, una certa mattina, nell’alzarci, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Ecco, fratelli, scuotiamoci, usciamo dal nostro torpore: questa è l’urgenza vera, questa è la nostra possibilità di salvezza.
Gesù disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». “Attingete”, perché Dio ha già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio, creandoci, ha già compiuto il miracolo; ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di crederci, di abbeverarci alle sue sorgenti profonde. Il miracolo si è già compiuto, sta dentro ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo tirarlo fuori, farlo emergere.
Chi è capace di cambiare, di modificarsi, di evolversi, si salverà. Chi non è capace, morirà, sommerso dal suo far niente. Si condannerà da solo.
Ecco, fratelli, è questo l’insegnamento che in estrema sintesi dobbiamo cogliere dal vangelo di oggi: se vogliamo salvarci, dobbiamo necessariamente “mutare”; dobbiamo cioè trasformarci da acqua in vino; dobbiamo migliorare, imparare dai nostri errori e crescere, crescere. Perché crescere significa soprattutto spalancare il nostro cuore e la nostra mente alla luce e al calore dell’Amore. Amen.
Nessun commento:
Posta un commento