giovedì 3 dicembre 2009

6 Dicembre 2009 - II Domenica di Avvento

Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...

(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)

martedì 24 novembre 2009

29 Novembre 2009 - I Domenica di Avvento

La Parola di Dio ci dice: Vegliate: state svegli, state attenti, vigilate!
Cosa significa essere svegli? Pensiamo all'autista di un camion o di una macchina: un autista deve essere sempre sveglio per non incorrere in pericoli che sarebbero gravissimi.
Bene: anche noi dobbiano essere così attenti, così svegli, così vigilanti, perché viene il Signore.
Noi aspettiamo questa venuta. E poiché c'è sempre un'attesa e una preparazione prima di un incontro finale e decisivo, aspettare l'incontro definitivo con il Signore non deve essere causa di pensieri tristi, ma deve essere un pensiero di speranza, di gioia.
È bello pensare che al termine della nostra vita il Signore ci aspetta a braccia aperte. Noi sappiamo dove stiamo andando: non sappiamo quando, ma sappiamo dove: nella braccia del Padre nostro che è nei cieli. Questo ci commuove. Noi sappiamo che la nostra vita, a volte travagliata, a volte con prove e sofferenze, questa nostra vita avrà una conclusione felice. Sappiamo che il Signore ci attende per darci la vita che non avrà più fine, nella pace e nella gioia, nella pienezza del suo amore. Quando si sa perché si vive, vale la pena vivere e vivere nel modo migliore. La fede dà questo senso pieno all'esistenza, altrimenti saremmo tentati tante volte di disperazione. Questa attesa del Signore ringiovanisce la nostra vita, ci fa sentire come bambini che hanno tutto il loro futuro davanti. Per noi, anche a 80 anni e più, il futuro è avanti, la nostra piena realizzazione deve ancora arrivare. E se fisicamente sono calate le forze, ci è dato il tempo della vigilanza, della preghiera, della preparazione, dell'amore, in attesa dell'Incontro e dell'abbraccio con il Signore.
"State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso". Non serve consolarsi dicendo che nessuno sa quando sarà la fine del mondo. C'è una venuta, un ritorno di Cristo, che ha luogo nella vita di ogni persona, nel suo passaggio all'eternità. Per migliaia e migliaia di persone la fine del mondo è oggi. Oggi è l'incontro con il Signore. Oggi occorre essere pronti.
Ma Gesù è già presente tra di noi, nella sua comunità che è la Chiesa, nella Parola di Dio che leggiamo e accogliamo; è presente nell'Eucaristia. Lo accogliamo nelle nostre mani e nel nostro cuore: a volte lo prendiamo così veloci che quasi non ci accorgiamo che è il Signore.
Siamo invitati ad essere attenti e svegli perché Dio arriverà. Nello stesso tempo dobbiamo essere attenti perché Gesù è già presente in mezzo a noi: nella Parola, nei sacramenti, nelle persone, nei poveri.
Si tratta di essere attenti davanti alla presenza di Dio, di riconoscerlo. E tante volte Cristo Gesù si rende presente là dove noi non pensiamo.
Iniziamo l'Avvento. Imploriamo la venuta di Gesù, perché ci renda partecipi della grazia e della salvezza.
Come vivere questa implorazione e questa attesa nel mondo concreto di oggi? Ci aiuta in questa preghiera il testo del profeta Isaia che è un ripensare all'amore e alla paternità di Dio, che è un prendere coscienza dei nostri peccati e dei peccati dell'umanità, per gridare al Signore l'invocazione più profonda, più sincera, più accorata: Vieni a salvarci o Signore! Ne fa di peccati l'umanità di oggi? Basta guardarsi attorno o seguire i telegiornali! Ciascuno di noi ne fa di peccati? Basta essere sinceri. Non è buona cosa illudersi, pensare che non abbiamo peccati o sentirci abbastanza a posto. Ne è segno la confessione che facciamo di rado o con un esame di coscienza su poche cose, quasi con un confronto sulla mentalità mondana, anziché su tutti i dieci comandamenti e sul comandamento dell'amore: "Amerai Dio con tutto il cuore e il prossimo come te stesso". Ne è segno a volte la superficialità con cui celebriamo l'Eucaristia o facciamo la comunione.
E' importante prendere coscienza di tutti i peccati nostri e dell'umanità, dei nostri peccati come umanità, non per abbatterci, ma per rivolgerci a chi ci può salvare, a chi ci può dare la forza di fare tutta la nostra parte, nel lottare contro il male e nell'intensificare il bene.
Se chiediamo aiuto per finta, è chiaro che non siamo convinti. Ma se siamo coscienti e sinceri, siamo come quelli che in certe situazioni stanno per essere sommersi dalle acque delle alluvioni e rischiano di morire. Questi non invocavano "venite a salvarci" per finta, ma con tutto se stessi, finché qualcuno con qualunque mezzo, anche l'elicottero, non arriva a portarli in salvo.
Il profeta dice: "Tu Signore sei nostro Padre, da sempre ti chiami nostro Salvatore. Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore? Ritorna per amore dei tuoi servi. Se tu squarciassi i cieli e scendessi"!. Gesù lo ha fatto e lo fa: ha squarciato i cieli.
"Tu hai fato le cose più belle e più grandi, ma noi abbiamo peccato contro di te e siamo stati ribelli e ora ne sperimentiamo tutto il castigo e tutto il male che ci siamo dati da noi stessi.
Ma tu Signore sei nostro Padre, noi siamo argilla e tu Colui che dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani".
Allora "Fa splendere il tuo volto e salvaci, Signore. Mostraci la tua misericordia e donaci la tua salvezza".
C'è questa coscienza dei nostri peccati e dei peccati del mondo? C'è il grido sincero e accorato perché il Signore ci venga a salvare? Siamo pronti a fare la nostra parte in questa opera di salvezza? Abbiamo voglia di vivere così il Natale invocando la presenza di Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore di questa nostra umanità, in tutte le sue disperazioni e malvagità?
Così possiamo credere e accogliere l'incarnazione di Gesù nella nostra storia attuale e in questa nostra storia vogliamo la presenza di Dio.


giovedì 19 novembre 2009

22 Novembre 2009 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Festa di Cristo Re

Con questa domenica si chiude l'anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudiziario, amministrativo, e così via).
Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. E', infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le scadenze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade.
Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagine del Vangelo a scandire il tempo dell'anno liturgico perché i credenti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la storia stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei.
Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito santo sulla Chiesa inviandola sino agli estremi confini della terra. L'anno liturgico, insomma, è Cristo stesso ("annus est Christus", diceva l'antica saggezza cristiana) che ci viene donato.
Quest'ultima domenica dell'anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, Re dell'universo. E' la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. E' una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. E' la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che mentre vediamo Cristo, come Re dell'universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto.
Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? E lo scetticismo di Pilato di fronte all'affermazione di coloro che gielo avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: "Tu sei il re dei giudei?" L'aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l'affermazione fatta da Pilato: "Tu lo dici, io sono re!" Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: "Il mio regno non è di questo mondo". E ne porta una prova lampante: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei".
E' tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarezza: "Il mio regno non è di questo mondo". In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: "Il mio regno non è di quaggiù".
La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul consenso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall'alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l'avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di "uno, simile a figlio d'uomo" che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal "vegliardo" il "potere, la gloria e il regno". E la visione continua con una scena grandiosa: "Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto".
La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pienezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra. Al contrario, pur non essendo del mondo il potere di Cristo si esercita nella terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: "Dunque, tu sei re?" E come dire che l'accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per "rendere testimonianza alla verità". E aggiunge: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!".
La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell'amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3, 16-17).
Gesù è il volto concreto dell'amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone dell'inimmaginabile "passione" di Dio per gli uomini. E' vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell'amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia.
L'amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. E' una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall'inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: "Beati i miti, perché erediteranno la terra" (Mt 5, 5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandezza, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla "verità" di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l'amore sconfigge ogni male, compresa la morte.
In questa domenica che chiude l'anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell'amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: "Ecco, viene sulle nubi del cielo e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto".

giovedì 12 novembre 2009

15 Novembre 2009 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Incamminati verso la conclusione dell’Anno liturgico, siamo invitati dalla Parola di Dio a prendere atto di due realtà inseparabili tra di loro e indispensabili per noi: la fedeltà di Dio agli uomini e la fedeltà degli uomini a Dio. Guardando al momento finale del nostro cammino di fede e di speranza, la Liturgia odierna ci ricorda che Dio non abbandona alla morte i suoi figli, perché la vita eterna a noi promessa è il segno pieno e perfetto della carità di Dio per noi.
Gli avvenimenti ultimi della storia dell’uomo e del mondo intero sono legati al mistero di Dio e del suo Cristo: il Signore è il primo e l’ultimo, il principio e la fine. Le realtà celesti fanno irruzione nella storia fin dal primo momento della rivelazione e sempre sono presenti.
Sarà la venuta di Cristo a porre fine alle cose corruttibili e a deporre il germe di immortalità. Questa prenderà forma piena e definitiva con il ritorno glorioso del Signore alla fine del mondo. Nell’attesa, la Comunità cristiana, lungi dall’allentare l’impegno nelle realtà umane (lavoro, politica, società e famiglia), si immerge in esse al fine di elevarle e di trasformarle in “cieli nuovi” e “terra nuova”.
Con la risurrezione di Gesù, il mondo e la storia sono entrati nella loro fase finale, nella pienezza dei tempi. Le promesse di Dio si sono compiute e i cicli e la terra nuovi sono già stati inaugurati. In Cristo, Dio ha già detto la sua parola definitiva; in noi è già stato deposto lo Spirito che è il seme delle realtà future.
Comprendere ciò significa comprendere che il cristiano è l'uomo del futuro. Ciò significa non tanto che il cristiano è l'uomo che “aspetta il futuro” che gli sarà dato dopo la morte; ma piuttosto che è l'uomo che costruisce oggi il suo futuro. In un certo senso, dopo Cristo, tutto è fatto: non attendiamo più nulla di sostanzialmente nuovo. Eppure è altrettanto vero che tutto rimane da fare. Si tratta di far “fare pasqua” al mondo, di “far passare” tutte le realtà della creazione nella sfera di Cristo, il quale alla fine “ricapitolerà” in sé tutte le cose. È questa la grande opera che riempie il tempo della Chiesa; ed è lungi dall'essere compiuta. Oltre che un compito personale e sociale, il cristiano deve svolgere sulla terra anche un compito che potremmo chiamare cosmico. Come il peccato di Adamo non ha avuto solo conseguenze per l'uomo, ma ha avuto un contraccolpo anche nel cosmo e nella materia, che è diventata opaca (nasconde Dio invece di manifestarlo), pesante (trascina verso il basso invece di elevare) e ribelle all'uomo («con il sudore del tuo volto mangerai...»), così la redenzione di Cristo ha toccato tutto l'universo. Egli ha salvato tutto l'uomo, anche il corpo destinato alla risurrezione e alla gloria insieme allo spirito. Solidale con il primo Adamo nella caduta, la creazione è chiamata a partecipare anche alla vittoria del secondo Adamo. San Paolo vede la natura tesa verso la redenzione e sente i suoi gemiti, simili a quelli di una partoriente (Rm 8,12-22). Tutte le cose tendono a Cristo che «ricapitolerà in sé il creato» (Ef 1,9). Salvatore dell'uomo, Cristo lo è anche dell'universo. In questo sforzo, in questa tensione il cristiano è chiamato a svolgere un ruolo insostituibile. È il cristiano che con il suo lavoro, con il sacrificio e la preghiera “umanizzerà” questo mondo e preparerà quella trasformazione dell'universo nei «cieli nuovi» e nella «nuova terra» che inaugurerà il definitivo Regno di Dio. In una parola «ciò che l'anima è nel corpo, questo devono essere i cristiani nel mondo» (Lettera a Diogneto, 6).
II cristiano è un pellegrino su questa terra. Non è un cittadino, ma un esule in marcia verso la vera Patria. Egli considera la terra non come una dimora permanente, ma come la tappa di un viaggio. Per questo non vi costruisce una casa di solida pietra, ma solo una tenda, come il viandante che sosta nel deserto. Una interpretazione unilaterale ed ingiusta delle realtà umane (favorita, peraltro, da certa predicazione altrettanto unilaterale e miope) ha fatto sì che molti uomini del nostro tempo guardino con diffidenza alla religione cristiana, quasi fosse nemica del mondo, della vita, del progresso, dell'impegno umano; una religione di evasione, di disimpegno, di rinuncia passiva e vile; l'oppio che addormenta l'uomo e lo distoglie da ogni interesse verso la città terrena, facendogli balenare la promessa di un aldilà felice e illusorio. Diverso è, invece, il compito del cristiano nel mondo: «Il cristiano non è un evaso, al contrario un impegnato come persona nell’incremento, nella riuscita, nella salvezza del mondo. Sa che l'universo intero ha un solo principio di consistenza, di movimento, di fine: Cristo, perché “per mezzo di lui sono state fatte tutte le cose e in lui trovano la loro consistenza” (Col 1,16-18). Cristo è in tal modo il grande “Adunatore” che lavora nell'intimo delle anime e delle cose a tutto santificare, a tutto unire, a tutto consacrare alla gloria di Dio. Il cristiano si impegna volontariamente a questa gigantesca impresa, al suo posto, a suo tempo, con le proprie risorse. Non lavora da solo: collabora... Lavora con coraggio, perché la fatica è dura; con fede, perché il compito è misterioso e senza proporzione con le forze umane; lavora a far crescere l'universo e a far spuntare la nuova creazione attraverso il travaglio caotico e doloroso, pieno di speranza e di affanni, travaglio che non è, però, quello di un'agonia, ma di un parto» (J. Mouroux).
Dobbiamo, quindi, immergerci con fiducia e con impegno nel fluire del tempo, sapendo di essere costruttori della storia della salvezza, insieme con Cristo. Possiamo comprendere la storia, il mondo e noi stessi solo in intima relazione con Lui. Il Concilio Vaticano II riporta questa stupenda affermazione: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et Spes, 22). È come dire che il temporaneo riceve luce dall’eterno, il finito dall’infinito. La nostra attività di cristiani inizia con la conoscenza di Cristo e continua nell’attesa della sua venuta. L’incontro con Lui è troppo importante perché si possa a cuor leggero vivere spiritualmente disattenti.
Se Domenica scorsa eravamo invitati a misurare la nostra relazione con i beni, oggi la Liturgia ci induce a confrontarci con la storia. E lo fa muovendo il nostro sguardo in direzione del compimento. Non per impaurirci, ma per consolarci. Non per farci almanaccare su date e indizi premonitori, ma per farci vivere bene il presente: con la venuta di Cristo è già eternità, anche se il gioco del tempo continua, con regole nuove.
C’è una consolante certezza che ci viene comunicata oggi: il Signore, Crocifisso e Risorto, ritornerà nella gloria.

venerdì 6 novembre 2009

8 Novembre 2009 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Gesù si trova nel tempio. E Gesù guarda, osserva, quello che accade.
Perché guardando si può vedere; se uno ha gli occhi aperti vede un sacco di cose.
La gente vede gli scribi e dice: "Ma che santi, ma che religiosi, ma che bravi!". Gesù dirà: "Falsi, ipocriti!". La gente vede una povera vedova e dice: "Che donna da poco". Gesù dirà: "Qui c'è la vita, qui c'è il tutto".
E ai discepoli proprio per questo dirà: "State attenti, guardatevi bene dal non farvi ingannare dalle apparenze". "Gli scribi amano passeggiare in lunghe vesti". Al tempo di Gesù tutti portavano il tallit ma gli scribi lo portavano ampio, lungo e sontuoso. Tutti potevano notare e ammirare il loro vestito. Se portavano un vestito così voleva dire che se lo potevano permettere, voleva dire che erano di alto grado sociale. Ciò che portavano era un modo per esibire chi erano. Il loro vestire determinava il grado sociale; quando camminavano erano ammirati, riconosciuti, la gente comune provava un senso di sudditanza nei loro confronti. Nelle sinagoghe avevano un posto riservato, un posto d'onore, che dava le spalle all'armadio sacro e di fronte a tutta l'assemblea.
Nelle feste e nei banchetti erano a capotavola, nei posti più avanti e più vicini al festeggiato.
Uomini come gli scribi faranno di tutto per non perdere la loro immagine perché altrimenti dovrebbero fare l'amara scoperta che dietro c'è il nulla, che non c'è personalità. Sono uomini di cartapesta. Sono come un regalo confezionato meravigliosamente: carta, fiocco, nastrino, busta, ma dentro non c'è il regalo! Per cui uomini così sono di una resistenza incredibile: non cambiano, non si mettono veramente in gioco, mai.
Ma essere individui veri non vuol dire essere fuori, sopra gli altri, ma differenziarsi, essere unici. Gli scribi, come i personaggi famosi, parlavano delle loro imprese: leggevano la Torah, osservavano tutte le leggi, erano scrupolosi in tutto, pregavano più volte al giorno. Ma non c'era la Vita in loro.
Essere vivi vuol dire che gli occhi sono luminosi, che i sentimenti fluiscono, che ci si ascolta con interesse, che ciò che si dice ha un senso e non è banale; che c'è spazio per sé e per l'altro, che ci sente bene a stare con queste persone; che non si ha bisogno di attaccare, né di difendersi, né di elevarsi o di umiliarsi; che si è persone vibranti e che si sa ciò che si vuole e ciò che non si vuole.
Chi non può avere successo si eleva giudicando. Giudicare è un modo per abbassare gli altri, per ridurli alle proprie dimensioni. Siccome vorrei il successo ma non ne sono capace, mi elevo sopra gli altri non mettendomi sopra (non ne sono capace) ma mettendo sotto loro: li giudico.
L'egoista (lo scriba, il narcisista) non è nient’altro che un poveraccio che si preoccupa soltanto della sua immagine: "Cosa si dirà in paese? Cosa si dirà in giro? Cosa si pensa di me? Piaccio?".
L'uomo di fede si interessa della vita. L'egoista crede nella magia dell'immagine e del buon nome; l'unica sua preoccupazione non è per sé, per sviluppare la Vita, il Dio che ha dentro, ma per accrescere il suo potere e avere effetto e successo negli altri. L'uomo di fede, invece, crede in sé e nella vita dello spirito che lo abita dentro. La sua preoccupazione non è risultare gradito ma sviluppare il divino e lo spirito che lo abita.
Agli scribi Gesù dirà: "Guai a voi, Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume… "
Gli scribi erano gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio. Essi parlavano un sacco di Dio. Avevano Dio sempre nella bocca ma non nel loro cuore. Lo conoscevano benissimo con la mente ma erano totalmente ignoranti nella conoscenza del cuore. Dio non era più un'esperienza, un incontro, ma diventava scienza della religione, qualcosa che si poteva imparare a memoria o applicare. Se poi pagavi avevi assicurata la benevolenza di Dio.
Tu puoi sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarti ogni mese, ma se il nome di Gesù non ti fa sussultare l'anima e le sue parole non ti fanno vibrare le corde del tuo cuore; se il suo nome non ti instilla desiderio di verità e di ricerca e non ti "prende", appassiona l'anima per questa vita, a che ti serve tutto quello che sai?
Questo faceva imbestialire Gesù: sapevano tutto di Dio ma non avevano Dio.
Per questo Gesù definirà questi uomini religiosi come degli eretici, senza fede, vipere, falsi e ingannatori.
Nauseato, irritato da essi, Gesù si va a sedere vicino alla cassetta delle offerte posta all'ingresso del tempio. E da li osserva la vedova.
Se non fosse stato per lo sguardo di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna.
Essere vedova, voleva dire non avere sostentamento né reddito: vivere di elemosina, di carità, di quello che altri davano. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli da nutrire e sempre affamati.
E' probabile che quei due spiccioli non fossero altro che il frutto della sua giornata di elemosina. Quella donna, allora, agli occhi superficiali dona poco, anzi qualcosa che può far sorridere, un'inezia. Ma ad occhi attenti quella donna dona proprio tutto quello che ha, tutto di tutto.
Dio non vuole mai qualcosa di noi ma tutto di noi.
Dio non vuole cose da noi; vuole noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Non vuole qualcosa di noi vuole tutto di noi. Dio vuole che noi, per Lui, ci mettiamo in gioco del tutto. Vuole che per Lui noi cambiamo il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di concepire la nostra fede, che diamo ordine diverso alle nostre priorità.
Tu puoi dare dei soldi per i bambini che soffrono e che muoiono di fame. Molto bene. Ma prenderne uno a casa tua o sentire la sofferenza del loro cuore ti cambia la vita. Tu puoi dare un po' di tempo alla preghiera ma affidarsi a Lui, lasciare che Lui ti trasformi, ti porti dove Lui vuole e tu non vorresti, ti cambia la vita. Tu puoi offrire un po' di disponibilità per gli altri ed è buono, molto buono. Ma cambiare dentro perché gli altri si sentano più compresi da te, perché il tuo amore sia più libero e più vero oppure farne dono per la verità, per la giustizia, perché questo mondo sia più umano, questo ti cambia la vita.
Noi spesso giochiamo con Dio ma Lui, invece, ci chiede di giocarci per Lui. Noi vogliamo che Lui ci sia nella nostra vita ma che non interferisca con le nostre scelte, che non ci sia d'intralcio ma soprattutto che non ci faccia vedere qualcosa che non vorremmo vedere e che non ci chieda di cambiare o di mettere in gioco qualcosa per cui soffriremmo. Magari lo vogliamo tanto, ma volerlo del tutto è su di un altro piano. Solamente chi si da del tutto avrà il Tutto.
Quello che per gli altri era insignificante, banale senza valore, non lo era per Lui.
Tutto risplende nella sua luce! Solo agli occhi di Dio può risaltare, risplendere, l'intensità e il dono di persone povere e umili. Gesù non si scelse i sacerdoti, né i ricchi del tempo, né i sapienti del tempo. Gesù si scelse persone intellettualmente povere, a volte dure e ostinate (vedi Pietro). I dottori, i sapienti, gli scribi, si saranno messi a ridere vedendo quali discepoli si era scelti il Maestro! Ma lui vedeva dentro: forse avevano poco, ma quelle persone erano capaci di dare tutto il poco che avevano.
Non serve chiedersi quanto uno ha, ma quanto può dare. Perché tutto risplende nella tua luce, Signore. Tutto risplende nella tua luce perché tu vedi oltre il poco o il tanto.
Tutto risplende nella luce tua perché il mio buio può essere luce ai tuoi occhi, la mia povertà ricchezza e il mio poco un tesoro inestimabile.
Il tanto di uno è nulla sotto la tua luce. E il niente di un altro è invece tutto.
Perché nella tua luce tutto risplende, tutto ha un significato. Amen.

giovedì 29 ottobre 2009

1 Novembre 2009 - Solennità di Tutti i Santi

Il vangelo di oggi ci propone le beatitudini. Le beatitudini sono il messaggio di Gesù, il suo manifesto, il suo libro di testo, e ci mostrano un’immagine di Dio e un’immagine dell’uomo.
Ci dicono, cioè, chi è Dio e chi è l’uomo per Gesù.
La legge mosaica dei dieci comandamenti diceva cosa bisognava fare e cosa non bisognava fare. Gesù adesso sale sul monte delle Beatitudini e dà le otto beatitudini, otto consigli.
Questa è la nuova e definitiva legge di Dio per tutta l’umanità. Una legge che non dice cosa bisogna fare o non fare, ma come bisogna essere.
Le beatitudini dicono: “Tu puoi essere felice. Tu lo puoi, tutti lo possono”.
Il punto è che non è come comprare un auto o un gioiello: do qualcosa (soldi) e mi viene dato ciò che cerco. Qui non c’è niente da dare, qui c’è da darsi; qui non c’è niente da giocare (punto e spero di vincere!) ma da giocarsi; qui non c’è da fare o non fare qualcosa, ma da essere e vivere qualcosa”.
Le beatitudini ci mostrano cosa possiamo essere. Dappertutto si sentono voci che dicono: “Accontentati, d’altronde non si può avere tutto. Sii soddisfatto di quello che hai: lascia stare certi sogni”.
E, invece, le beatitudini dicono: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole da te e questa è la tua unica felicità. Non hai nemmeno idea di cosa puoi vivere! Non hai nemmeno idea di come puoi sentirti pieno! Non hai nemmeno idea di quanto grande sia il tuo cuore: c’è davvero spazio per tutti; di quanto tu possa amare, di quale profondità tu possa avere nei rapporti; di quanti sentimenti tu possa sentire, percepire e vivere. Non hai nemmeno idea di quanto ti possa sentire ricco (anche se hai ben poco) e ricolmo di vita. Non hai nemmeno idea di quanto possa essere bello, meraviglioso e immenso vivere. Non hai nemmeno idea di che forza hai dentro e di quale coraggio disponi”.
E il fatto che molte persone si mettano a ridere di fronte a tutto questo, dimostra quanto, in definitiva, l’uomo sia infelice.
Le beatitudini non insegnano a non avere contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (ci piacerebbe eh!) ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io” e di noi: “Tu puoi vivere più intensamente di quanto non creda”.
È un’illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo caratterialmente fragili, poiché non ci sentiamo così forti da reggere tutti questi urti, questi scossoni, queste tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben piantate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose. E dicono: “Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c’è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!”.
La paura bussò alla mia porta. Ero terrorizzato. Andai ad aprire e... non c’era nessuno!
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza o al subire.
Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria. La povertà non è bene, ma è la realtà della nostra condizione umana.
Non dicono che è buono essere perseguitati: no, è terribile e crudele. E chi lo cerca è masochista (ammalato!). Ma non si può vivere, essere significativi e pensare che tutti ci accettino. Anche le statue, immobili e senza vita, sono soggette a pareri diversi; perfino sulle idee ci si scontra, figuriamoci se possiamo accontentare tutti!
Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che devo subire tutto. Quando c’è da dire “no” lo dico e con tutta la forza che ho. Ma dentro di me guardo anche la persona ostile e mi dico: “Poverino, ma quanto deve soffrire! Che guerra avrà dentro?” E non giudico, perché non conosco le sue tensioni interne.
Le beatitudini non sono dei comandi: “Devi vivere così”.
Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. È una possibilità: puoi sceglierla oppure no. Vedi tu. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa devo fare per essere un bravo cristiano?”. Sono un cammino per diventarlo.
1. Puoi essere quello che sei.
La cultura dice: “Puoi vivere solo se ti adatti e non disturbi”.
Dio dice: “Ti ho creato così, va bene così”.
Molti di noi, per non avere problemi, per non creare tensioni, per non perdere chi amiamo, accontentiamo tutti (cosa impossibile ma noi ci proviamo!) e così facendo ci allontaniamo così tanto da noi che ad un certo punto ci perdiamo, non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, cosa sia bene per noi. Alcune persone si sono così tanto allontanate da sé stesse da non sapere neppure più cosa provano, cosa vogliono.
Non adattarti a morire; non adattarti a certe situazioni che ti alienano, che ti fanno male; non farti andare bene quello che non ti può andare bene solo per la paura del contrasto; non metterti mai un vestito che non è tuo o vivere una vita che non è tua.
Sii te stesso perché essere qualcos’altro è l’unico fallimento dell’esistenza. Vivi la tua vita perché viverne un’altra non ti potrà mai far felice.
2. Puoi vivere anche se non hai successo.
La società dice: “No, puoi vivere solo se hai profitto, successo o se sei bravo”.
Dio dice: “A me non devi dimostrare niente”.
Molte persone lavorano sempre e di più. Non sono mai capaci di stare ferme, sono sempre in movimento. Tutta questa attività viene giustificata come agire, attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per gli altri, per i figli.
Ma spesso, sotto sotto, c’è dell’altro. Nel profondo credono di non valere, credono di non essere davvero degne d’amore, credono di non essere poi così importanti, e allora tentano di guadagnarselo, di meritarselo, di “comprarselo”.
È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per mio figlio, sarò pure una brava madre, no?”. Ma non è quello che fai che ti fa una brava madre. È ciò che hai dentro che ti fa madre. “Con tutto quello che faccio per gli altri vuoi che Dio non mi ami”. No, Dio non ti ama perché fai tanto. Dio ti ama perché sei tu. E tutto il tuo daffare non ti rende certo più bello o gradito ai suoi occhi: anzi così facendo perdi il tuo tempo, la tua possibilità di essere quello che veramente sei.
Non dobbiamo pensare che tutto (l’amore, la stima, l’affetto) si possa comprare: “Io sono bravo e tu in cambio mi dai attenzioni”. Non dobbiamo diventare “disponibili con gli altri” perché abbiamo un bisogno tremendo di essere visti, accolti e amati.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore sicuro al di là di ogni cosa!
3. Puoi esprimere ciò che senti.
La cultura dice. “No, non esprimere i tuoi sentimenti e soprattutto alcuni nascondili”.
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”.
Molte persone hanno imparato che non è bene farsi vedere deboli, che chi è forte non piange mai. Così per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma non sono forti, sono rigidi (il che è molto diverso!).
Cioè: il pianto è la reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha provocato dolore. Smettere di piangere non ci fa meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo: e così facendo ci teniamo dentro la tensione e il dolore che, invece, hanno bisogno di uscire; ci nascondiamo la verità: crediamo che tutto vada bene (non piangiamo!) e invece dentro il dolore urla.
Molte persone credono che arrabbiarsi sia male. “Non essere arrabbiato con i tuoi fratelli; il bravo cristiano non s’arrabbia mai”. E, invece, è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni d’ira. Ogni volta che siamo feriti, viene ferita la nostra dignità: è naturale quindi che noi, giustamente, reagiamo, che ci arrabbiamo.
L’importante è che questa reazione non rimanga “dentro”, non deve “bollire” dentro di noi (ecco il ri-sentimento): è necessario che un chiarimento, una spiegazione pacata riporti la serenità.
Quando sono arrabbiato devo accettare di esserlo, vuol dire che c’è un motivo per cui lo sono. Magari ho ingigantito un fatto, l’ho interpretato con occhio permaloso, ma la mia rabbia ha comunque motivo d’esserci, e ne devo prendere atto. Solo così posso iniziare a gestirla e a buttarla fuori, senza sfogarmi con parole acide, taglienti, giudicanti.
Molte persone hanno imparato che non si deve avere paura e, così dicono loro, non hanno paura di nulla: ma la realtà è che non la sentono. Aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura.
La paura è solo un avvertimento: “Qui c’è qualcosa di pericoloso”. Bene: quando lo sai, hai il tempo di decidere cosa fare. Non devo nascondere la paura dietro ad un volto lieto o ad una espressione sorridente. Non devo resistere alla paura con tutte le mie forze, ignorarne l’esistenza e cercare di dominarla con una volontà ferrea. La paura mi appartiene. Mi dice che ciò che sto facendo mi costa, mi mette in gioco, è qualcosa d’importante, ma devo sapere che io non sono solo e – con l’aiuto di Dio – posso vincere qualunque paura!.
Altre persone invece hanno paura di tutto: si vergognano da morire per come hanno vissuto o per ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore così grande da poter contenere ogni cosa, che Lui non ha paura di ciò che a noi invece fa paura o ci fa sentire in colpa; che la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta, qualunque cosa abbiamo fatto.
Allora non mi devo nascondere più nulla, perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle mie “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che io non riesco ad amare.
E se non ho assolutamente nulla da nascondere ai suoi occhi, allora veramente sono libero e liberato.
4. La povertà è la nostra unica e reale condizione.
La prima beatitudine (forse Gesù ha pronunciato solo questa o solo le prime tre) le racchiude tutte. Il povero del vangelo è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso.
Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa distaccato, nel senso di chi vive dentro le cose, totalmente immerso in esse, ma senza attaccarsi ad esse: vive “distaccato”, perché sa che quando è ora deve lasciare tutto; nudo è nato e nudo uscirà da questa vita.
La povertà, l’essere nulla (che è diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. La realtà è che io non possiedo nulla. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
La prima beatitudine ci rivela infatti la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ti appoggi? Su cosa puoi davvero con-fidare? Sulle cose? Passano tutte e si usurano. Sulla gloria? Rimane forse un nome ma tu non ci sei più. Sulle persone? Non ti salvano. Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa dove ci si può appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Noi siamo zero. Ma nella lingua ebraica “zerà” oltre che significare il nostro “zero” “niente” vuol dire anche “seme”. Noi siamo zero, nulla, vuoti, poveri del tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere niente, come in un seme, è nascosto il nostro essere tutto.
Nel nostro essere niente c’è il Tutto. Nel nostro essere poveri c’è la Ricchezza. E più io mi spoglio e smetto di con-fidare in me e più posso ri-mettermi nelle mani di Dio ed essere al sicuro.
Quando non avrai più nulla, allora avrai il Tutto. E quando sarai spoglio di ogni cosa, allora sarai vestito d’eternità. E quando tutto morirà, allora sarà la Vita. E quando tutto cadrà, allora sarà l’inizio.
Sì, perché Dio è l’unica fortezza incrollabile.

giovedì 22 ottobre 2009

25 Ottobre 2009 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Anche l’uomo distratto e superficiale percepisce la bellezza del cielo stellato, del giardino fiorito, della distesa del mare, del picco roccioso. L’ammirazione e l’apprezzamento estetico non bastano. Occorre andare oltre per approdare all’origine di tutto. Vi si arriva con gli occhi limpidi, quelli del cuore, capaci di penetrare il dato esteriore. Tali occhi sono aperti solo dalla bontà misericordiosa di Gesù che ci conduce al “mistero”: Egli è pronto ad aprire anche i nostri occhi se, come Bartimeo, siamo capaci di gridare a Lui; «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me»! E il grido non rimane inascoltato. Gesù non delude mai una persona in ricerca, non tradisce un amore che sa pagare di persona, non dimentica una fedeltà a tutta prova. Il problema del cieco diventa il suo problema, il suo isolamento lo tocca da vicino a tal punto che interviene per superarlo. E la storia si ripete all’infinito. Gesù non è mai sordo ai nostri problemi, anche se i suoi tempi non sono necessariamente i nostri, e le sue modalità spesso diverse dalle nostre aspettative.
È Gesù Cristo che chiama tutti, anche i deboli, gli zoppi, i ciechi al grande ritorno e li colma di consolazione e di gioia.
Si tratta della nostra conversione, alla quale siamo chiamati continuamente.. Essa è un ritorno: si tratta di fare a ritroso il cammino percorso nell’allontanarci da Dio. È la liberazione da una schiavitù umiliante, la riscoperta di una gioia, prima dimenticata: quella di sentirci circondati dalle braccia amorose del Padre che ci accoglie di nuovo nel suo amore.
Incomincia con una manifestazione di Gesù nella vita dell'uomo: è necessario che Cristo passi di là. Ma questa manifestazione è misteriosa: il cieco che rappresenta l'uomo sulla via della fede, non vede Gesù; intuisce soltanto la presenza del Signore negli avvenimenti, ma esprime già la sua fede rimettendosi alla iniziativa salvifica di Dio. Questa apertura a Dio è subito contestata dal mondo che lo circonda ed è necessario tutto il coraggio per mantenere il proposito di apertura all'uomo-Dio. Il candidato alla fede si sente così oggetto della attenzione di alcuni che gli rivelano la chiamata di Dio, lo incoraggiano e lo invitano a convertirsi.
Allora si intreccia il dialogo finale: «Che vuoi?...». Si tratta dell'impegno definitivo, presentato sotto forma di domanda e di risposta, per mettere bene in risalto la libertà totale delle due parti che contraggono l'alleanza.
Infine, la vista è restituita al cieco come una visione della fede che lo impegna immediatamente a “seguire Cristo «per la strada”.
Seguire la chiamata di Dio ha sempre voluto dire lasciare qualcosa dietro di sé, andare verso l'ignoto (Abramo), rinnegare la logica della carne e delle sicurezze umane per affidarsi totalmente al Dio delle promesse. Questo diventa più difficile oggi. Se nel passato la fede poteva costituire una spiegazione o una interpretazione dell'universo, un luogo di sicurezza di fronte alle assurdità della storia e al mistero del mondo, oggi non è più così.
In un mondo come il nostro non c'è più posto per una fede anonima, formalistica, ereditaria.
È necessaria una fede fondata sull'approfondimento della Parola di Dio, sulla scelta e sulle convinzioni personali. Una fede consapevolmente abbracciata e non passivamente ricevuta in eredità. Tutto questo comporta un nuovo modo di affrontare il problema della nostra Iniziazione Cristiana, un nuovo modo di considerare la vita cristiana e i Sacramenti.
Il cristiano deve percorrere (o meglio ripercorrere) non tanto un cammino fatto di tappe e di gesti sacramentali, quanto piuttosto un itinerario di fede, un “catecumenato restaurato”, senza del quale non hanno senso né efficacia i gesti sacramentali donati a scadenze fisse.
Il cammino di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare: Gerico è l’ultima tappa e qui la guarigione di un cieco offre nel racconto di Marco il grande insegnamento del discepolato. “Poter vedere” è la domanda giusta da rivolgere al Maestro: questa volta Egli l’approva e l’esaudisce. È il discepolo stesso, un mendicante cieco, che ha bisogno di guarigione per poter vedere come Gesù, per poter seguire Gesù sulla sua strada.
C’è qualcosa che accomuna noi, cristiani intiepiditi, con il cieco del vangelo che torna a vivere. Qualcosa che anima i nostri passi mentre cerchiamo di riprendere il cammino al seguito di Gesù. È la fede.
È Dio che ci ha raggiunti, lo abbiamo riconosciuto nel suo continuo svelarsi e nei segni tangibili della nostra vita al buio; e ora, corroborati interiormente dalla sua presenza, sappiamo che Dio è con noi nonostante il possibile, apparente silenzio che anima i nostri giorni. Gridiamo, allora, al Signore: gridiamo dal profondo del nostro cuore, perché anche noi vogliamo riacquistare la vista per poterlo riconoscere nei fratelli e un giorno vederlo come Egli è, e irrobustire la nostra fede nel Dio fedele che ci chiama alla salvezza.
Come per il cieco nato, così per ciascuno di noi, la fede domanda sempre di essere professata, celebrata, vissuta. In particolare, il “viverla” è il modo più forte per “professarla”, oltre che il modo più genuino per “celebrarla”. Il cristiano, diventato “figlio della luce” grazie al dono battesimale della fede, è chiamato a comportarsi come tale. Solo così non smentisce la sua identità! Se la fede definisce l’essere stesso del credente, non può non esprimersi e non attuarsi nella vita quotidiana, nelle scelte e nelle azioni dell’esistenza.
I “figli della luce” sono veramente tali quando compiono le “opere della luce”, ossia imitano e condividono gli atteggiamenti e lo stile di vita di Gesù.