mercoledì 23 marzo 2011

27 Marzo 2011 – III Domenica di Quaresima

«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».
Da questa domenica c’è una scelta diversa per l’autore del vangelo: le tre pericopi che scandiscono la terza, la quarta e la quinta Domenica di Quaresima, che ci conducono alla domenica delle palme e alla settimana santa, venivano usate come spunto di studio, di riflessione e di scrutinio nella formazione dei catecumeni, i quali concludevano il loro percorso di iniziazione cristiana nella notte di Pasqua, ricevendo il Battesimo. L’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicar, la guarigione del cieco nato e la risurrezione di Lazzaro, segnano anche oggi le tappe di questo cammino (in presenza di catecumeni possono essere ripetute in queste domeniche anche nei cicli B o C), poiché si prestano egregiamente non solo a descrivere il percorso di fede dei vari protagonisti, ma anche a fare, da parte dei battezzati, un serio esame critico sui progressi della loro vita cristiana.
Abbiamo quindi un passaggio di consegne da Matteo a Giovanni. Ma perché proprio Giovanni? Perché parlando di Gesù, Giovanni non si accontenta di accennare ai fatti in maniera distaccata e scarna, come fanno gli altri, ma nel suo Vangelo ogni singolo episodio viene affrontato con estrema ricchezza di particolari, di sfumature, di annotazioni psicologiche, soprattutto nel descrivere gli incontri faccia a faccia. Sono scene così ben descritte che si impongono alla nostra attenzione, che toccano le corde più sensibili del nostro cuore e trasmettono un profondo insegnamento. Un immediato riscontro lo abbiamo infatti oggi stesso, nella prima delle tre pericopi, che descrive appunto in maniera stupenda il colloquio fra Gesù e la donna di Samaria, presso il pozzo di Giacobbe.
Siamo nel periodo dell’anno che precede la mietitura, quindi in estate già avanzata. Gesù, stanco per il lungo camminare, accaldato, si ferma a riposare in prossimità di Sicar, ai bordi di quel pozzo che fu di Giacobbe. Gesù è solo: i suoi discepoli lo hanno lasciato per cercare qualcosa per il pranzo. Il caldo è insopportabile; ha una gran sete, ma essendo sprovvisto di qualsiasi tipo di recipiente, non può attingere l’acqua, laggiù in basso, a circa una trentina di metri. Caso veramente fortunato per quell’ora, si presenta una donna che ha con sé una brocca. Certo deve essere una donna piuttosto singolare, se ha scelto di andare al pozzo nell’ora meno indicata: una donna che sceglie di attingere acqua sotto il solleone, lo fa sicuramente per evitare incontri imbarazzanti o per sottrarsi all’ascolto delle maldicenze sussurrate dalle altre donne nei suoi confronti. La sua reputazione, per motivi sentimentali, è in realtà molto compromessa: è una donna leggera, una poco di buono, giudicata e condannata dai benpensanti di ieri e di oggi. Per questo il giudizio su di lei è molto pesante, come molto pesante ed arido è il suo cuore, per essersi dissetata fino ad allora soltanto con acqua “inquinata”.
Ed è lì, al pozzo, che incrocia quell'ebreo stanco e assetato, che attacca bottone.
È guardinga, la samaritana: è stufa di farsi sedurre, è stufa di essere illusa, pensa subito che quel tale che le chiede da bere, voglia corteggiarla. Non sa ancora che quell’incontro è unico, irripetibile, determinante, profondo e miracoloso proprio per entrambi: si, perché Gesù trova la fede in una persona che, a giudizio di tutti, non l’aveva mai avuta o non l’aveva più; la donna invece incontra l'Amore: l’Amore quello vero, quello totale e coinvolgente, quell’Amore che tutti aspettavano da secoli. Un incontro, quello tra i due, che sconvolge ogni regola, che va contro il buon senso, che è contrario ad ogni norma religiosa. Gesù, il maestro, scavalca impassibile tutte le barriere di quel tempo: la barriera del sesso (un rabbino, un maestro, non doveva mai rivolgere la parola ad una donna fuori di casa, fosse pure la moglie!); la barriera di razza (i samaritani erano considerati dei bastardi in quanto erano mescolanza con gli assiri); la barriera di nazionalità ( i samaritani erano considerati forestieri); la barriera di religione (erano considerati scismatici e impuri); la barriera del buon comportamento (parlare al pozzo ad una donna era corteggiarla, farle delle avances, "provarci" insomma, e la cosa sarebbe andata sulla bocca di tutti; gli stessi discepoli ne rimangono scandalizzati!).
A Gesù tutto questo non interessa, egli rompe ogni schema e le parla. Egli è un uomo al di sopra di qualunque pregiudizio, ed è per questo che nella sua vita ha sempre fatto incontri meravigliosi. Gesù non si ferma a ciò che si dice in giro; è completamente indifferente a ciò che gli uni pensano e dicono degli altri. Gesù non dice: “Questo è ricco (Zaccheo), questa è una donna di malaffare (adultera, samaritana), questo è un ladro (Matteo Levi), questo la legge non lo permette (guarire di sabato), questo non sta bene (la donna che lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò), questi sono pagani, eretici (samaritani), questi sono peccatori (pubblicani, prostitute)!” Gesù è al di fuori di ogni schema umano: per questo risulta scomodo e fastidioso a tutte quelle persone che sono piene di regole, a tutte quelle persone che sono rigide, con una mentalità bacchettona e ristretta.
Il dialogo che Gesù intavola con la Samaritana è dunque un capolavoro di finezza psicologica e di delicatezza divina.
Allo straniero che gli chiede un piacere, la Samaritana si presenta subito insofferente e molto sicura di sé. Alla richiesta di aiuto: “Dammi da bere!”, la sua secca risposta: “Come mai un Giudeo si abbassa a chiedere da bere a me che sono samaritana?” non è delle più incoraggianti per Gesù; ma a Lui è comunque sufficiente, perché se ne serve come aggancio, come pretesto, per portare subito il discorso là dove Egli voleva; è la sete della donna per “un’altra acqua” quella che interessa a Gesù: tant’è che la sua sete personale, il suo “dissetarsi”, viene accantonato, dimenticato, non se ne parla più. Gettato il ponte della comunicazione, Gesù dimentica la sua “arsura” e tutta la sua attenzione è volta a lei, alla samaritana: alla sua persona, al suo credo, al suo cuore. Ebbene, quella samaritana siamo tutti noi, fratelli, con le nostre necessità, i nostri problemi, le nostre difficoltà. Succede sempre così: se da un lato il Signore usa il pretesto di chiederci qualche inezia, lo fa per darci di più: anzi egli ci dà tutto, ha sempre cose molto più importanti da offrirci; ce lo fa capire chiaramente anche in questo racconto, attraverso questa donna, in apparenza molto disinvolta e sicura di sé, ma in realtà molto angosciata e insoddisfatta della sua vita. Si, fratelli: perché, lo ripeto, lei e noi siamo sullo stesso piano, entrambi abbiamo sete, tanta sete: una sete profonda, totale, subdola. È la sete di amore, di bene, di affetto, di luce, di pace, di senso che inquieta le nostre vite.
Una sete profonda, misteriosa, che rischiamo di sottovalutare o, peggio, di saziare con acqua inquinata e “salata” che, dopo una prima apparente soddisfazione, amplifica a dismisura l’arsura e il desiderio di bere. Lei ne sa qualcosa. E anche noi. Entrambi siamo fragili, non abbiamo trovato in questo mondo niente e nessuno che ci possa dissetare sul serio. Abbiamo ancora sete, sete d'Amore. Come tutti.
Gesù ci ha aspettato al nostro pozzo battesimale: continua ad aspettarci sempre alla sorgente di acqua viva dei suoi sacramenti: qui egli ci cerca, uno per uno. Egli continua ad aspettarci, continua ad avere sete di noi, non per giudicarci, ma per dissetarci. Egli ha sete della nostra fede, del nostro amore. Stanco di aspettare, è Lui che per primo prende l'iniziativa: si, stanco; perché Dio è stanco di correre dietro alle sue pecore infedeli, che insistono a dissetarsi in cisterne fatiscenti, piene di acqua putrida, ignorando volutamente le fresche e vive sorgenti di acqua limpida che sgorgano dal suo cuore. Stolti!
E Gesù insiste: “se vuoi essere dissetata - fa capire alla donna - devi essere onesta con te stessa. Dio non ti giudica, Dio non ti condanna, gli altri sì, sempre, sistematicamente, tutti, anche quelli che si dicono uomini di Dio: più si sentono di chiesa, peggio ti giudicano; no, stai serena: con me non hai nessun esame da superare, devi solo renderti conto dei tuoi limiti”. Beh, per chi è carico di pregiudizi, anche un’offerta così vantaggiosa è difficile da accettare, non vi pare?
La donna infatti svicola, non capisce e la mette sul religioso: “Ma Dio non bisogna pregarlo a Gerusalemme, nel tempio, o qui in Samaria, sul Garizim?”. Domanda ingenua! Domanda pretestuosa, tanto per prendere tempo: lei sa perfettamente infatti che, pubblica peccatrice, non può entrare in alcun Tempio, né in quello di Gerusalemme, né tantomeno in quello dei Samaritani, in quanto inesistente, già distrutto. La religione esteriore ha le proprie regole, e lei è decisamente fuori. “E invece no”, dice Gesù: “il tuo cuore è già un tempio; la tua verità, il tuo spirito, il tuo cuore ti permettono di entrare nella gloria. Tu sei un tempio e lì puoi incontrare Dio”. Tace, la donna. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l'aveva amata. Il mondo si era diviso in chi l'aveva usata e in chi l'aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. E beve, ora, la samaritana: beve avidamente, a garganella, come se mai avesse provato il gusto dell'acqua, come sei mai avesse assaggiato l'acqua fresca di sorgente. Beve, e sente aprirsi dentro di lei una sorgente impetuosa, sente il suo cuore, costretto e inaridito dal dolore, spalancarsi con l’impeto di un fiume in piena, sente la roccia del suo cuore frantumarsi in un Amore nuovo, sconosciuto, senza limiti, un Amore che la travolge. E corre. Abbandona la brocca (che le importa, ora?), corre dai suoi vicini, dai suoi concittadini e grida: è arrivato il Messia! La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, si trasforma in un'opera d'arte. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l'epifania del volto di Dio.
Continua a bere, ora, la samaritana: perché anche lei è diventata sorgente inarrestabile.
Follia, fratelli, follia. Riusciremo mai anche noi a convertirci a tanto?
Incontrare Gesù, fratelli, è ammettere la realtà di noi stessi, è come guardarsi allo specchio. Incontrare Gesù, aver fede in lui, non si risolve in un pio esercizio ascetico, ma è l'incontro con ciò che siamo realmente. Perché Gesù ci conosce. Gesù è colui che ci smaschera, che se nascondiamo qualcosa, Lui ce lo rinfaccia, davanti e subito. Non si può incontrare Gesù e pensare di nasconderci. Di fronte a Lui non si può mentire, scappare, raccontarsi “balle”. E chi vuol evitare quest'incontro, evita Dio stesso, evita l'Incontro, perché Dio è Spirito e Verità. Non facciamo come la donna samaritana al pozzo: pur di evitare la verità, pur di non vedersi per quello che è, sposta il discorso sul piano religioso. Eppure, fratelli, quante volte ci appelliamo anche noi ad un “dialogo sui massimi sistemi”! Quante volte ci tuffiamo in discorsi che riguardano Dio, la teologia, la spiritualità, la preghiera, pur di non guardare dentro di noi, pur di non leggere i segnali della nostra tremenda arsura che cuore e anima disperatamente ci lanciano. Certo è più facile parlare di Dio, di vera religione; è più semplice parlare della società, della politica e soprattutto degli altri, piuttosto che mettere in piena luce il nostro spirito aggressivo, capire il nostro cuore ferito e impaurito, per correre ai ripari. Gesù è chiaro: se non incontri il tuo spirito nella verità, non puoi crescere. Se vuoi l'acqua viva, devi scendere nel pozzo della tua vita e bagnarti, lavarti, lavarti nella Verità. Neanche la tua fede è vera se non tocca il tuo spirito, il tuo cuore, il tuo profondo. Neanche la tua fede è vera se non passa al vaglio della Verità. Ogni uomo, ogni donna si porta in cuore "un crepaccio assetato di Infinito", scriveva Kierkegaard. È l’infinito dell’Amore di Dio, la nostra salvezza.
Purtroppo la nostra vita è tutta un vagare da un pozzo all'altro e spesso ci illudiamo di spegnere la nostra grande sete con cento, mille piccoli sorsi di un'acqua imbevibile. E così la sete aumenta... la ricerca spasmodica di una vita più felice, più bella, più gratificante, diventa una corsa ossessiva, disperante e disperata: si riduce ad un comprare, consumare, fare esperienze sempre più sensazionali, provare emozioni sempre più forti, cercare di guadagnare sempre di più per godere più che si può. Il risultato? Insoddisfazione crescente, nausea dominante, il baratro della noia e della depressione.
È in questo deserto del mondo contemporaneo che l’umanità, divorata dalla sete, continua a gridare, come gli Ebrei a Mosè: “Dacci da bere! Stiamo morendo di sete...”. Un grido che sale imperioso anche verso chi governa, verso le ideologie, verso la cultura. Ma è il grido soprattutto rivolto alla Chiesa: “Dacci da bere!” Un grido che, volenti o nolenti, raggiunge anche noi, popolo e chiesa di Dio. Una responsabilità che è anche nostra, fratelli. Che fine ha fatto l'acqua viva che dobbiamo offrire a questi fratelli assetati? Che cosa possiamo mai offrire di nostro alle immense attese degli uomini contemporanei? Che ne abbiamo fatto del nostro Battesimo? Dove abbiamo messo l’acqua viva che ci è stata donata? Dove sono le nostre riserve di cristiani? Tremenda richiesta di aiuto, fratelli! Tremenda nostra responsabilità, se per negligenza abbiamo lasciato ostruire i canali di trasmissione! Certo, è inquietante se pensiamo che Dio prende i suoi annunciatori tra la feccia, come la samaritana, che raccoglie per strada i reietti come noi, e li innalza alla dignità di discepoli! È inquietante, ma ci deve far coraggio: una cosa che ci deve far meditare profondamente fratelli. Ma allora, se le cose stanno così, che aspettiamo ancora? Riallacciamoci immediatamente alla Sorgente: diamo nuovo flusso e nuova vita nel nostro cuore a quel Dio, a quell’Amore inesauribile, che i nostri fratelli si aspettano da noi; diventiamo torrenti, canali, fiumi impetuosi di quell’Acqua Viva che, lo sappiamo bene, è l’unica che può mitigare la sete ardente e implacabile del mondo. Dissetiamoci e facciamo dissetare! Tutti quelli che ci avvicinano. Il tempo è breve, fratelli: siamo già col sole allo zenit, non aspettiamo la sera! Amen.

giovedì 17 marzo 2011

20 Marzo 2011 – II Domenica di Quaresima

«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…».
Oggi il Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione, la sua “location”. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli. Oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza, dal ”toccare il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. Ad un Gesù troppo umano, che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù troppo divino che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai sacrifici e alla preghiera continua? Dov'è il giusto? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci. Oggi, in particolare, Gesù cerca di dare una risposta su ciò che può rendere felice l’uomo in questa terra. Ci dà un piccolo assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il sorriso e la fiducia. Bene: Gesù, in poche parole, ci dice che la nostra vita può diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un anticipo paradisiaco semplicemente attraverso l’amore. Sì, fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, quanto sia immenso l’amore che Dio ha per tutti noi.
La “trasfigurazione”, la nostra “trasfigurazione”, è dunque questo: vedere e sperimentare con gli occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano potrà mai percepire. Questo ci dice il vangelo di oggi. Ma per capirlo, dobbiamo capire l’amore, fratelli: infatti, solo se siamo stati almeno una volta innamorati, se abbiamo perso la testa e fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato di vedere il mondo come un paradiso, un immenso giardino fiorito, perché qualcuno ci ha detto “ti amo”, solo allora possiamo sperare di capire il vangelo di oggi: sì, perché Gesù è un innamorato, un passionale convinto (ricordate con quanta decisione si dirige verso Gerusalemme, per incontrore la sua "passione"?), è un fuoco che divampa, che brucia, che infuoca chiunque incontri. “Dio è amore” ci conferma Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi all’amore e viverlo, può capire Dio. Tutti quelli che tengono chiuso il loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, lo continueranno a cercare, ma invano.
Trasfigurarsi: ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati veri, quelli che sono persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bambino, l'universo immenso nella faccia rugosa di un vecchio, le stelle, l'universo e tutti i soli che brillano, negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso che sarà successo anche a Voi, fratelli, di piangere davanti ad un volto disperato, al dolore di una perdita, a scene di altruismo e di amore eroico, come pure davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di esservi sentiti così pieni di gioia, di sensazioni profonde, di commozione così intensa, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Ma oggi invece so che vuol dire essere vivi, vuol dire percepire ciò che si vive dentro, ciò che gli "altri" vivono dentro; vuol dire lasciarci toccare il cuore, vuol dire lasciarci colpire e farci coinvolgere da ciò che succede intorno a noi, non essere duri come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo, in ogni caso freddi, gelidi, impassibili. In altre parole vuol dire lasciarsi “trasfigurare”. Sì, fratelli, sono questi i momenti della nostra "trasfigurazione"; sono i momenti in cui sentiamo con assoluta certezza che vale la pena di vivere, anche solo per pochi istanti; sono i momenti in cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità di esistere, di amare, di credere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la forza e il coraggio di andare avanti e di affrontare le "discese" dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di vita, di infinito, di "Dio", tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, "nero", indegno di essere vissuto, uno schifo. Dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci invada, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si muova (e-mozione), che nasca continuamente. E se questo non ci dovesse accadere, dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente se il nostro cuore viva ancora o sia già morto. Perché è proprio lo stupore, la capacità di emozionarci, di amare, che ci dice quanto siamo ancora vivi.
Questa è la Trasfigurazione. La nostra trasfigurazione. E noi ne possiamo fare esperienza diretta continuamente, basta avere gli “occhi” per vedere: per esempio quando ci innamoriamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando nel buio di una situazione difficile entra improvvisamente uno sprazzo di luce e, già persi, ritroviamo Dio, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando vediamo, percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, anche se dal di fuori non si vede nulla, questa è trasfigurazione. Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro faccia vera, il loro volto genuino, la loro figura così come è stata inizialmente creata da Dio, prima ancora di venire deformata dai giorni bui, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo, di essere così pieni, così ricchi da sentirci immensi, caldi come il sole, scintillanti come le vette innevate, o profondi come il mare, beh, dobbiamo sapere, fratelli, che anche questa è trasfigurazione. Il mondo, nella sua infelicità, dirà che noi siamo matti: in realtà forse un po’ matti anche lo saremo, ma sicuramente siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico” e “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci chiama quindi a tagliare tutti i cordoni ombelicali (dipendenze) per poter nascere, crescere e vivere ogni giorno: se infatti il cordone ombelicale non venisse tagliato, il bambino morirebbe; non tagliare certi legami (cioè limitarsi a cambiarli, cercare di renderli più liberi o veri, chiuderli, perdonarli, modificarli, trasformarli) non serve a nulla, fratelli: ci farebbero solo morire. Dobbiamo recidere senza esitazione questi cordoni per poter andare avanti: dobbiamo tagliare i cordoni ombelicali con quelle esperienze che ci hanno fatto male, con i traumi, con ciò che ci sarebbe piaciuto essere ma che non siamo mai stati e che mai potremo essere. Dobbiamo in una parola tagliare via tutto ciò che ci fa o ci ha fatto del male: perché conservarlo nel nostro cuore, anche se è solo un ricordo di tanti anni fa, significa farlo tornare ogni sacrosanto giorno, puntualmente, per rifarci del male; non tagliarlo significa continuare ad inseguire fantasie inutili, che esistono solo nella nostra mente, che non possono esistere, e che non sono mai esistite nella realtà. La vita, in questo senso, è un continuo tagliare cordoni ombelicali per poter crescere, per sviluppare e portare frutti. Ma c’è anche un cordone ombelicale che non va tagliato. È il legame con Dio che deve rimanere per sempre. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei attaccato qui, legato a me (re-ligione = essere legati), allora sei al sicuro. Questo legame rimane in eterno, questo cordone è d'acciaio e non si può troncare. Per quanto in basso tu cada o vada, questa corda ti terrà legato a me, e tu non ti perderai”.
Tabor significa poi anche "principio di luce". E noi abbiamo bisogno di luce, fratelli, abbiamo bisogno di esperienze che ci illuminino sulla nostra reale identità, che ci facciano scoprire le nostre possibilità, che ci facciano sentire forti, perché, solo in Dio, noi possiamo qualunque cosa. Abbiamo bisogno di sentire la nostra forza, di sentirci dire che "non è vero che siamo ad un punto di non ritorno"; che "non è vero che non possiamo cambiare"; che "non è vero che non possiamo essere felici in questa vita"; che "non è vero che siamo destinati a vivere nella mediocrità, nel tirare avanti". Abbiamo bisogno di persone che ci guardino negli occhi e che ci dicano: "Tu puoi"; che ci ripetano: "No, tu puoi essere diverso, tu puoi vivere meglio"; che ci strattonino e ci sveglino: "Osa, vola, non adattarti; sei un'aquila, non vivere come un pollo per paura!"; di persone che ci dicano: "Tu hai la luce nell’anima, io la vedo attraverso i tuoi occhi: sprigionala, tirala fuori, falla uscire". Abbiamo bisogno di "madri" che ci amino, che ci stimino, che ci accolgano, che siano per noi un abbraccio caldo e accogliente per la nostra paura, un porto sicuro nel momento di sconforto, di tristezza, di buio e di difficoltà. Abbiamo bisogno di "madri" che ci diano quell'amore che ci fa credere in noi, che ci fa sentire belli, buoni, desiderabili, importanti, preziosi, così da poter anche noi un giorno credere in noi stessi e andare avanti. Abbiamo bisogno di "padri" che ci trasmettano la forza di andare al largo, di non vivacchiare, che ci diano l'entusiasmo e la passione di vivere in pieno, con energia, con tutto noi stessi; di "padri" che ci invitino ad osare, a provare, a non aver paura.
Allora potremo andare serenamente anche verso la “passione”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro avremo energia, forza, entusiasmo: avremo Dio nel cuore.
Nella nostra “trasfigurazione”, nella nostra vita cristiana, chiediamoci in tutta umiltà e sincerità: “È ancora bello per noi stare qui con te, Signore?” “È ancora bello stare con te nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una risposta franca in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena di entusiasmo e di felicità: «Domine, bonum est nos hic esse – Signore, è bello per noi stare qui….». È vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, indistintamente, siamo chiamati a sperimentare nella nostra vita quanto sia bello stare con Dio.
Per farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dedicare tempo, coltivare l'amore, metterci in sintonia con la natura. Per farlo, come suggerisce il Padre, dobbiamo ascoltare. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello ha da dire l'uomo, ogni uomo, ogni nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per questo dobbiamo ascoltare: perché ascoltando riusciremo a recuperare nella nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio, dell'amore di Dio. Si, fratelli: perché è proprio dalla bellezza e dalla calda luminosità di Dio che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono mediaticamente dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, bene, bontà, amore. La bellezza di Dio, la bellezza della nostra anima innamorata: dobbiamo capire, fratelli, che la vera bellezza non è una questione esteriore, un fatto di canoni estetici! Possiamo infatti ricorrere a tutti gli “aiutini” di questo mondo, possiamo farci tagliuzzare in mille pezzi, possiamo farci siliconare a più non posso, senza con questo riuscire ad essere delle “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, immagine della bellezza di Dio, noi finiremmo con l’assomigliare a fredde, tirate, dure e infelici bambole, piuttosto che a “belle” persone!
Dobbiamo riappropriarci ad ogni costo di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in alto, lassù, sul monte Tabor, a fissare il nostro sguardo estatico sul Cristo trasfigurato. Perché è con la sua luce, con il calore del suo amore, che dobbiamo fare delle nostre chiese altrettanti Tabor, altrettanti luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, i momenti in cui preghiamo, devono riportare nella nostra quotidianità un briciolo di quella bellezza: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza, di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza: la bellezza e l'amore di Dio. Allora la vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente imparato a viverla e a donarla. Amen.

giovedì 10 marzo 2011

13 Marzo 2011 – I Domenica di Quaresima

«Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse…».
Dopo la lunga paternale delle beatitudini con cui Gesù in queste ultime domeniche ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità, è arrivata finalmente la quaresima. Beh, finalmente per modo di dire, perché la quaresima non è il tempo dell’adagiarsi, del riposare sugli allori, del tirare finalmente il fiato dopo le sberle che abbiamo incassato; nossignori. Quaresima vuol dire “convertirsi” da “con-vertere”, ossia fare una inversione ad “u” rispetto alla direzione che stavamo seguendo; significa tornare indietro, tornare sui nostri passi, sui valori autentici del vangelo, per ripartire, questa volta, col piede giusto. Quaresima è il tempo della prova, il tempo del rodaggio su strada dei nostri buoni propositi, di quelli cioè che di fronte a Dio abbiamo deciso di portare avanti: “Sì, Signore, hai ragione; è come dici tu: se mi misuro con quanto hai detto, sono proprio zero, una nullità. Non ho ancora capito nulla di te; debbo proprio rimboccarmi le maniche: e questa volta ti farò vedere…”. Ecco, è quel “ti farò vedere”, quella decisione presa in un istante di vergognosa sincerità, sgorgata giù, nell’intimo del nostro cuore, che automaticamente spazza via ogni velleità di “riposo”.
Non c’è riposo nel cammino che ci porta a seguire Cristo. Illusi noi, se pensassimo ad una tale eventualità. Quaresima, dunque: tempo di bilanci, tempo di verifiche, tempo di analisi sulla nostra salute spirituale, tempo per pianificare concretamente la nostra “conversione”, la nostra ripartenza, ma soprattutto tempo di far vedere a Dio che siamo persone serie e non i soliti burattini.
Finalmente il carnevale è finito, fratelli: ora è tempo di gettare le maschere, quelle maschere che da anni, troppi, ci portiamo incollate addosso, quelle che ci fanno illudere di essere diversi, quelle che ci piace tanto ostentare davanti agli altri, per essere considerati migliori di quello che siamo! Quelle che a volte non ci vergogniamo di indossare neppure quando siamo soli, a tu per tu con Dio! Quanto siamo meschini! Eppure “ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!”. Lo abbiamo sentito mercoledì scorso dal sacerdote che ci imponeva le sacre ceneri. Polvere, fratelli, siamo solo polvere; insignificante e arida polvere del deserto primordiale. Senza il soffio di Dio, siamo polvere senza vita. Senza di Lui, siamo polvere inutile: perché è Dio che ci riempie di immortalità, di speranza, di sogni.
Purtroppo viviamo in un mondo carico di odio, di lotte e di continue contrapposizioni a tutti i livelli: politico, religioso, culturale, sociale, economico. L’unico scopo della nostra vita sembra essere quello di vincere battaglie, tutte le battaglie, e di assicurarci un posto dalla parte “ricca” del vincitore. Siamo in continua ansia da guerra: e quel che è peggio ci siamo convinti di essere noi i più forti, di essere sempre noi i vincitori, gli indistruttibili, gli unici, i migliori. E questo nonostante Gesù con la sua vita ci abbia insegnato il contrario: egli infatti non è venuto tra noi per vincere. Non è venuto per dimostrarsi potente e senza problemi. Non è venuto per vincere nessuna battaglia; si è calato nei nostri deserti quotidiani, nelle nostre fragilità umane fatte di fame, di debolezza e di peccato, per dimostrarci che non siamo soli e soprattutto che non siamo senza speranza. Gesù è entrato in questo nostro deserto, altrimenti invivibile: è entrato, e resta con noi, come uno di noi.
E nel vangelo di oggi, con il suo ritirarsi nella preghiera e nel silenzio, ci insegna come fare la nostra “con-versione”, come ripartire per un nuovo cammino, ci indica la nuova strada, quella sicura di seguire le sue orme, la strada dell’amore e della felicità; e per prima cosa ci insegna a liberarci dalle striscianti e ambigue illusioni del nemico tentatore.
Sì, Gesù ci dice di combattere le tentazioni: ma che sono le tentazioni? Qualcuno oggi parla ancora di tentazioni? In una società in cui tutto è permesso, tutto abbordabile e tutto attuabile (“desidero qualcosa? Me la prendo!”), che senso ha parlare di tentazioni? Eppure il cammino verso la nostra Pasqua, passa proprio di qui: quelle che Gesù vive e combatte in prima persona, sono le nostre grandi illusioni, i grandi inganni della nostra vita, quelli che non conosciamo ancora abbastanza, quelli che addirittura non vogliamo conoscere e che inesorabilmente ci ostacolano il cammino, o addirittura ci sviano. Gesù ce ne indica tre: il primo consiste nel voler sostituire Dio con le “cose”, assolutizzandole: “dì che queste pietre diventino pane”; è l’inganno di pensare che tutta la nostra vita consista e si realizzi qui, nel presente, che serva soltanto a saziare le nostre voglie. Il secondo inganno è quello che costruiamo pretendendo un sistematico intervento di Dio, teso a sanare i nostri egoismi, a rimediare ai nostri errori: «i suoi angeli ti porteranno sulle loro mani…». Infine, l’inganno più ambito, quello di rincorrere ricchezze, successo e potere, esigendoli ad ogni costo e con ogni mezzo, anche calpestando il prossimo e vendendo al diavolo la propria anima: «tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Ebbene, fratelli, sono queste le tentazioni che Gesù ha sconfitto; sono queste le tentazioni da cui ci mette in guardia; ma sono anche queste – idolatrare le cose, pretendere interventi risolutori di Dio, rincorrere le ricchezze e i piaceri materiali – le grandi conquiste dalle quali l’uomo si sente attratto, quelle che lui considera le sue grandi affermazioni personali.
Da qui la lezione di Gesù, chiara come al solito. Nella vita si impone una costante scelta; come diceva Sartre, l’uomo è condannato a scegliere, è condannato ad esercitare la sua libertà. E la libertà, lo sappiamo fratelli, la vera libertà, è un bene difficile da gestire.
Troppo spesso noi siamo “tentati” di delegare ad altri le nostre scelte di vita, le nostre opinioni, in quanto occupati a cercare altrove la sorgente della nostra felicità.
Nuovi Adamo ed Eva, giriamo senza sosta fra i tanti serpenti che ci incantano, facendoci credere che la felicità, la soluzione ad ogni nostro problema, è vicina, evidente, ovvia. E invece poi scopriamo che nessuna cosa di questo mondo riesce a soddisfare e a rendere felice l'incontentabile nostro cuore.
Nei vangeli il peccato è superato, perdonato, scomparso, a causa dell'immensa misericordia di Dio. È considerato solo indirettamente, di riflesso, come cartina di tornasole per dimostrare la bontà e l'amore senza limiti di Dio. Ma il peccato, con le sue suadenti e irresistibili tentazioni, il grande assente dalla nostra moderna mentalità, esiste, fratelli; eccome esiste! È il segno, la dimostrazione del dna dell’uomo, della sua libertà di scegliere e di sbagliare.
Ecco allora perché, in questo deserto della quaresima, è necessario che torniamo all'essenziale; che impariamo a capire chi, o che cosa, conduca la nostra vita, e verso dove; che ci rendiamo conto degli errori che facciamo, soprattutto quando insistiamo sempre negli stessi; quando ci incaponiamo in scelte scellerate, continuando a considerarci altrettanti Dio, a sentirci suoi pari. Già, proprio come successe ad Adamo ed Eva che peccarono pensando di diventare onnipotenti; sperimentarono invece che fu proprio grazie alla loro arroganza che si allontanarono tra loro, dal Creato e da Dio.
Questa quaresima ci metta in guardia su questa realtà; sia un invito a tener sempre presente la nostra innata fragilità, a guardare questa nostra nudità; sia pertanto occasione per riconoscere i nostri peccati, per gettarli tutti nel cuore incandescente di Dio. Appropriamoci così della nostra autenticità, e della nostra integrità morale.
Non cediamo alla tentazione di voler vincere sempre e a tutti i costi, ritenendoci inattaccabili.
Accettiamo con grande umiltà la nostra vita, nella sua precarietà, come ci ha insegnato Gesù. Perché solo allora sentiremo realizzate pienamente in noi le parole divine di amore, di conforto, di speranza. Solo allora ci sentiremo veramente beati, non perché perfetti, ma perché tanto amati. La nostra vita, oltre che deserto e fragilità, sarà allora anche certezza di avere Gesù sempre più vicino a noi, con noi, dentro di noi.
Ecco: questo è quanto ci dice oggi il vangelo: questa è la Parola che Gesù riversa nei nostri cuori; ascoltiamola e viviamola, fratelli. Anzi, diventiamo noi stessi bocca di Dio, voce di Dio, per portare, per condividere questa sua Parola, con tutti i nostri fratelli: perché alle parole ingannatrici di questo mondo, dobbiamo contrapporre la Parola di Dio, che è verità assoluta; alle parole di morte e di odio di questa nostra società, dobbiamo contrapporre la Parola di Dio, che è vita e amore. Amen.

giovedì 3 marzo 2011

6 Marzo 2011 – IX Domenica del Tempo Ordinario

«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli…».
Parole semplici, all’apparenza tranquille, ma in realtà, a ben meditarle, sono un po’ come il classico colpo che ti stende, che ti mette a KO. Ricordate Matteo capitolo cinque? Beh, non è che Matteo capitolo sette sia da meno. Gesù ci aveva già messo in crisi: ma in quel meraviglioso scenario che sovrasta il lago di Genezareth, prima di concludere il “discorso della montagna”, egli continua imperterrito a smontare una ad una tutte le nostre sicurezze, le nostre facciate di parata, il nostro perbenismo di maniera, le nostre troppe costruzioni, magari anche belle e geniali, ma fondate sulle sabbie inconsistenti del nostro voler apparire ad ogni costo, del nostro superbo egoismo.
Le nostre fidate compagne di viaggio – ostentazione, doppiezza, esteriorità, banalità, superficialità – rendono il nostro cristianesimo fin troppo facile. Con queste partner, il nostro cammino sembra volare, non esistono sacrifici o privazioni che si frappongano al nostro procedere, che intralcino la nostra strada: tutto fila liscio. Del resto come sarebbe possibile il contrario, visto che tutto è fondato sulle sfumature dell’apparire e del dire piuttosto che sulla concretezza dell’essere e del fare?
Anche oggi abbiamo dunque un Gesù che non lascia ampi margini alla nostra furbizia e inventiva, un Gesù che condanna decisamente le nostre chiacchiere magistrali, il darla a bere a chiunque, il vendere fischi per fiaschi: cose che, con la nostra grande disinvoltura, ci riescono sempre magistralmente.
Ma «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio…».
È inappellabile, Gesù: nessun “distinguo”. Nessuna eccezione. Ancora una volta ci viene ribadito che il tempo di vivacchiare, illudendoci, è finito: ancora una volta il nostro tirare avanti viene messo in discussione; così: non può bastare il nostro piccolo sforzo domenicale di andare in chiesa, semplicemente; non può bastare lo stare lì impalati, con la testa chissà dove; non può bastare la nostra offerta, spesso fatta con ostentazione, a beneficio di chi guarda; non può bastare il sorriso di circostanza nel dare la pace al vicino. Tutto questo non basta più. Non sono atteggiamenti che caratterizzano una vita cristiana. Sono atteggiamenti da istrioni.
Gesù ci ricorda, fratelli, che la nostra fede non ammette finzioni scenografiche: il cristianesimo è autenticità, non è sinonimo di parvenza, non si identifica con quel teatrale bigottismo, che purtroppo ancora si annida nelle nostre chiese. Questo modo di comportarsi non è gradito a Dio; non corrisponde al «fare la volontà» di Dio.
Inutile che scuotiamo increduli il capo: se non mettiamo in pratica i nostri credo, se non viviamo in pieno la nostra fede, senza “se” e senza “ma”, siamo automaticamente “out”, siamo fuori, siamo nel peccato (ci ricordiamo ancora del peccato di “omissione”?), la nostra vita è motivo di condanna.
«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, le prostitute prenderanno il vostro posto nel regno dei cieli». Capite? Autenticità e trasparenza sono quindi indispensabili per non fallire nel nostro cammino di vita spirituale; perché, fratelli, qualunque maschera indossiamo, arriviamo semmai ad ingannare gli altri, e forse anche noi stessi, ma non Dio; di sicuro!
Gesù non apprezza i fanfaroni, quelli che mettono se stessi e lo loro chiacchiere avanti a tutto e a tutti. Ciò che conta per il Signore, è la perfetta sintonia fra il dire e il fare, fra l'ascoltare la voce di Dio e il mettere in pratica i suoi insegnamenti. Quindi dobbiamo costruire la nostra spiritualità non sulla fragilità delle nostre infatuazioni o delle nostre pseudo aspirazioni, ma sulla concretezza del nostro vissuto, sulla roccia dei nostri comportamenti. Perché quando la tempesta arriva – e prima o poi, fratelli, arriva per tutti – i nostri sogni sfumano, le nostre devozioni aridamente esibite svaniscono, le nostre false sembianze si dissolvono. Ciò che resta, come dice il Signore, è soltanto quello che abbiamo costruito sulla salda roccia del Vangelo.
Per meglio rendere la sua idea Gesù ci parla di due case. Due case all’apparenza identiche: una però costruita sulla sabbia, l’altra sulla roccia. Identiche sono anche le avversità che si scatenano contro di loro: il cadere forte della pioggia, lo straripare dei fiumi, il soffiare dei venti. Sono le contrarietà della vita: per tutti infatti arriva il tempo della tempesta, delle difficoltà, del buio, della crisi, del meccanismo che s'inceppa. Ed è qui che si vede quello che realmente siamo, perché quelle case del vangelo siamo noi. È di fronte alle prove che si vede come siamo dentro, in profondità: e se non siamo la casa sulla roccia, se non c’è forza in noi, se non c’è convinzione, fede solida, tutto finisce, tutto crolla, tutto si sgretola.
Quanti programmi di vita, fratelli, abbiamo iniziato con i migliori propositi! Le nostre scelte erano sicuramente convinte, quello che ci siamo proposti lo abbiamo anche iniziato generosamente, convinti di seguire la nostra vocazione; non c’era inganno nelle nostre decisioni: ma, purtroppo, non c'era sufficiente profondità e convinzione nel nostro agire. E così dopo qualche tempo, con il passare dei giorni, l’entusiasmo si è spento, tutto si è appiattito; abbiamo continuato alla meglio, abbiamo "tirato avanti" per non sfigurare davanti ai superiori, alla famiglia, agli amici, alla gente.
Quanti ripensamenti! Quanti giovani sono passati e continuano a passare, attraverso l’esperienza del matrimonio, quanti per i seminari, quanti per i conventi e la vita religiosa, senza perseveranza alcuna; quanti cristiani, quanti sposi, quanti preti, quanti frati e suore, intraprendono pieni di entusiasmo e di grandi risorse il cammino radioso della loro vocazione e – dopo un inizio esaltante: “Andrò fino in fondo; non mollerò mai; è la svolta della mia vita; Signore, ti seguirò fino alla morte” – non resistono alla prova, non riescono a tenere; dopo aver “messo mano all’aratro”, per una piccola difficoltà, per una delusione, per un primo scontro, “si girano indietro” e abbandonano tutto; non hanno stabilità e risorse per affrontare le tempeste, i venti, l'afa, la calura, il “pondus diei et aestus”, la pesantezza del momento: e i loro buoni propositi, i loro giuramenti, si sciolgono come neve al sole... Non avevano le radici saldamente ancorate!
Quante volte, fratelli, ci è capitato di vedere lungo le strade alberi imponenti abbattuti dal vento. Alberi altissimi, dalla chioma lussureggiante, con tronchi massicci; alberi enormi, possenti, forti…, ma con radici cortissime! Un soffio di vento fuori dal normale è stato sufficiente per abbatterli e umiliarli a terra. Era un piacere ammirarli: ma a tanta bellezza esteriore non corrispondeva altrettanta fortezza e robustezza interiore.
Così è per l’uomo, fratelli: così è per noi tutti. La nostra forza, ripeto, non sta nell’essere seducenti, nell’apparire, ma in ciò che abbiamo dentro, in ciò che siamo dentro. La nostra forza è il nostro cuore innamorato di Dio. Custodiamolo attentamente questo nostro cuore, perché come sarà il nostro cuore così saremo noi.
Una vita vittoriosa e fedele, non s'improvvisa. Non è frutto di magia. Va costruita piano piano, con eroica dedizione. La convivenza con il prossimo, con i confratelli, con la comunità, con la famiglia, non elimina i nostri problemi personali, anzi li amplifica; così se in noi c'è desiderio di verità, se c'è dialogo, se c'è profondità, se c’è amore, se c’è dedizione, la vita comune li amplifica; ma essa amplifica anche paure, insicurezze, cattiverie, egoismi, permalosità.
Non aspettiamoci miracoli dagli altri. I miracoli devono sgorgare dal nostro cuore.
Quante volte, nella prova, ci piangiamo inutilmente addosso: “Sono depresso; sono triste; non sento più amore; non ho più voglia di vivere; mi dà fastidio tutto; che mondo schifoso; non ci si può fidare di nessuno; è finito tutto…”. Fratelli miei, quando arriva la tempesta è già tardi. Quando soffiano i venti delle prove, è tardi! A cosa pensavamo prima? Come pensavamo di reggere, senza esserci occupati mai della consistenza delle nostre radici? Perché non siamo subito corsi ai ripari? Perché non abbiamo fatto per tempo massicce iniezioni di roccia divina per rinsaldare in Cristo le nostre fondamenta?
Dobbiamo fare molta attenzione, fratelli: perché il terremoto non avverte quando arriva, e non serve a nulla correre ai ripari mentre si sta scatenando. La vita ci riserva eventi che non possiamo prevedere in anticipo. Muoviamoci allora fin che siamo in tempo! Chiediamo a Dio di ritrovare nella sua Parola la forza di ricostruire quelli che dovremmo essere, di vivere in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad oggi. Non è facile seguire Gesù; egli stesso ci dice che non è un cammino semplice, ma la nostra forza sta nel sapere che Egli ci porge la mano dicendoci: “sono con te, coraggio!”.
E concludo: stiamo per entrare nella Quaresima; un motivo in più per cercare di vivere nello spirito delle beatitudini e di praticare l’amore del prossimo, certi che questo, questo solo, significa costruire la nostra casa sulla roccia. Non serve moltiplicare iniziative di grande spiritualità: accontentiamoci semplicemente di approfondire e di sviluppare questa grande verità. L’imposizione delle ceneri di mercoledì prossimo, ci faccia meditare sulla futilità delle parole, e sulla potenza della Parola: apriamoci all’ascolto di Dio Parola, trasformandolo in coerenza di vita. Vi ricordo, per inciso, che “Parola” in ebraico si dice “Dabàr”, un termine dal doppio significato: parola e atto; Dio cioè parla mentre agisce e agisce mentre parla. Noi non siamo Dio, fratelli; ma almeno cerchiamo, il più possibile, di fare altrettanto. Buona Quaresima. Amen.

mercoledì 23 febbraio 2011

27 Febbraio 2011 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

« Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete… non preoccupatevi del domani…».
“Disfattista”. Ecco cosa direbbe un convinto sindacalista moderno di fronte alla logica del Vangelo di oggi. “Come si fa a campare così? Dove andrebbe a finire l’industria, il commercio, il prodotto interno lordo, e via dicendo, se tutti la pensassero così? Hai voglia a guardare gli uccelli, i fiori dei campi e quant’altro: qui, se non ti dai da fare, se non ti preoccupi, non arrivi a mangiare. Altro che i passeri!” Eh sì, fratelli: questa è la mentalità dominante: questa è la legge che fa girare il mondo; «di queste cose vanno in cerca i pagani» ribatte Gesù. E come al solito non gli si può dar torto.
Del resto che fa la nostra società tutti i sacrosanti giorni? Guardiamoci un po’ intorno: un attivismo frenetico la domina incondizionatamente, spingendola su due fronti diametralmente opposti: alcuni vivono l’oggi in modo sregolato, cercando di cogliere al volo l’attimo fuggente, approfittando di tutte le occasioni – lecite o non lecite non importa – purché assicurino piacere, soddisfazione, senso di appagamento; altri invece investono tutte le loro risorse proiettati solo nel domani, vivendo quotidianamente in un crescente affanno per assicurarsi benessere, prosperità, ricchezza, incapaci di porre limiti alla loro fame di potere.
Gli uni e gli altri, a ben vedere, ci fanno pena: la voracità del piacere li schiavizza entrambi; entrambi calpestano il presente, l’oggi, tormentati dall’inquietudine per un ipotetico domani: illusi! Ma chi vi assicura di arrivare a quel domani?
Un atteggiamento questo che, in verità, non deve proprio essere una esclusiva del nostro tempo, se già più di duemila anni fa Gesù ne denunciava l'assurdità, invitando piuttosto a confidare nella Provvidenza, ad avere fiducia in Dio che conosce bene “quello di cui abbiamo bisogno”: il che, guardate, non significa vivere da incoscienti, senza far nulla, aspettando la manna dal cielo; significa invece non dare alle cose materiali un'importanza maggiore di quella che dovrebbero avere, non vivere nell’ansia continua per quanto si teme possa accadere in futuro. Questo è da gente senza fede.
Al contrario «cercate – prima di tutto – il regno di Dio e la sua giustizia»; cercate cioè quello che è giusto davanti a Dio: il resto verrà da sé. Dio è un Padre che non abbandona, che non può trascurare chi si ricorda di essere suo figlio. «Non preoccupatevi del domani; a ciascun giorno basta la sua pena». In questo sta la saggezza cristiana.
"Guardate, osservate" insiste Gesù. Una raccomandazione che coglie nel segno, che vale proprio per noi. Noi infatti non siamo più capaci di osservare; non siamo più capaci di riempirci gli occhi dell’altro mondo, di ciò che ci circonda. Passiamo davanti ad universi di bellezza ogni giorno, e noi nulla: non alziamo neppure lo sguardo. Ininterrottamente presi dai nostri affanni, dalle nostre fatiche, dalle nostre rinunce, dai nostri progetti e soprattutto dalle nostre manie.
Osserviamo invece la vita, fratelli; guardiamoci intorno, osserviamo la natura... C'è un universo di bellezza, un oceano di meraviglie nel quale tuffarci.
E Gesù lo sa bene: non si inventa nulla di strano per rassicurarci, per lanciarci dei messaggi. Non passava certo ore e ore della notte per scoprire qualcosa di nuovo da raccontarci! Preferiva camminare, osservare, guardare: la donna che impasta il pane con una misura di lievito, la bellezza della luce, il semplice e forte sapore del sale, il male provocato da uno schiaffo, il chicco di grano che marcisce nella terra, il sole che sorge sui buoni e sui cattivi, la pioggia che cade, una donna che piange, un uomo che prega nascosto in una stanza, e un altro ritto come in una piazza.
«Guardate gli uccelli del cielo e i gigli del campo! Non vi rendete conto di quanto valete? Non preoccupatevi di quello che mangerete, di quello che berrete e del vostro vestito».
Attenzione però: le parole di Gesù, lo ripeto, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto a quei poveri che lui ha ben presenti, che gli sono sempre davanti, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa non mangiare domani. Non sono parole, le sue, che invitano ad una filosofia di vita apatica, indifferente, insensibile, stoicista! Non confondiamo. Gesù conosce bene la vita. Conosce bene la tentazione per l'uomo di affannarsi, di agitarsi convulsamente per qualunque cosa i suoi occhi la vedano “buona”! Fino al punto di perdere la bellezza della vita stessa.
Non è così fratelli? Non rischiamo anche noi tante volte, volendo capire tutto della vita, col finire di non capirci nulla? È vero: l'affanno procura tesori, ma i tesori procurano affanno; e diventiamo cani che si mordono la coda; più ci affanniamo e ci preoccupiamo e più ci allontaniamo dalla possibilità di vivere la vita, più ci facciamo condizionare da essa; più ci allontaniamo dal vivere le possibilità che il tempo ci dona, e più ci lasciamo travolgere dalla velocità degli eventi stessi. Vorremmo essere al sicuro, possedere la sicurezza della vita, vorremmo avere tutto in mano. Anche il domani. E invece Gesù sa che il domani è nelle mani di Dio, che il tempo è nelle sue mani e nella misura in cui vogliamo possederlo, proprio allora esso ci sfugge di mano.
E allora, fratelli, accogliamo con tutta semplicità l’oggi che ci è dato di vivere; e mettiamo il domani nelle mani di Dio. Accogliamo in questo modo il messaggio di Gesù, accogliamo il suo Vangelo!
Chi, come noi, ha riconosciuto Gesù quando è passato lungo la propria vita, e ha abbandonato la barca degli affanni materiali per seguirlo, è veramente libero: è libero di darsi da fare, di appassionarsi per la propria vita, per la vita dei fratelli; ma con l’operosità lieta di chi sa che la vita è veramente un dono di Dio. Un dono che ci supera. Che ci sovrabbonda.
Gesù ci chiama a vivere nella libertà, ci vuole uomini e donne libere, non schiavi dell'ansia, dello stress o dell'affanno, non schiavi delle nostre paure: paura del giudizio degli altri, paura di chi ci vive accanto, paura di morire, paura del domani, paura di ingrassare, paura di non essere alla moda... Non dobbiamo vivere sempre sotto la minaccia di noi stessi; le paure sono anzitutto dentro di noi: Martin Luther King al termine di un suo discorso disse: "La paura ha bussato alla mia porta; l'amore e la fede hanno risposto; e quando ho aperto, fuori non c'era nessuno." Amore e fede annientano qualunque ansia, qualunque paura.
«Non vi affannate... non vi affannate»: per ben cinque volte in pochi versetti Gesù ci ripete questa raccomandazione. Si, perché noi già viviamo con tante, con troppe cose: abbiamo gli armadi pieni, le dispense colme, eppure viviamo sempre nell’affanno, preoccupati del domani. L'ansia ci fa accumulare cose inutili, e più accumuliamo, più sentiamo il bisogno di avere. Gesù invece ci invita a chiedere solo il pane per l'oggi: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Non ci dice di chiederlo in anticipo anche per domani. No, solo per oggi.
«Cercate – ci dice ancora – cercate il regno di Dio». In altre parole, “cercate prima di tutto di vivere con amore, cercate di avere l'amore tra voi, cercate di essere fratelli, cercate di volervi bene, cercate chi ha più bisogno di voi, cercate l'accordo, cercate la mia Presenza. Cercate prima di tutto queste cose: questo è l'importante: tutto il resto vi verrà dato in aggiunta”. È infatti l'amore, il cercare di far felice l'altro, l'antidoto all'ansia, al nostro affanno quotidiano.
Questo deve essere, fratelli, il nostro “cercare” quotidiano. Ed è proprio in questo continuo “cercare”, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, vangelo dopo vangelo, che noi intuiamo e scopriamo il senso della vita. Cercare non significa capire tutto, ma essere pronti ogni giorno a imparare. Imparare a vivere. Imparare ad amare. Il senso della vita, infatti, è nelle pieghe stesse del nostro vivere: usciamo di casa ogni mattina, fratelli, e osserviamo, guardiamo, camminiamo, apriamo gli occhi e spalanchiamo il cuore.
E impariamo. Impariamo che la vita è un dono, un tesoro, è oro puro. E respiriamo. Si, respiriamo questa vita, a pieni polmoni, respiriamo l’amore, respiriamo la fede, cantando con gioia a Dio. Amen.

mercoledì 16 febbraio 2011

20 Febbraio 2011 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Imitate il Padre, imitate Dio, siate perfetti come lui».
Ci risiamo. Per la terza volta veniamo messi con le spalle al muro. Se non l’abbiamo capito prima, dobbiamo per forza capirlo ora. Ma cosa vuole Gesù da noi?
Nulla, fratelli miei: semplicemente che diventiamo santi!
Capitolo quinto di Matteo: ricominciamo ancora da capo. Facciamo in modo che la nostra vita ricominci da qui. Dove mai siamo stati in tutti questi anni? Che abbiamo fatto di tanto speciale, da sentirci così tanto sicuri? Da non provare più alcuna esitazione nel sistemarci le cose a modo nostro? Da mettere con tutta naturalezza il vangelo tra i tanti libercoli e opuscoli farciti di stupidaggini che amiamo così tanto consultare per la nostra vita diventata ormai atona, incolore, senza slanci veri?
Si certo, siamo ossequienti al Vangelo, in qualche momento amiamo anche Gesù, sinceramente e con trasporto: ma poi? Beh, ma poi ci sono anche tante altre cose che ci aspettano, tante cose di cui solo noi dobbiamo farci carico, che nessuno si offre di risolvercele: c’è il lavoro, c’è la famiglia, ci sono i figli, i nipoti, i confratelli e le consorelle, tutti che rompono in continuazione; poi c’è la palestra, c’è la cucina, e perché no? C’è finalmente anche un po’ di relax, di svago tutto per noi. Anche noi ne abbiamo diritto, no?
Che possiamo fare ancora di più?
Matteo, capitolo quinto: una serie di staffilate secche per il nostro pietismo, per la nostra indifferenza, per la nostra supponenza, per la nostra superbia, per il nostro egoismo, per la nostra “astuzia” nel trovare sempre una scappatoia di fronte alle nostre responsabilità.
Per favore, fratelli, non facciamo anche adesso i soliti perbenisti! Cerchiamo di essere onesti con noi stessi almeno in questo momento! Smettiamola di guardare all’altro, come termine di paragone per la nostra condotta! Un esempio da seguire ce l’abbiamo, chiaro e lampante:«Siate santi come il Padre mio». Dove corriamo a destra o a sinistra? La strada giusta è qui, davanti a noi.
Matteo, capitolo quinto: altro che “politically correct”: qui è tutta un’altra musica!
«Beati i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i puri….; sarete beati quando vi insulteranno, quando vi perseguiteranno… Voi siete sale della terra e luce del mondo… Avete sentito dire: non uccidere, ma io vi dico chiunque si adira con suo fratello sarà sottoposto a giudizio… Udiste che fu detto: occhio per occhio, dente per dente. Io però vi dico: non opporti al malvagio, anzi se uno ti colpisce la guancia destra, tu porgigli anche l’altra… ».
È un crescendo, una escalation: dal “beati” iniziale, che tutto sommato poteva anche starci, siamo passati a doverle anche buscare, sempre e comunque, felici e contenti. Non è un po’ troppo?
E allora chiediamocelo ancora: Ma cosa vuole veramente Gesù da noi?
E la solita voce dentro di noi ci ripete implacabile: “Voglio che tu sia santo come il Padre mio!”
Altro che chiacchiere. È arrivato il momento di buttarci finalmente tutto alle spalle, di capire che non è più possibile condurre una vita, corretta si, magari anche in ordine con una certa morale, ma appena passabile rispetto al vangelo!
E poi, quale morale? Quella cristiana? Ma senza Cristo, anche quella è inutile; senza la “carità” anche i miracoli sono luce fatua!
Invece come cambierebbero le cose se ci mettessimo nella prospettiva di Matteo cinque: come cambierebbero radicalmente le cose se ci mettessimo nella determinazione di imitare il Padre! Diventeremmo capaci di amare fino all'inimmaginabile, perché solo così ci sentiremmo amati da Dio, esattamente nel modo in cui lo siamo realmente!
Allora, fratelli, cosa aspettiamo di uscire dalla logica dell'occhio per occhio e dente per dente? Quando diremo basta al do ut des? Quando decideremo di farla finita con la nostra fede anestetizzata?
Prendiamo con coraggio in mano il Vangelo, allunghiamo con decisione il passo sulle orme di Cristo, non facciamoci distrarre dagli specchietti luccicanti del mondo, siamo seri!
Crediamo, osiamo, voliamo in alto! Non trinceriamoci dietro al “ma ciò richiede eroismi impossibili”. Tentiamo, semplicemente tentiamo con tutta la nostra volontà: sforziamoci sinceramente e, soprattutto, ascoltiamo la presenza di Dio dentro di noi; lasciamoci consumare dalla sua presenza, perché questo, e questo soltanto, ci cambia nel profondo. Totalmente.
Si, fratelli: questa è la grandezza di Dio, qui c’è Gesù in persona; un Gesù che da anni, pazientemente, vuol farci entrare in zucca un fatto elementare: Lui ci ama, ci ama sempre, ci ha sempre amati. Tutti, uno per uno. E non si dà pace nel vederci andare alla deriva, allo sbando. Facciamogli un cenno, che ci costa? Basta anche un piccolo cenno, un primo passo, dimostrargli, anche con poco ma con animo sincero e determinato, che sì, noi siamo là, che finalmente abbiamo capito e siamo là, che apprezziamo quanto egli fa per noi. Proviamoci: così, tanto per cominciare.
Perché è così che imbocchiamo la strada che conduce alla santità. La santità passa da qui!
Che aspettiamo? Animo, osiamo, buttiamoci! Amen!

mercoledì 9 febbraio 2011

13 Febbraio 2011 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«Così fu detto agli antichi: ma io dico a voi…».
Un brano duro, quello di oggi: schietto, senza fronzoli. Un brano che puntualizza punto per punto la rivoluzione che Gesù ha portato con il suo comandamento nuovo.
Non che la Legge fosse una cosa cattiva, anzi: era il vademecum per chi voleva essere fedele all’alleanza che Dio aveva stabilito con l’uomo. E i profeti? Erano i giudici di percorso, quelli che alzavano la bandierina gialla di pericolo, quando qualcuno tagliava la curva, pensando di fare il furbo e di guadagnarci sopra. Gesù non è venuto a sconfessare nulla di tutto ciò. Quello che Gesù attacca senza mezzi termini è il freddo “legalismo”, la degenerazione della vera osservanza, l’osservanza sterile, formale, quell’osservanza che lungo i secoli aveva perso per strada la fede viva e l’amore sincero.
L’uomo dell’Antico Testamento, nato dalla polvere del deserto, aveva ricevuto dal soffio divino l’autocoscienza, la possibilità di gestirsi liberamente nelle sue scelte. Un po’ alla volta però, il suo rapporto con Dio perdeva ogni spontaneità, la sua visione delle cose si cristallizzava; perdeva ogni impulso vitale suggerito dall’amore. Gli bastava essere un osservante esteriore della Parola, senza troppi coinvolgimenti interiori. Paradossalmente era proprio la legge, con i suoi divieti, i suoi comandi, le sue limitazioni, che permetteva al peccato di esprimere in lui tutta la sua potenzialità negativa; serviva in qualche modo a stuzzicargli la voglia di peccare e a far uscire il veleno che c’era nella sua anima. L’uomo, la creta primordiale dell’Eden, pur se vivente, era come morto. Si, perché aveva perso l’Amore.
Gesù è venuto proprio per colmare questo vuoto; con il nuovo soffio dello Spirito, l’uomo ora è rinato a vita nuova; la Pasqua di Cristo gli ha restituito l’antica dignità; non più legge antica dunque, ma legge nuova, quella dell’Amore. Una legge che è sinonimo di dono, di libertà, di accoglienza, di perdono, di interiorità, di purezza, di fedeltà, di fratellanza. Una legge che va oltre l’esteriorità, l’apparenza, l’egoismo, l’odio: una legge amministrata dal cuore, che prescrive definitivamente la vendetta, l’occhio per occhio del taglione.
Non esiste infatti solo l'omicidio a procurare la morte: esiste anche l'odio, l'ira, la vendetta, il giudizio maligno, la maldicenza che, screditando, uccide; esiste il sospetto, la diffamazione; esiste il disprezzo e tutto quanto l'inimicizia e la mancanza d'amore generano nell’uomo, inquinando pesantemente i suoi rapporti umani. E Gesù è inesorabile nei confronti di chi agisce contro l'amicizia e l'amore, quell'amore che ci rende somiglianti a Dio, e che cresce nel nostro cuore fino a renderci capaci di misericordia e perdono.
È una legge che non ammette deroghe quella di cui Cristo parla, e che ha come fondamento l’amore. Nessuna offerta, infatti, è gradita a Dio se chi presenta il suo dono non è capace di amare il suo prossimo.
«Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare, ammonisce Gesù, e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello, e poi torna a offrire il tuo dono».
Meditiamole queste parole di fuoco, fratelli miei. Meditiamole, perché sono quelle su cui troppo spesso, e ormai inconsciamente, andiamo ad inciampare.
La nostra lingua è spada tagliente, i nostri giudizi sono macigni dirompenti: contro chi probabilmente ha la sola colpa di starci vicino, di condividere lo stesso nostro percorso, i nostri stessi interessi. Colpiamo con estrema precisione, elegantemente, senza alzare la voce: ma forse seminiamo morte e disperazione nei cuori.
È questo che Dio non sopporta. A che serve tutto il nostro buonismo? A che serve il nostro impegno in mille iniziative caritative, il nostro recitare rosari, il nostro non mancare un giorno a messa, se poi, in un attimo solo, con disinvoltura, facciamo terra bruciata attorno a noi?
Credetemi: siamo talmente bravi ed esperti in questo, che quasi ormai non ci accorgiamo più di quanto sia grave il nostro comportamento. È diventato parte di noi, quasi una forma lacerante per la sopravvivenza.
“Lascia lì il tuo dono davanti all'altare! Non so cosa farmene del tuo dono, offerto pubblicamente a beneficio di chi ti guarda. Sana prima le ferite occulte; asciuga le lacrime che hai fatto versare. E solo allora torna, col cuore contrito e rinnovato, per fare la tua offerta…”
Si, fratelli, perché è sempre il cuore quello che deve esser risanato dalla capacità di amare veramente; e amare significa donazione di sé, una donazione incondizionata, sincera profonda e fedele. Amare è donarsi senza limiti, senza pretendere nulla in cambio.
Qualunque sia il comandamento di Dio, in qualunque modo si esprima, esso è sempre fondato sull'amore ed ha come fine l'amore: è questo il compimento che Gesù è venuto a portare. È questo il comandamento che deve fare luce ai nostri passi.
Invochiamo allora lo Spirito della Sapienza, come ci suggerisce san Paolo, per accogliere nella nostra vita questa pagina, apportatrice di amore e di gioia interiore. Amen.